mercoledì 31 dicembre 2014

Mettere giudizio

gusto

Il buon sapore del cattivo gusto
di Severino Cesari

Vi sentite «immersi fino al collo» nel «cattivo gusto»? Non disperate. Quello splendido scrittore che è stato Gilbert Keith Chesterton, l'inventore di padre Brown, non si vergognava di farsi scoprire da Emilio Cecchi, nella primavera del 1920, mentre «usciva da un cinema di terzo ordine dove si proiettava nientemeno che una Gerusalemme liberata». Come farsi scoprire oggi da Sanguineti o Arbasino all'uscita da Demoni.
Se poi andiamo a leggere, di Chesterton, un lieve libretto intitolato in italiano Il bello del brutto, curato da Attilio Brilli per Sellerio, scopriamo con una certa sorpresa, da perfetti ingenui, che noialtri veementi rivalutatori delle forme un tempo considerate «basse» di letteratura (o del gusto, o della sensibilità), e ansiosi spesso di giustificare «teoricamente» il nostro amore per Dallas o Sentieri, non abbiamo infine scoperto granché di nuovo. Ecco, in Chesterton, una paradossale, eppure molto convinta difesa dei romanzi d'appendice, degli scheletri, della pubblicità, del nonsense, delle pastorelle di porcellana, del brutto, del culto dei bambini, dei racconti polizieschi, e — ahimè — anche del patriottismo. Forme, tutte, in cui, in modi diversi, il mondo continua a mostrarsi nuovo e sorprendente, agli occhi di quello che Chesterton chiama «l'uomo medio», per il quale «questo pianeta è come la nuova casa nella quale ci siamo appena trasferiti, armi e bagagli».
Un esempio? C'è una poesia delle città moderne, scrive Chesterton, che solo la letteratura poliziesca (e, aggiungeremmo noi, il cinema) è riuscita a cogliere in pieno. Ogni mattone di Londra «reca un geroglifico umano, come se fosse una pietra incisa di Babilonia; ogni tegola d'ardesia è un documento didattico, al pari di una lavagna piena di addizioni e sottrazioni».
Non sembra si tratti, qui, di contrapporre ai limiti del buon gusto le famose «buone cose di pessimo gusto» di gozzaniana memoria. Quando Chesterton fa coincidere la sua idea di gusto con questo «gusto del nuovo» e del «sorprendente», nelle sue parole sembra risuonare una celebre definizione del gusto, lontanissima invece dal nuovo mondo delle classi medie che nelle parole dello scrittore inglese sta già prendendo piena coscienza di sé.
«Il gusto naturale - leggiamo alla voce Gusto dell'Enciclopedia di Diderot e D'Alembert - non è una scienza teorica; è l'applicazione pronta e squisita di regole che neppur si conoscono. Non è necessario sapere che la sorpresa è la causa del piacere che ci da una certa cosa, che troviamo bella; basta che ci sorprenda, nel modo opportuno, né più né meno».
Ma il gusto di cui trattano gli illuministi, e che nella filosofia di Kant diventerà la capacità di pronunciare quella tipica forma di giudizio con cui si distingue il bello dal brutto, è piuttosto un ideale di cultura, nel cui concetto è compreso il riferimento a un modo di conoscenza.
«Il gusto — scrive Hans Georg Gadamer in "Verità e metodo", Bompiani — è piuttosto qualcosa come un senso. Non dispone preliminarmente di una conoscenza su basi dimostrative. Quando, in questioni di gusto, qualcosa è negativo, esso non sa dire perché. Ma il gusto sperimenta questo con la più assoluta certezza».
O in altre parole, secondo Giorgio Agamben, che ha scritto la voce Gusto nell'Enciclopedia Einaudi: gusto è «un sapere che non può dar ragione nel suo conoscere, ma ne gode», ed è quindi un «altro sapere» ; ma al tempo stesso è un «piacere che conosce e giudica», ed è quindi un «altro piacere».
In questa interpretazione il «gusto», per la sua natura duplice di piacere della conoscenza e conoscenza del piacere, diventa «luogo privilegiato in cui emerge alla luce la frattura dell'oggetto della conoscenza in verità e bellezza», e la frattura del fine etico dell'uomo in «conoscenza e piacere», frattura che caratterizzerebbe «in modo essenziale la metafisica occidentale». E che potrebbe dunque sanarsi solo nell'ideale «gustativo» di un sapere in cui verità e bellezza comunicano, e di un piacere in cui piacere e conoscenza si uniscono.
Non è affatto certo però — ci sembra - che questa unione inedita di verità e bellezza, sapere e conoscenza, avverrà necessariamente sotto le bandiere del «buon gusto». Perché «buon gusto» non è più, appunto, sinonimo di «gusto». Il «gusto sicuro» degli illuministi e di Kant trae la sua specifica forza normativa - che prescinde dalle preferenze del singolo e dalle inclinazioni private dell'individuo, ed è perfino capace di opporsi alle mode, o di guidarle - da un'aristocratica libertà e superiorità, possibili solo nel cerchio magico del consenso di una ideale comunità di spiriti liberi e superiori. E' la comunità degli «uomini di gusto», qualcosa che è esistito nella storia dell'occidente solo a partire da un'epoca ben precisa, e in un limitato arco di tempo.
«Intorno alla metà del secolo diciassettesimo — scrive ancora Agamben in suo saggio raccolto in "L'uomo senza contenuto", Rizzoli, un libro del 1970 — appare nella società europea la figura dell'uomo di gusto, cioè dell'uomo che è fornito di una particolare facoltà, quasi di un sesto senso come si cominciò allora a dire - che gli permette di cogliere il point de perfection che è caratteristico di ogni opera d'arte».
E' quell'uomo di gusto, espressione di una ormai irrimediabile lacerazione tra l'artista e la sua funzione sociale, tra arte e società, che proietterà ormai come propria inseparabile ombra, suo mortale fratello-nemico, il concetto stesso, prima ignoto, di cattivo gusto. Fino a una certa famosa dichiarazione di guerra, o colpo di scopa, che spazzerà via insieme i due inestricabili fratelli...
...«Mi piacevano i dipinti idioti, soprapporte, scenari, tele di saltimbanchi, insegne, miniature popolari; la letteratura fuori moda, latino di chiesa, libri erotici senza ortografia, romanzi delle bisnonne, racconti di fate, libretti per l'infanzia, vecchie opere, ritornelli insulsi, ritmi ingenui»...
Una descrizione così esatta del nostro gusto di spettatori, che avrà certo incontrato l'approvazione di Chesterton, non proviene da una recensione ritardataria a "Quelli della notte" di Renzo Arbore, ma dalla "Alchimia del verbo" del poeta Arthur Rimbaud. Una lapide sulla tomba dell'uomo di gusto.
Questa definizione del cattivo gusto, scrive ancora Agamben, «è diventata talmente famosa che stentiamo ad accorgerci che, in questo elenco, si può ritrovare tutto l'outillage familiare della coscienza estetica contemporanea; sul piano del gusto, quel che era eccentrico al tempo di Rimbaud, è diventato qualcosa come 'il gusto medio' dell'intellettuale, ed è penetrato così profondamente nel patrimonio del 'bon ton' da costituire ormai un vero e proprio segno distintivo».
Qui annega ogni pretesa attuale di «buon gusto»: chi grida al «cattivo gusto», o alla fine dei «valori» risultante da una confusione di gusto, coglie un problema, e manca però la presa. Perché è già immerso «fino al collo» in una volgarissima, colloidale sospensione di buono e cattivo gusto, nata dalla immane estensione storica (sì, proprio) dei «soggetti» i cui desideri, aspirazioni, sogni determinano il gusto (costringendo, per esempio, i pubblicitari a una continua rincorsa, una realtà che spesso dimentichiamo, insistendo sul condizionamento). Più interessante è allora spiare i segnali rivelatori, nel gusto, del formarsi di nuovi possibili leader molecolari (rubo il termine a Gian Paolo Ceserani, "Mondo medio", Mondadori; e anche, con Eco e Placido, "La riscoperta dell'America", Laterza) della cultura di massa. Una terza, o meglio una nuova via tra l'esaurimento dei prodotti e dei luoghi artistici di élite (la Gioconda non è stata «pensata» per il consumo di milioni di persone; anche se può diventare, non certo essere già, un «valore» per miliardi di persone) e la semplice rifrittura di scampoli a basso prezzo e bassa intensità di intelligenza, per il volgo, elargiti naturalmente dai soliti pochi.

- Severino Cesari, ottobre 1985 -

martedì 30 dicembre 2014

A pezzi

zoo

Prima della rivoluzione, al culmine del formalismo russo, Viktor Sklovskij dedicò molto del suo tempo al "Tristram Shandy" di Sterne - libro paradigma delle sue teorie, un libro che fa riferimento a sé stesso, a quello che accade nel corso della sua lettura e, in questo pensare a sé stesso, si interroga circa i procedimenti che lo rendono possibile, andando avanti e indietro nel tempo e, soprattutto, ricordando continuamente al letto la sua natura, la sua condizione di artificio.
Anche "Zoo, lettere non d'amore" persegue un tale modello: frasi brevi, tagliate; lettere che si interrogano circa il contenuto di altre lettere, precedenti; lettere che proclamano, quasi certificano, l'inesistenza della destinataria, della destinazione, del destino, e del contenuto stessa, del tema della lettera ("Alya è solamente la realizzazione di una metafora" - Lettera XXIX). Il rapporto con il quotidiano viene inter/rotto dall'enunciato di una parabola arcaica:

"In una leggenda bogomila, Dio vuole prendere della sabbia dal fondo del mare.
Ma Dio non vuole tuffarsi sott’acqua. Manda il diavolo e gli ordina: «Quando la prenderai, di’: “Non sono io che prendo, è Dio che prende”».
Il diavolo si tuffò verso il fondo, si contorse fino al fondale, afferrò la sabbia e disse: «Non è Dio che prende, sono io che prendo».
Un diavolo pieno di amor proprio.
La sabbia non cedette. Il diavolo riemerse, livido.
Dio lo mandò di nuovo in acqua.
Il diavolo raggiunse il fondo nuotando, raschiò la sabbia con le unghie, disse: «Non è Dio che prende, sono io che prendo».
La sabbia non cedette. Il diavolo riemerse, senza fiato. Per la terza volta Dio lo mandò in acqua. Nelle fiabe si fa tutto tre volte.
Il diavolo capì che non aveva scampo.
Non volle rovinare l’intreccio. Forse si mise a piangere, ma si tuffò. Nuotò sino al fondo e disse: «Non sono io che prendo, è Dio che prende». Prese la sabbia
e riemerse. E Dio, con la sabbia che il diavolo, per ordine divino, aveva preso dal fondo, creò l’uomo."

Lettere su lettere; lettere d'amore che non possono parlare d'amore. E Alaya gli scrive che "Tu dici di sapere com’è fatto il Don Chisciotte, ma non sei capace di scrivere una lettera d’amore."
Il romanzo eterno come storia d'amore eterna, e non perché sia interminabile, o inesauribile e totale, ma perché ricomincia incessantemente, in ogni lettera, a partire dagli elementi dati che vengono continuamente ricombinati e rimontati, dopo essere stati fatti ogni volta a pezzi.

lunedì 29 dicembre 2014

Vestire i libri

Sciascia

Sciascia. I risvolti sequestrati
di Giuseppe Traina

Scrive il curatore di questo libro importante che Leonardo Sciascia "i libri li pensava vestiti": si riferisce al gusto quasi ineguagliabile che Sciascia ebbe per la cura dei libri che faceva pubblicare ai suoi editori, prima Salvatore Sciascia poi Elvira Sellerio (ma potremmo aggiungere che il suo parere molto influì, nei suoi anni estremi, su molte scelte editoriali di Bompiani e Adelphi). Nel caso, poi, della collana "La civiltà perfezionata" di Sellerio, i libri erano lussuosamente vestiti da copertine appositamente richieste ai maestri contemporanei del disegno e dell'incisione.
La metafora del libro vestito (non sarà inutile ricordare che Sciascia, da ragazzino, fu apprendista sarto) si arricchisce di ulteriori risonanze etiche se pensiamo a quel che egli una volta scrisse del Settecento: "Direbbe Giraudoux: il secolo che ha vestito l'Europa (evidentemente conferendo al vestirsi più civiltà che al denudarsi: debol parere anche mio)". Vestire un libro, dunque, così come vestire se stessi, è innanzitutto un atto di civiltà, quasi un dovere etico per un editore. Di questo dovere etico (verso il lettore, verso se stessi) è parte integrante la stesura del risvolto di copertina, il mezzo con cui il libro si presenta al lettore, anzi all'acquirente che lo sfoglia in libreria. La stesura del risvolto, se non è affidata all'autore stesso del libro, è competenza del direttore editoriale o del direttore della collana: Sciascia fu entrambe le cose, e mai ufficialmente, per Sellerio. Fu soprattutto, attingendo alla sua sterminata memoria di lettore e di cultore della memoria, uno straordinario suggeritore di libri da pubblicare: tanto che, fino a due mesi prima di morire, ricordò a Elvira Sellerio che si sarebbe dovuto stampare la Germania di Tacito, tradotta da Marinetti, nella collana che più sentiva sua, cioè "La memoria" dall'impareggiabile copertina blu (plagiata da altri editori, e da Bufalino, in Qui pro quo elevata a comparsa di romanzo).
Scopriamo adesso, grazie al libro Leonardo Sciascia scrittore editore ovvero La felicità di far libri (a cura di Salvatore Silvano Nigro, pp. 315, € 10, Sellerio, Palermo 2003) - la distribuzione del quale è stata bloccata dagli eredi di Sciascia che lamentano di non averne autorizzato la pubblicazione -, che lo scrittore racalmutese non si limitava a suggerire libri da pubblicare o a scrivere i risvolti di copertina per le collane da lui ideate ("La memoria" e "La civiltà perfezionata", ma anche "La diagonale" e "Quaderni della Biblioteca siciliana di storia e letteratura"): apprendiamo dalla Testimonianza di Maurizio Barbato, successiva al saggio introduttivo di Nigro, che arrivava a occuparsi personalmente degli aspetti più tecnici della nascita di un libro, dalle schede per la stampa e i venditori alla stesura dei rendiconti commerciali.
Veniamo ora ai risvolti, per dire subito che è innanzitutto opera meritoria che in tal modo siano raccolti quelli della "Memoria" (ad essi sono aggiunti quelli stesi per le altre collane nonché i testi scritti per due importanti antologie selleriane: La noia e l'offesa e Delle cose di Sicilia), dopo che già l'editoria italiana ha saputo conservare quelli di altre importanti collane fortemente legate al loro ideatore, come i "Gettoni" o la "Biblioteca delle Silerchie". Perché, scrive Nigro, "un libro da pubblicare è un atto di critica": al momento della sua scelta e nell'estensione di uno scorciatissimo giudizio critico, che deve anche sinteticamente informare, com'è il risvolto. E ben nota ai lettori di Pirandello e la Sicilia o di Cruciverba la finezza di Sciascia critico letterario; ma i suoi risvolti ne fanno apprezzare la capacità di far critica con le armi più squisite della scrittura, con un aggettivo o un avverbio, con un ammiccamento trasversale (si veda la scelta di spiegare Max Beerbohm con Rene Clair) o con una citazione, ma di quelle che "non hanno le unghie dipinte", per dirla con la prosa fantasiosa di Nigro. Tutto sciasciano era poi il dono di sapere riportare i libri meno recenti alla loro valenza politica d'attualità, talché ripubblicarli assumeva una valenza pedagogica o polemica sintonizzata sui suoi crucci per le vicende italiane e qui testimoniata da alcuni testi pubblicati negli anni della sua esperienza parlamentare: dal bellissimo Procuratore della Giudea di France (che Sciascia stesso tradusse) al Jonathan Wild di Defoe, dal Villaggio di Stepàncikovo di Dostoevskij alla sempiterna Colonna infame.
Ma "una biblioteca d'autore è un autoritratto d'artista: un'autobiografia culturale e autorizzata, che si dà tutta insieme in ogni numero della collana e in sequenza" (Nigro). Le scelte per "La memoria" confermano in buona parte il ritratto d'artista che conosciamo, ma ne allargano i contorni ad aspetti meno noti, come l'interesse per la cultura anglosassone (ben nutrita, in gioventù, dai saggi critici di Cecchi prima ancora che da Americana) o l'attenzione alla cultura classica (che si rapprende nella figura di una fine saggista, Lidia Storoni Mazzolani); e alle altre "vene" che scorrono all'interno di quel corpo pulsante che è una collana: la scrittura femminile, l'evocazione di microcosmi paesani ormai confinati nel passato, la rappresentazione degli orrori della guerra, la godibilità della lettura come valore assoluto; e la vena forse più utile a capire la scrittura dello Sciascia narratore in proprio, voglio dire l'attrazione per libri scritti con vivissimo il gusto dell'intreccio o, come scrive a proposito di un poco noto racconto lungo di Moravia, "racconti di intreccio o - per usare un suo titolo - d'imbroglio. D'imbroglio, si capisce, magistralmente seguito e dipanato; e cioè inventato con divertimento e con divertimento raccontato e risolto".

- Giuseppe Traina - 9 settembre 2003 -

domenica 28 dicembre 2014

La soglia del dolore

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Il consumo del futuro
di Robert Kurz

La crisi - che sia per ora contenuta oppure che si aggravi ulteriormente - è essenzialmente una crisi cosiddetta del debito. Ma che cosa significa questo?
Significa che il capitale produttivo viene ottenuto per mezzo del denaro del sistema bancario. Pertanto, deve condividere il suo lucro con il capitale finanziario, cui bisogna pagare gli interessi, in quanto prezzo del denaro prestato. Però, se il capitale produttivo non arriva ad ottenere lucro sufficiente, si verifica una crisi, tanto per il debitore quanto per il creditore. Il "pregiudizio popolare" (Marx) ama dare la colpa di questo al capitale finanziario, "avido", che vuole arricchirsi in maniera improduttiva. Ma allora la domanda è perché si renda necessario, per la produzione del capitale, chiedere denaro in prestito al fine di poter pagare i mezzi di produzione. E' qui che sta il punto, e non nella "malvagità" del capitale finanziario.
La concorrenza obbliga ad un aumento incessante della produttività, e questo è possibile solo per mezzo dell'utilizzo di un aggregato scientifico e tecnico sempre in crescita. Marx ha mostrato come in questo modo si aumenti sempre più la parte di capitale reale morto - il quale non crea nuovo valore - nei confronti della parte di forza lavoro - che è l'unica a creare valore addizionale. Le statistiche borghesi dicono la stessa cosa, quando stabiliscono che i costi di un posto di lavoro aumentano costantemente con l'aumentare dell'intensità del capitale. In altre parole, i precedenti costi morti, necessari alla produzione di capitale, non possono più essere finanziati dagli utili correnti. Da qui il ricorso al credito, per poter pagare il crescente capitale reale. Nel XX secolo, il problema del debito si è esteso dal capitale produttivo fino allo Stato ed ai bilanci privati. Anche la spesa pubblica in infrastrutture ed il consumo privato hanno smesso di essere finanziabili attraverso i ricavi correnti reali, e possono essere finanziati solo per mezzo del credito.
Ma il mega-indebitamento a tutti i livelli non è altro che l'anticipazione dei futuri profitti, dei salari e delle tasse sui processi reali di produzione. Questo "consumo del futuro" - la cui realizzazione si allontana sempre più - diventa crisi generale e rompe così le catene del credito. Questo si applica a tutte le parti interessate, incluso lo Stato. Si parla ora di "peccatori del deficit" e di comportamenti finanziari dubbi. Si afferma che non dobbiamo vivere a spese delle generazioni future. E che sarebbe necessaria una nuova "morale del padre di famiglia" sostenuta da una volontà di ferro volta al risparmio. Nella realtà, però, non si parla di alimenti, vestiario, abitazioni e strumenti futuri da consumare, ma si tratta solamente di rendimenti futuri sempre più illusori, per poter continuare ad utilizzare tutti i giorni risorse materiali che sono abbondantemente disponibili.
Questa assurdità pone in evidenza come il capitalismo sia un fine in sé stesso volto ad aumentare astrattamente il denaro e che non ha niente a che vedere con la soddisfazione efficiente delle necessità, come pretendono i suoi apologeti. Il denaro non è una risorsa reale, ma è una forma feticistica delle risorse reali. E la crisi globale del debito è il risultato del tentativo disperato - per mezzo del "consumo del futuro" gonfiato attraverso ricavi in denaro che non si verificheranno mai - di mantenere le vaste forze produttive dentro i limiti del fine (in sé) capitalista, nonostante il fatto che queste forze produttive siano da molto tempo già cresciute ben oltre tali limiti. Si pretende che ora si debba vivere peggio e che vadano disattivate tutte le risorse, che però sono intatte, incluse le cure mediche, e questo perché il capitalismo ha già consumato il suo proprio futuro. La soglia del dolore è già stata raggiunta, e non solo in Grecia. Ma la coscienza sociale non ha ancora appreso ad utilizzare, facendo uso di una logica differente, le risorse "inutilizzate".

- Robert Kurz - Pubblicato il 10/1/2011 su  Neues Deutschland -

fonte: EXIT!

sabato 27 dicembre 2014

A qualsiasi prezzo

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“Il lavoro deve regnare su tutto, solo l'ozioso sarà schiavo, il lavoro deve regnare sul mondo, perché il mondo esiste solo grazie a lui."  - Friedrich Stampfer, L'onore del lavoro, 1903 -

Il movimento operaio classico, che raggiunse il suo apice solo dopo la sconfitta delle antiche rivolte sociali, smise di lottare contro il lavoro e le sue scandalose esigenze, ma praticamente sviluppò una sovraidentificazione in quello che gli appariva come ineluttabile. Aspirava soltanto a dei “diritti” e a dei miglioramenti nel quadro della società del lavoro, di cui aveva già largamente interiorizzato i vincoli. Invece di criticare radicalmente la trasformazione di energia umana in denaro, in quanto irrazionale fine in sé, esso stesso adottò in prima persona il “punto di vista del lavoro” e concepì la valorizzazione come un fatto positivo.
Così il movimento dei lavoratori ereditò a modo suo la tradizione dell’ assolutismo, del protestantesimo e dell’illuminismo. L’infelicità del lavoro venne mutata in falso orgoglio del lavoro, che ridefinì la riduzione dell'individuo a materiale umano dell'idolo moderno, facendola diventare un “diritto dell'uomo”. Gli iloti addomesticati dal lavoro invertirono per così dire i ruoli ideologici, e diedero prova di zelo missionario, reclamando da una parte il “diritto al lavoro” e, dall’altra, il “dovere di lavorare per tutti”. La borghesia non venne più combattuta in quanto "funzionaria" della società del lavoro, ma venne, al contrario, trattata da “parassita” proprio in nome del lavoro. Tutti i membri della società, senza eccezione alcuna, dovevano essere arruolati a forza negli “eserciti del lavoro”.
Il movimento dei lavoratori divenne così un acceleratore della società del lavoro capitalistica. Nell'evoluzione del lavoro, fu lui ad imporre, contro gli ottusi "funzionari" borghesi del XIX e dell'inizio del XX secolo, le ultime tappe dell'oggettivazione; così come un secolo prima la borghesia aveva avuto la successione dell'assolutismo. La cosa fu resa possibile unicamente perché, nel corso della deificazione del lavoro, i partiti operai ed i sindacati si riferivano in maniera positiva all'apparato statale e alle istituzioni dell'amministrazione repressiva del lavoro, che essi non volevano affatto sopprimere bensì occupare in una sorta di "marcia attraverso le istituzioni". Così, essi proseguirono, come precedentemente aveva fatto la borghesia, la tradizione burocratica della gestione degli uomini nella società del lavoro cominciata a partire dall'assolutismo.
Ma l’ideologia di una generalizzazione sociale del lavoro necessitava però anche di un nuovo rapporto politico. Nella società del lavoro, che si era ancora imposta solo a metà, bisognava rimpiazzare l'ordine corporativo ed i suoi differenti "diritti" politici (il diritto di voto censitario, ad esempio) con l'ordine democratico generale dello "Stato del lavoro". Per far questo, bisognava regolare, secondo i precetti dello "Stato sociale", le differenze di regime nel funzionamento della macchina della valorizzazione, affinché questa determinasse immediatamente l'intera vita sociale. Anche in questo, è il movimento operaio che viene a fornire il paradigma. Con il nome di "socialdemocrazia", esso diventa il grande "movimento di cittadini" della storia, movimento che tuttavia non potava rivelarsi altro che una trappola per gli stessi che lo avevano fondato. Poiché, in democrazia, tutto è materia di negoziazione, salvo i vincoli della società del lavoro, i quali vengono presupposti come postulati. Sono discutibili solamente le modalità e le forme di sviluppo di tali vincoli. La scelta può avvenire solo fra Dash e Dixan, fra la peste ed il colera, fra la volgarità e la stupidità, fra il PD e Forza Italia.
La democrazia della società del lavoro è il più perverso sistema di dominio della storia: un sistema di auto-oppressione. Ecco perché questa democrazia non organizza mai la libera autodeterminazione dei componenti della società riguardo le risorse comuni, ma unicamente la forma giuridica delle monadi del lavoro, socialmente separate le une dalle altre, che devono concorrere per poter vendere la loro pelle sul mercato del lavoro. La democrazia è l'opposto della libertà.
E' per questo che gli uomini del lavoro democratico si dividono necessariamente in amministratori ed amministrati, in datori di lavori e dipendenti, in élite funzionali e risorse umane. I partiti politici, soprattutto i partiti operai, riflettono fedelmente questo rapporto nelle loro strutture.
Il fatto che ci siano leader e militanti, personalità ed attivisti, clan e simpatizzanti testimonia un rapporto che non ha niente a che vedere con un dibattito aperto e con un processo di decisione comune. Che le stesse élite non possano essere altro che funzionari assoggettati all'idolo Lavoro ed ai suoi ciechi decreti, fa parte integrante della logica di questo sistema.
Al più tardi a partire dal nazismo, tutti i partiti sono allo stesso tempo partiti dei lavoratori e partiti del capitale. Nelle società "in via di sviluppo" dell'Est e del Sud del mondo, il movimento operaio si è trasformato in partito-Stato incaricato di realizzare, per mezzo del terrore, la modernizzazione tardiva del paese; ad Ovest, in un sistema di "partiti popolari" dotati di programmi intercambiabili e di figure rappresentative mediatiche. La lotta di classe è finita perché è finita la società del lavoro. Nella misura in cui il sistema deperisce, le classi si rivelano per essere delle categorie socio-funzionali di un sistema feticistico comune. Quando la socialdemocrazia, i Verdi e i vecchi comunisti si mettono in mostra nella gestione della crisi e sviluppano i più abietti programmi repressivi, dimostrano di essere i degni eredi di un movimento operaio che ha sempre voluto solo il lavoro, a qualsiasi prezzo.

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- Estratto da: Krisis - Manifesto contro il Lavoro - 1999 -

venerdì 26 dicembre 2014

Tiqqun e dintorni

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In questo testo scritto durante l'estate del 2008, non si fa accenno al cosiddetto "affaire des neuf de Tarnac", della loro paradossale difesa e della propaganda che voleva far credere alla rinascita di un supposto "terrorismo" definito dallo Stato come "di ultrasinistra" o "anarco-autonomo". (1)
Questo testo include soprattutto la critica di tutte le basi filosofiche e pseudo-teoriche dei vari scritti del movimento, a partire da "Tiqqun" (volume 1, e 2), "L'appello", "L'insurrezione che viene", "Rotture", fino all'ultimo disponibile ad oggi, "A nos amis", che non sono altro che l'eterna ripetizione degli stessi presupposti. Il testo consta di quattro parti:
- Rimostranze ed incantesimo di una nuova "coscienza di sé"
- Spirito ci sei? Teoria della comune, della liberazione e del ritorno dell'essere
- Comuni per l'insurrezione: la questione della fascinazione per il disastro e la violenza
- La catastrofe come benedizione: un insurrezionalismo messianico

Critica de "L'insurrezione che viene" del Comitato Invisibile
(ma anche di Tiqqun, L'appello, Rotture, A nos amis ...)
di JV. e Clément H.

L'insurrezione che viene... Dopo il suo titolo accattivante, questo librosi distingue per il suo stile ironico, caustico, quasi depressivo. L'esistenza contemporanea viene descritta con un disincanto che esalta la verità. Ciò che viene enunciato a tal proposito diviene evidente. A meno che non sia proprio l'evidenza stessa messa per iscritto. Quanto meno è questo ciò che pensano i "redattori": "essi si sono accontentati di mettere un po' d'ordine nei luoghi comuni dell'epoca, in quello che si mormora nei tavoli dei bar, dietro le porte chiuse delle camere da letto". E' vero che si rimane sconcertati dopo aver letto quest'opera, come da quello che viene detto ed ascoltato da tutti - ma raramente confessato. Oltre all'analisi e alla proposta delle tesi difese dall'ex-gruppo Tiqqun (2) a partire dal 1999 (scoppiate nel 2001), e sviluppate anche in diversi testi non per forza dalle stesse persone (l'Appel e l'opuscolo Rottura (3)), gli aneddoti ci permettono di soffermarci su dei fatti dai quali si percepisce ancor di più il grottesco, lo scandaloso o la forza di resistenza. Utile, certo. Ma anche poetico e storico: questo libro dapprima suscita una certa attrazione dal momento che raramente l'epoca contemporanea era stata finora "sentita" meglio. Non faremo un riassunto, perché questo libro non si riassume: si legge d'un fiato, d'un soffio.
La constatazione del disastro viene elaborata intorno a sei cerchi:
1) In primo luogo, la ricerca identitaria e la generalizzazione di un'angoscia diffusa ("Per chi rifiuta di gestirsi, la 'depressione' non è uno stato, ma un passaggio, un arrivederci, un passo di lato verso la disaffiliazione politica").
2) Tutto lo spettacolo e la disgregazione dei rapporti sociali, dalla figura di quel capro espiatorio che è l'immigrato all'esplosione dei legami intimi, passando per la scuola repubblicana (" 'Divenire autonomo', questo potrebbe voler dire anche benissimo: imparare a battersi nella strada, ad occupare delle case vuote, a non lavorare, ad amare alla follia e a rubare nei supermercati").
3) Il lavoro-merce ("Ammettiamo la necessità di procurarci denaro, non importa come, perché attualmente è impossibile farne a meno, ma non ammettiamo la necessità di lavorare").
4) Il mondo urbano, fonte d'isolamento e luogo di controllo ("Il primo gesto perché qualcosa possa nascere nell'ambito della metropoli, per aprire altre possibilità, è quello di arrestarne il suo moto perpetuo").
5) L'economia ("Non è l'economia ad essere in crisi, è l'economia ad essere la crisi; non è il lavoro che manca, è il lavoro che è di troppo").
6) L'ambiente ed il rischio per le specie, fra cui gli umani, di scomparire ("Laddove i manager si interrogano platonicamente su come invertire la marcia senza combinare guai, noi non vediamo un'altra opzione realista che non sia quella di combinare un guaio al più presto e di trarre beneficio da ogni collasso del sistema per guadagnare forza").
7) La civiltà, dal momento che non abbiamo a che fare con una società in crisi, ma del crollo di una forma di civiltà globale e suicida ("Decidere la morte della civiltà, assumere il controllo di quello che avviene: solo la decisione ci libererà del cadavere").
Invece discuteremo essenzialmente tre punti, delle proposte che danno origine ad un dibattito, dal momento che il libro vuole essere programmatico. Le critiche che qui faremo non possono apparire come un punto di vista totalmente esterno alla prospettiva generale proposta in questo libro quantomeno sul piano della costituzione di "comuni", piuttosto il contrario. Oggi, dappertutto la gioventù radicale si allontana dal magma urbano e dalla pentola a pressione del mercato per tentare di produrre altrove i suoi propri rapporti individuali. Ciò che qui può creare la distanza di un dibattito critico, è allora essenzialmente la concezione di tale "comune" e l'ontologia che la sottende, così come la prospettiva strettamente insurrezionale di cui si serve, e la natura della liberazione qui proposta.

Rimostranze ed incantesimo di una nuova "coscienza di sé"
La proposta chiave di questo libro è quella di creare delle "comuni". A priori, questa è una parola dalla risonanza storica piuttosto accattivante. Ma è anche un punto che necessita di essere approfondito alfine di ricondurre direttamente le analisi troppo brevemente evocate ne "L'insurrezione che viene" - riflessioni che si può dire non siano le maggiormente intellegibili nel libro - ai testi più teorici pubblicati dall'ex-gruppo Tiqqun. Poiché a partire piuttosto da una scrittura di vissuto e di aneddotica, perfino aforistica, non si può fare a meno di pensare che i testi di "Appello" e de "L'insurrezione che viene" mirino principalmente a "colpire il bersaglio" rispetto a dei testi che sarebbero apparsi ad alcuno troppo ermetici. Il libro ha tutte le caratteristiche di un manifesto.
Il rapporto di Tiqqun (e dei suoi sodali) con la "comunità che viene" è molto forte, è centrale e viene posto in maniera dettagliata dai suoi autori in dei testi spesso complessi d'una sensibilità intellettuale assai marcata (Heidegger, soprattutto, Guattari, Foucault, Deleuze, Lyotard, Agamben in seguito) (4). La tesi di fondo viene enunciata come segue: lo "Spettacolo" (non parliamo qui della sua comprensione da parte di Tiqqun) produce un genere di alienazione dove gli individui sono senza individualità. Questi individui sono allora dei Blooms (M. Bloom è il personaggio principale di Ulisse, di James Joyce) (5). I Blooms sono degli espropriati, spettatori della loro stessa vita, impotenti a compiere la minima azione rispetto al loro mondo che non gli appartiene più. Quest'alienazione viene intesa come completa, totale: "non ci sono uomini, ci sono solo Blooms che fanno finta di essere uomini", scrivono. Quest'alienazione copre tutti gli ambiti della vita quotidiana  nel "mondo della merce": perdita dell'esperienza fondamentale della vita compensata dalla ricerca frenetica "di esperienze" o di avventure estreme (sessuali, sportive, professionali, artistiche, ecc.) (Tiqqun, n°1, p.27); "feticismo della piccola differenza" che si rivela essere la "tragicommedia della separazione: più gli uomini sono isolati, più si riuniscono, più si detestano e più si isolano". Interiorizzando il dominio, privo di ogni sostanzialità umana, il Bloom si rifugia nelle identità particolari sostitutive: "Francese, escluso, artista, omosessuale, bretone, cittadino, razzista, musulmano, buddista o disoccupato, va bene qualsiasi cosa gli permetta di muggire in un modo o nell'altro, gli occhi luccicanti per l'emozione, un miracoloso 'Io sono'". Ma in particolare, da dove proviene quest'alienazione? E' qui che la singolarità di Tiqqun si fa intellettualmente assai marcata, bisogna tornare brevemente all'ontologia heideggeriana, per comprenderla.(6)
Infatti in Heidegger, in "Essere e Tempo", il "Dasein" (l'esserci) viene designato come "sempre mio", rapportandosi quindi all'individuo. Tuttavia, quando viene presa in considerazione l'essenza di una tale "miezza", vale a dire "l'individualità", essa viene ridotta al processo di auto-esteriorizzazione nel quale il "Dasein" si scopre abbandonato alla "radura" del mondo per morirvi. Ora, per Heidegger questo è il nucleo originario della "fusione" fra l'uomo ed il mondo che è stato spezzato nel V secolo avanti Cristo mediante il gesto metafisico di Platone contro i filosofi presocratici. Ormai l'uomo è dissociato dall'oggetto della conoscenza per poter conoscerne la verità (per Heidegger, il primo gesto fondante del pensiero scientifico e tecnico). Si entra così nella grande fase dello "oblio dell'essere", ovvero l'insieme del mondo diventa pensato da questa metafisica e viene "afferrato", con lo scempio ecologico che ne risulta. Questa metafisica, è il pensiero occidentale, una "coscienza di sé" che quindi non si rapporta più al mondo. Seguendo Heidegger, Tiqqun si riferisce alla riconquista cosciente dell'unità perduta dell'essere, in particolare per mezzo di un'incarnazione dell'ontologia heideggeriana nella storia: l'origine perduta, scrivono, è quella dello "essere comunitario" dell'individuo. Poiché per loro, i modi comunitari di stare al mondo delle antiche società primitive o del passato erano un'esperienza di "comune originaria", dove per Heidegger si viveva e si pensava in una forma di appartenenza totale all'essere, senza separazione (questa esperienza umana fondamentale era "non cosciente", o cosciente, nei pensatori presocratici, solamente a livello aforistico). Il Bloom, è quest'essere senza appartenenza, del tutto svuotato del suo "essere comunitario". E' l'individuo che dice "Io sono quel che sono" (Io=Io), che non ha più il suo essere nel mondo della sua origine. L'individuo si crede, si pensa, si vede come una monade atomizzata quando non lo è. E' perciò quest'essenza comunitaria dell'individuo che verrà sviluppata nella "comune"  di lotta. L'avvento di "Tiqqun" come restaurazione dell'essere nella sua dimora (nei testi della Kabbalah detta Luranica - una tendenza eretica tardiva fortemente messianica - Tiqqun è il termine che designa "la restaurazione dell'armonia cosmica" attraverso preghiere mistiche (7)) sarà allora il lavoro comune dei Bloom divenuti coscienti di sé stessi e membri del "Partito immaginario" che è atteso come il Messia "che viene". Ma così facendo, Tiqqun fa scomparire ogni individualità e si avvia verso una mistica olistica. In stile sempre heiddegeriano, "c'è comunità solo nei rapporti dei singoli. Non c'è mai la comunità, ma si ha della comunità, che circola. La comunità non designa mai un insieme di corpi intesi indipendentemente dal loro mondo, ma una certa natura dei rapporti tra corpi e di questi corpi con il loro mondo. La comunità, non appena vuole incarnarsi in un soggetto isolabile, in una realtà distinta, non appena vuole materializzare la separazione fra un di fuori ed il suo di dentro, si confronta con la propria impossibilità. Questa impossibilità, è la comunione. La totale presenza a sé della comunità, la comunione, coincide con il dissolvimento di ogni comunità nei rapporti dei singoli, con la sua assenza tangibile." (8)
Quello che abbiamo qui è pertanto una classica critica morale dell'individualismo, e la soluzione liberatoria sarebbe altrettanto morale, sul genere di una "retorica della rimostranza" (9). Di fronte alla coscienza del sé espressa dal "Io sono quel che sono" dove si rappresenta il suo contenuto fuori dal Sé comunitario, cioè a dire fuori da questa "esperienza interna alla comunità", bisogna smettere di rappresentare la propria essenza come un "io sono quel che sono", bisogna rappresentare e pensare lo cose diversamente (10), bisognerebbe modificare la propria coscienza del sé per esaltare segnatamente la comune che viene ri-teorizzata nei termini della teoria dello "oblio dell'essere". Come si vede, la natura del concetto di alienazione, è innanzitutto un "concetto ideologico", "è il concetto per cui l'alienazione consiste in una rappresentazione, in un atto del pensiero" (11). Si vede bene la genesi di questa "coscienza di sé" alienata, quando si legge, "Io sono quel che sono, non una semplice menzogna, una semplice campagna pubblicitaria, ma una campagna militare, un grido di guerra rivolto contro tutto ciò che esiste fra le persone" (sottolineato dai redattori). Il mondo ( e l'economia, cf. "L'economia come magia nera", Tiqqun, n°1) non è per loro altro che una "interpretazione" che bisognerebbe accontentarsi di rifiutare.

Tiqqun

Spirito ci sei? Teoria della comune, della liberazione e del ritorno dell'essere
La strada della metafisica dell'oblio dell'essere porta logicamente alla creazione delle nostre famose "comuni" (che in ultima analisi sono insieme sia effettuazione che mezzo di liberazione della metafisica del "io sono quel che sono") e a pensare come segue. Per i Tiqqun, ci troviamo in un momento storico cruciale (un "evento" nel senso di Foucault, cioè a dire una rottura tra due episteme) che permette un passaggio in grado di realizzare questo superamento della metafisica. Poiché lo Spettacolo fa sperimentare la separazione più totale con "la comunità" (questa "comune originaria"), perché attua una "devastazione metodica, nel corso dei secoli, di tutto quello che non è spettacolo: familiarità di quartiere, di mestiere, di villaggio, di lotta, di parentela, attaccamento a dei luoghi, a delle persone, a delle stagioni, a dei modi di fare e di parlare", il Bloom nello "aprirsi alla comunità si abolisce come Bloom, si stacca dal suo distacco e ritrova la strada dell'essere". L'apertura alla "comunità" è dunque l'antidoto allo "oblio dell'essere" heiddegeriano . Nella sua lotta "fino alla morte" contro il regno totale della Separazione, il Bloom fa "l'esperienza più profonda della comunità" dal momento che la "coscienza di sé (...) è un'esperienza interiore della comunità" che incita a "disertare questa società e a trovare gli uomini", quelli che formano "il Partito Immaginario".
Come si fa a porre concretamente questo punto di vista che a molti potrebbe apparire troppo intellettuale? L'opera poggia innanzitutto e giustamente su una critica degli' "ambiti" militanti "che sono tutti particolarmente da rifuggire" dal momento che sottraggono energie alla rivoluzione rimuginando instancabilmente sulle loro sconfitte storiche e sulla loro amarezza ("la loro usura, così come l'eccesso di impotenza, li ha resi poco adatti a cogliere le possibilità del presente") Senza questa base sociale degli "ambiti" (in un'altra epoca si diceva "il militantismo, stadio supremo dell'alienazione" (12) ) in cui i militanti concepiscono sempre la loro azione come un rimando a più tardi dell'esistenza per poter meglio restare nell'eterna rivendicazione senza smettere di chiedere oggi, per esempio, l'aiuto dello Stato (opponendo lo Stato, o la politica, al Mercato), il Comitato invisibile si rivolge allora a quelle "singolarità qualsiasi", che sono i Bloom, per arrivare finalmente a proporre una concezione della creazione delle "comuni" tra questi esseri svuotati ("in ogni fabbrica, in ogni strada, in ogni villaggio, in ogni scuola. Finalmente il regno dei comitati di base!"). Bisogna che questo popolo bloomesco si riappropri localmente del potere, diffidando delle organizzazioni e ritrovando "il gusto della parola". "Si forma una comune ogni volta che alcuni, liberi dalla camicia individuale, cominciano a non contare alto che su loro stessi e a misurare la loro forza nella realtà". O ancora "la comune, è quello che avviene quando degli esseri si trovano, si intendono e decidono di camminare insieme. La comune è forse quello che si decide al momento in cui si è soliti separarsi. E' la gioia dell'incontro che sopravvive al suo soffocamento. E' ciò che si fa quando si dice 'noi', e che è un evento". Queste comuni in qualche modo sono anche "auto-istituenti" ("Ogni comune vuole essere per sé stessa la propria base"), ma esse non si sostituiranno affatto alle istituzioni istituite, perché il loro destino, come si vedrà, è la pienezza dell'insurrezione purificatrice. Sarebbero, in ogni caso, tutt'altro che delle organizzazioni e dei collettivi definiti da un interno e da un esterno, una linea ideologica, da degli obiettivi e da una gerarchia.
Tutto accadrà in queste comuni "grazie alla densità dei legami nel loro seno. Non per le persone che le compongono, ma per lo spirito che le anima". Un tale "spirito" che fa emergere negli individui una nuova "coscienza di sé" comunitaria, è come se creasse una persona morale ed attiva, verso la quale viene pronunciato un incantesimo liberatorio. Questa "coscienza di sé" collettiva che forma uno "spirito" è in qualche modo simile, si potrebbe dire, al "Nima" (il bene culturale) che muove il gruppo in questione a costituire un "Bolo" (13), somiglia alla "atmosfera" della tribù, di M.Maffesoli (anche se questi, per i redattori di Tiqqun sarebbe piuttosto ascrivibile alla "comunità terribile"), o ancora alla "cultura hippie" (senza le sue dimensioni spiritualistiche) che è stata spesso la ragione agente della "comune hippie" (14). In tale visione, la "comune" sarebbe una sorta di preesistenza nell'ordine ontologico, dello "spirito" - come "coscienza di un sé interiore all'essere comunitario" che si incarna in delle "relazioni" - sugli individui. Identificare un gruppo, una "comune" o un "Bolo" con uno "spirito" che la caratterizza come luogo della verità ontologica di questo insieme e dei membri che lo costituiscono, può significare forse innanzitutto avere la possibilità di controllare e di determinare, riguardo a questo spirito, gli individui intorno ad esso riuniti. Può così sembrare che lì vi sia ancora una di quelle realtà astratte (la "Nazione", la "Società", le "Strutture", il "Sociale", i "Rapporti sociali", i "Dispositivi", lo "Stato", il "Noi", ecc.) che servono a vanificare la nostra stessa libertà istituente e la nostra capacità concreta di agire, poiché esse sono delle realtà che hanno consistenza ed esistenza di per sé, dominando l'individuo e determinandolo. Il Grande Fiume ontologico di questo "spirito", e dell' "essere comunitario" primitivo della "comune" e la sua perpetua invocazione militante, può bern presto non sapere che fare con gli ingranaggi che intralciano i suoi movimenti, poiché in questa concezione della "comune" è lui che trasmette agli ingranaggi la sua forza e determina la loro natura, la loro identità e la loro funzione di ingranaggi relativi a questo Grande Fiume.

Comuni per l'insurrezione: la questione della fascinazione per il disastro e la violenza
La prospettiva liberatoria sviluppata ne "L'insurrezione che viene" dev'essere anch'essa rinviata ai testi preesistenti. Per i Tiqqun, "l'appropriazione dell'oblio dell'essere", cioè a dire la liberazione di noi, i Bloom, non si pone più come in Heidegger su un piano metafisico (dopo l'esperienza del nulla, ci si riconcilia nell'essere in un "pensiero riammemorante" di ordine fisico-mitico-poetico), bensì pratico. Essi infatti hanno cercato di "inscrivere la logica del suo compimento nel seno stesso della storia in puro stile hegeliano" (15). E' quindi necessario, per poter vederne il suo superamento, che qualsiasi cosa si sia realizzata completamente, fino alla nausea: è la struttura dell'insurrezione che viene. Si legge quindi che "la metafisica della merce è la metafisica che nega ogni metafisica e soprattutto sé stessa in quanto metafisica" (Tiqqun, n°1). E' dunque per mezzo dello sviluppo della società delle merci che il deserto si diffonderà su tutta la totalità dell'esistente. Permettendo l'esperienza del nulla, questo provocherà il riconoscimento dell'oblio dell'essere comunitario, e perciò il risveglio, il sorgere, l'arrivo del "Tiqqun".
Il Bloom gioca un ruolo essenziale in questo schema: "noi vediamo apparire un tipo d'uomo la cui radicalità nell'alienazione chiarisce l'intensità dell'attesa escatologica" (Teoria del Bloom), poiché è in ultima analisi "per mezzo dell'esperienza assoluta della propria alienazione, scrivono P.Garrone e D. Caboret, (che) si rende capace di riappropriarsi della sua essenza metafisica, e perciò di sopprimersi come Bloom". Tuttavia, in questa visione gli individui sono del tutto ridotti a dei Bloom, ontologicamente non sono niente di più che degli esemplari dello Spettacolo e della biopolitica, costituendone quest'ultima, in qualche modo, la sostanza (vuota). Niente resta del soggetto. Forzatamente, in questa concezione nella quale l'alienazione è totale, il mondo non può che essere rovesciato nella sua distruzione totale, e il Bloom dev'essere inghiottito dalla sua pulsione di morte. Sta in un gesto liberatorio e purificatore, il momento ed il ruolo dell'insurrezione. Tuttavia, la prospettiva consiste semplicemente nell'opporre ad una visione del mondo una nuova visione del mondo che devono, nell'insurrezione e nella costituzione delle "comuni", invertirsi. Assai marcata dalla dialettica nichilista del profeta cabalista Jacob Franck (16) ("Non sono venuto in questo mondo per la vostra elevazione, ma per precipitarvi nel fondo dell'abisso"), cioè a dire del compimento del nulla affinché si possa vedere arrivare il suo superamento, è tutta la concezione delle "comuni" e de "l'insurrezione che viene" che ne dipende. L'insurrezione diventa allora la figura finale di una tale dialettica: "perché il disastro è il risultato del disastro" (Teoria di Bloom, n°1), oppure ancora "Il partito immaginario rivendica la totalità di quello che in pensieri, in parole o in azioni, cospira alla distruzione dell'ordine presente. Il disastro è la sua azione" (Tesi sul Partito immaginario). Così, per questo Bloom associato con altri in "comuni", "evidentemente, non c'è altro scopo che quello di devastare questo mondo, sta qui il suo destino, ma non lo dirà mai. Poiché la sua strategia è quella di produrre disastri, e intorno il silenzio" (Tesi sul Partito immaginario, n°1). Questa sembra la proposta di una rivoluzione guidata dal semplice desiderio di vendetta e con un gusto per il morboso, l'insurrezione appare senza scopo, senza finalità, senza un suo superamento, è essa stessa il suo proprio fine, e questo deve bastare. Non solo il realismo catastrofico di una tale situazione può apparire dubbio, ma nella sua ipotesi si potrebbe pensare che ci può essere solo un cambio di potere, e non una vera e propria trasformazione del mondo che pregiudichi il "dominio reale" (Marx) del capitale sul lavoro. Questa fascinazione del presente visto come il giorno peggiore, senza concessioni o sfumature, spiega forse come il Comitato invisibile rimanga dentro il momento rivoluzionario violento, dentro l'istante insurrezionale, senza arrischiarsi di proporre delle strade per quello che potrebbe essere un mondo post-rivoluzionario. Inoltre, siamo ben consci che questa violenza, se viene staccata da ogni sua giustificazione nichilista propria di Tiqqun, potrebbe essere necessaria. Ma piuttosto che rimanerne affascinati - in un desiderio di vendetta piuttosto che in un desiderio di vivere? - siamo pronti a ricorrervi con rammarico al momento opportuno.
E' qui che le descrizioni evidenti, ma senza le loro sfumature, del nostro mondo, ne "L'insurrezione che viene" assumono tutto il loro senso. Lo stile della scrittura, come le descrizioni, seguono il partito preso di mostrare, attraverso degli aneddoti o dei resoconti, una somma di cose malvagie, che avrebbero come risultato implicito quello di comprendere che tutto è cattivo e detestabile nella sua interezza. Basterebbe rendersi conto di questo, bevendo fino in fondo alla coppa della desolazione, per arrivare alla presa di coscienza di questo dispiegamento totale del nulla nella vita del Bloom, e permettere così l'avvento del Tiqqun. Tuttavia, assumendo l'esatto opposto dell'ottimismo compiaciuto del progressismo servile e della pubblicità sorridente, si restituisce ancora la comprensione dell'economia come una mera astrazione, una credenza, un'interpretazione - "l'economia considerata come magia nera" (Tiqqun, n°1) - di cui ci si dovrebbe semplicemente disfare e rifiutare. Ma niente si dice di questa dipendenza materiale obbligata dall'economia dove, nonostante la sofisticazione automatizzata del gusto e del contenuto del valore d'uso, gli individui-meccanismi che vi partecipano sembrano ancora trovare delle facilità, dei vantaggi e perfino delle soddisfazioni che sarebbe inutile negare alla luce del profondo radicamento dello spossessamento. Come contropartita dell'alienazione economica, l'economia rimane in grado di costruire un certo "confort" ambivalente e controproducente (17), quanto meno di realizzare (più o meno, secondo lo sviluppo dell'economia e l'avvelenamento che è la sua realtà) la nostra sussistenza automatizzata mediante plastica e kit di costruzioni dell'IKEA. In più, in questo nuovo cinismo dove riguardo alla crisi ecologica e sanitaria, l’economia non promette più niente, ma ci fa vivere dicendo che alla fine "è così", ci sono ancora queste molteplici soddisfazioni e comodità che ci fanno assopire e ci riducono alla servitù volontaria verso di essa. Così, nonostante la confessione burocratica dei gestori della crisi di un ostacolo finale ad una ristrutturazione completa della società, le popolazioni non perdono affatto la fiducia nelle istituzioni dominanti, come aveva previsto Illich. Nella crisi, non si vede affatto arrivare "il rovesciamento radicale delle istituzioni" che si era sperato ne "La convivialità" ma, al contrario, i tecnocrati ed i "partiti politici alternativi" che portano, o vogliono condurre, le truppe oltre la soglia dell'autodistruzione. Questo è un fatto essenziale che significa che ogni volontà di dipingere un quadro a tinte fosche, oltre la nausea, si infrange semplicemente contro l'economia realmente esistente. Questo è dovuto al fatto che è ancorata alle nostre vite, poiché l'irrealtà della sua "metafisica reale" (Kurz) è edificata sul substrato della sua base meta-economica reale (che la sottende e di cui essa si serve, sfruttandola - sempre meno - nel pluslavoro), perché l'economia è troppo forte e ci paralizza allorché la crisi appare in tutta la sua evidenza sotto i nostri occhi. Il problema centrale non è quindi uno statuto di "fede" in un'economia percepita come una metafisica, un modo di vedere il mondo, che bisogna negare dipingendo un quadro, il più nero possibile, del mondo. Quello è anche il punto in cui libro può essere fonte di distrazione. Se "è necessario organizzare il pessimismo", diceva Walter Benjamin in "Senso unico", questo non ci sembra affatto sufficiente.
Comune ed insurrezione sono intimamente legati. Si legge che "la comune è l'unità elementare della realtà partigiana. Un'ondata insurrezionale non può essere nient'altro che una moltiplicazione di comuni, la loro relazione e la loro articolazione". Poiché questa appropriazione del potere da parte delle persone che lo sostenevano dev'essere associato ad una lotta contro il potere in carica, nella linea di Tiqqun della risurrezione della "lotta armata" in vista della "guerra civile" poggiando su una "opacità offensiva": questo significa per mezzo del blocco fisico dell'economia (abbandono del lavoro, frode, saccheggio, sabotaggio, manifestazioni selvagge, ecc.), e dal momento che il potere in carica non lo permetterà, l'insurrezione verrà fatta contro le forze dell'ordine, e sarà condizionata dal loro annientamento (attaccare la polizia, resistere alla repressione, distruggere gli archivi informatici, armarsi tutti per rendere superfluo l'uso delle armi è una delle tesi centrali (18) ).
Così, nel Partito immaginario, accanto ai Bloom intrappolati nella loro pulsione di morte che devastano il mondo per mezzo di atti distruttivi (uccisioni, suicidi, attentati, ecc. (19) ), ed ai membri coscienti del gruppo Tiqqun che nel ruolo dei missionari danno senso e valore a delle pratiche che a priori ne sarebbero prive, il vero problema de "L'insurrezione che viene" è quello di creare una nuova forza per questo Partito, fornendo uno schema agli autonomi, agli anarchici, alle bande di amici che si costituiscono nel paese, proponendo loro di costituire delle "comuni". La vela della strategia mondiale del Partito immaginario finisce allora di dispiegarsi, con l'ultimo mattone apportato da questo libro: tutti stanno al loro posto, nei loro ranghi e ben allineati. "L'insurrezione che viene" appare allora essere un manuale per questa "minoranza di corpi (che) devono assumere la guerra come oggetto esclusivo della loro esistenza. Saranno i guerrieri" ("Questo non è un programma"). Allora per questo Bloom nichilista, "niente sarà più eccitante; poiché quest'assenza di sé non è una semplice mancanza, una mancanza di intimità con sé stesso, ma al contrario una positività". Positività che sarebbe "ciò che vuole umanizzare la propria vocazione alla morte". Arriviamo al nucleo teorico di questa fascinazione per la violenza e di questa dialettica del disastro. Tuttavia, lungi dall'appoggiarsi ad una critica della "virilità classica" del guerriero, , di cercare di criticare e contenere (20) la scrittura spesso forte e lirica di questo libro, chiama a sottomettere tutto  a questo momento dell'insurrezione, ed il confronto con tutta la fascinazione cui si riferisce viene presentato come luce e come pienezza.
A fronte di questa nostalgia che resta affascinata dagli anni di piombo e tutte le sue bande di lotta armata e patologie criminali come la "famiglia Manson" - nostalgia che spinge Tiqqun e soci fino a riconoscere gli antenati (21): "bisogna anche resistere ad una tendenza assai presente fra i giovani 'radicali', a vole ridurre il 68 all'utilizzo che se ne può fare oggi. E' una tendenza che alla fine si preoccupa poco di quello che è accaduto e dell'interpretazione che se ne può dare, col senno di poi. Si viene a trattare allora, in una logica molto attivista, solo di riprendere qualche ricetta e di applicarla. Per fare solo qualche esempio (...), le reazioni più o meno individuali o di gruppo contro la polizia negli anni 60-70, ecc.. Ogni volta, quello che viene dimenticato, è il contesto di lotta, il lavoro preparatorio delle assemblee studenti-operai, l'insubordinazione operaia dei giovani proletari, allo stesso tempo isolati in quanto sdradicati ma anche saldati nella loro vicinanza alle masse delle grandi fortezze operaie (...) Ma oggi non siamo più sullo stesso registro dal momento che è la violenza individuale o quella dei piccoli gruppi che appare cercare dei perturbamenti, senza aspettare che tale violenza vada ad ancorarsi a basi più solide. Si è a volte molto vicini ai ragionamenti della RAF tedesca circa la necessità di creare delle azioni esemplari in assenza di un movimento reale di lotta radicale (...) E' perché non c'è (ancora) questa forza collettiva (...) che l'atto esemplare appare solo come un atto artificiale che corrisponde alla volontà più o meno spettacolare di "fare un colpo di mano" oppure di esercitare un rituale come nei tentativi più volte ripetuti di occupare la Sorbonne" (22). Per ora, la violenza che si può opporre alla Mega-macchinizzazione delle nostre vite si rivela, come scrive J. Ellul, quello che è diventata la politica, qui e ora; questa violenza esprime l'odio assoluto per il potere assoluto. Se la potenza statale tende verso l'assoluto, i mezzi per combatterla non possono rimanere relativi. La "lotta armata" nella sua forma cieca ed i mezzi smisurati dello Stato non sono altro che fratelli nemici, forme immanenti della medesima logica totalitaria.

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La catastrofe come benedizione: un insurrezionalismo messianico
Inoltre, se il libro sviluppa una strategia di "bande" alla Mad Max, esso cerca, dopo aver descritto senza sfumature una vera e propria atmosfera da fine del mondo, di trarre profitto dal presente collasso: "Aspettare ancora è una follia. La catastrofe non è quella che viene, ma quella che c'è", "bisogna contare più sulle crisi sociali che sulle crisi 'naturali'". Per questo, bisogna giocare la carta della "molteplicità dei gruppi, dei comitati, delle bande, per organizzare l'approvvigionamento e l'autodifesa di un quartiere, di una regione che si solleva". La crisi futura, rendendo il sistema estremamente vulnerabile come dimostra ad esempio l'episodio dell'uragano Katrina a New Orleans (23), diventa allora un'occasione per trasformare il mondo, ed essa viene presentata come l'ultima possibilità di una rivoluzione. Viene fatto un ricorso sistematico alla strategia rivoluzionaria per mezzo della sua proiezione nel momento apocalittico del declino e della caduta dell'economia, sembra che si cerchi sempre di riprodurre artificialmente, nell'attesa speranzosa di una "ucronia", gli scontri che si dispera di veder nascere nella società attuale. Il momento della crisi catastrofica o della futura crisi sociale viene allora atteso come il momento della venuta del Messia dell'insurrezione, e tutti vi si preparano. E' questa visione apocalittica, tanto a livello ecologico quanto sociale, non in discussione, che sostiene la strategia insurrezionale e gli elementi della sua attuazione. Il quadro dell'insurrezione viene situato in questa teleologia implacabile, in cui l'avvenire apocalittico è dissimulato nel presente, e l'avvenire non risulta più direttamente dall'immanenza delle nostre azioni presenti, deliberate o involontarie. In tal senso, abbiamo un insurrezionalismo di "crisi", una nuova catastrofilia. Si potrebbe allora sottoscrivere quest'osservazione di R. Riesel e J. Semprun a proposito di questo libro in cui scrivono che i redattori "che si dichiarano più portati all'organizzazione e alla 'sperimentazione delle masse', vedono ora nella decomposizione di tutte le forme sociali una 'mana': nello stesso modo in cui per Lenin, la fabbrica formava l'esercito dei proletari, per questi strateghi che si affidano alla ricostituzione della solidarietà incondizionata di tipo tribale, il caos 'imperiale' moderno forma le bande, le cellule di base del loro partito immaginario, che si aggregheranno in 'comuni' per andare verso l'insurrezione" (24).
Se non si tratta di opporsi a questo catastrofismo messianico - un altro schema hegeliano (la matrice proletaria degli stadi successivi) che attende di vedere il processo della realizzazione di qualcosa per conoscerne il superamento - pensiamo che quale che sia in effetti la morte lenta dell'economia e i suoi ultimi rantoli ecologici che potrebbe portarsi dietro, l'economia siamo noi stessi, e ci sono serie possibilità che il suo crollo, con noi sotto, sul momento non avrà niente di gioioso né ci darà la possibilità di rivoltarci, al contrario... (pensiamo a quello che è diventato il movimento anarchico nell'agosto 1914). E poiché non abbiamo nessuna intenzione di crepare anche noi qui sotto, una secessione - ed innanzitutto una secessione dal lavoro-merce - dev'essere pensata, costruita e portata avanti concretamente, qui e subito. Ma vedervi un'occasione per un'insurrezione, non è né molto realistico né entusiasmante. Non solo, un nemico, quando è ferito a morte, diventa più terribile nei suoi mezzi repressivi, ma sappiamo anche che è capace di distruggere molte cose, e anche di costruirne.
Ci sono in questo libro ulteriori sviluppi assai interessanti, segnatamente circa la costituzione di comuni relativamente autosufficienti al fine di costruire rapporti individuali propri, soprattutto in gruppi (anche se al fine di attuare una "economia di guerra"...). La comune esisterebbe allora per "risolvere la questione dei bisogni. Essa vuole rompere, insieme ad ogni dipendenza economica, qualsiasi soggezione politica, perché non degeneri perdendo il contatto con le verità su cui si fonda". Per far sì che la comune si possa organizzare affinché non si lavori più nel quadro del lavoro-merce. Accanto ad una certa autosufficienza relativa della comune, i redattori accettano ogni tipo di complemento, ad esempio "una necessaria disposizione alla frode", mentre "la questione del lavoro si pone solo in funzione degli altri introiti esistenti".
Inoltre, poiché la questione della riappropriazione del sapere e del "saper fare" è centrale ai fini dell'autosufficienza relativa (25), bisogna anche tener conto che "un insieme di saperi e di tecniche non aspettano altro che di essere saccheggiate e strappate al loro involucro moralista o ecologico. Ma tutto questo è ancora solo una parte di tutte le intuizioni, di tutto il saper fare, di quell'ingegnosità propria alle bidonville che ci permetterà di svilupparci". "Non bisogna trascurare tutto quello che, passando per certi mestieri, formazioni o posti di lavoro, procura delle conoscenze utili". A questo proposito, la prospettiva non appare essere, per fortuna, troppo purista. Continuando tutti oggi a lavorare per denaro (comunizzazione dei salari, tempi auto-ridotti, ecc.), potremo utilizzare le nostre ferie non per lo svago, ma per formare altre persone che saranno capaci di trasmettere una pratica essenziale al fine di uscire dall'economia, ma anche per formare sé stessi all'auto-costruzione, alle tecniche di combattimento, alle pratiche della coltivazione, ecc.. Poiché "si tratta di sapersi battere, di aprire delle serrature, curare fratture e tonsille, costruire stazioni radio pirata, mettere su mense di strada, sparare dritto, ma anche raccogliere le conoscenze sparse e costruire un'agronomia di guerra, comprendere la biologia del plancton, la composizione del terreno, studiare l'associazione delle piante e ritrovare anche le intuizioni perdute, tutte le usanze, tutti i legami possibili con il nostro ambiente circostante ed i limiti oltre i quali lo stiamo esaurendo.
E' certamente un'opera stimolante che sarà probabilmente un punto di riferimento, soprattutto per le parti che si staccano dalla concezione catartica propria dell'ontologia heideggeriana, sulle "comuni". La prospettiva della separazione, della secessione, dell'uscita, del "marronage"(N.d.T.: fuga nei boschi, da parte degli schiavi, per ricreare una società di tipo africana), in breve della sortita dalla società tecno-mercantile, è quindi anche la nostra, ma non è una secessione contro, è una secessione per qualcosa che non sia solamente distruttivo, ma che riveli quello che un autore chiama la "substruttura" (26) (insieme sovversiva e costruttiva). Un distacco critico - e qui abbiamo voluto solo aggiungere il nostro mattone alla critica dei testi di Tiqqun - a fronte di quest'opera, negli ambienti anarchici, autonomi, consiliaristi, marxiani o ecologisti, è necessario, talmente l'operazione di seduzione sembra ben eseguita. Un distacco critico, dal momento che non vogliamo né una nuova ideologia né una nuova religione.

JV. e Clément H, estate 2008.

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NOTE:

(1) - Storicamente, l' "ultrasinistra" è formata da correnti di origine comunista (e non anarchica) che hanno rifiutato in particolare la concezione sviluppata da Lenin e dai suoi amici di un partito d'avanguardia , il solo in grado di dirigere il proletariato verso la propria liberazione, così come si sono opposti ad un partito socialdemocratico che cogestisse la società insieme al padronato, ed hanno rifiutato il parlamentarismo. Si parla di "ultrasinistra", riferendosi a correnti diverse: la sinistra tedesco-olandese, il consiliarismo (Anton Pannekoek, Paul Mattick, Castoriadis, Lefort, il situazionismo al momento in cui ha assunto la soluzione dei consigli anche se l'IS sviluppa delle riflessioni del tutto autonome) ed il bordighismo. Benché zeppa di errori, e facendo spesso confusione, la sola opera che riempie un vuoto è quella di C. Bourseiller, Histoire générale de l’ultra-gauche, Denoel, 2003. Il movimento autonomo, a sua volta, si distingue dall'anarchismo e dall'ultrasinistra.

(2) - "L'insurrezione che viene", si presenta come un'opera ripetitiva che segue soprattutto il testo di "Questo non è un programma": "In queste condizioni, il passaggio dalle lotte sul luogo di lavoro all lotte sul territorio, la ricomposizione di un tessuto etico sulla base della secessione, la questione della riappropriazione dei mezzi di vita, per lottare e per comunicare fra di noi, formano un orizzonte irraggiungibile finché non verrà ammessa la premessa esistenziale della separ/azione. Separ/azione significa: non abbiamo niente a che vedere con il mondo. Non abbiamo niente da dirgli, non abbiamo niente da fargli capire. I nostri atti di distruzione, di sabotaggio, non hanno bisogno di essere seguiti da una spiegazione debitamente vidimata dalla Ragione umana. Noi non agiamo nella prospettiva di un mondo migliore, alternativo, a venire, ma in virtù di quello che sperimentiamo già adesso, in virtù dell'inconciliabilità radicale fra l'Impero e questa sperimentazione, di cui la guerra fa parte. E quando a questa sorta di critica massiccia, le persone ragionevoli, i legislatori, i tecnocrati, i governanti domandano: 'ma cosa volete allora?', la nostra risposta è: 'Noi non siamo dei cittadini. Noi non assumeremo mai il vostro punto di vista della totalità, il vostro punto di vista della gestione. Rifiutiamo di giocare il gioco, è tutto. Non sta a noi dirvi con quale salsa vogliamo essere mangiati.' La fonte principale della nostra paralisi, con la quale dobbiamo rompere, è l'utopia della comunità umana, la prospettiva della riconciliazione finale ed universale." - Tiqqun, vol. 2, 2001, p. 250 -

(3) - Il testo anonimo, "L'Appel", può essere letto su  http://1libertaire.free.fr/Appel01.html . L'opuscolo, "Rupture" , di Simon, del 2006, su  http://1libertaire.free.fr/BrochureRupture.html  .

(4) - Dal momento che ci interessano solo le proposizioni della "comunità che viene, evitiamo qui di commentare gli sviluppi a proposito della "comunità terribile".

(5) - cf. Tiqqun, Théorie du bloom, La fabrique, 2004.

(6) - Qui bisogna rimandare alla lettura di "Avant-garde et mission…la tiqqounerie", di Caboret e Garrone, 1999 ( http://laguerredelaliberte.free.fr/doc/tiqq.pdf ), che sviluppa il discorso circa la filiazione rispetto ad Heidegger e alla Cabala lurianica  ed ai nichilisti politici. Scritto nel 1999, in seguito alla pubblicazione del n°1 di Tiqqun, questo testo non affronta la critica di un'altra delle fonti del gruppo, fonte che apparirà assai nettamente nel 2001 con il secondo numero della rivista: Michel Foucault. J.-M. Mandosio affronta questo aspetto nel capitolo "Longévité d’une imposture : Michel Foucault" nel suo libro "D’or et de sable", éd. Encyclopédie des nuisances, 2008.

(7) - "Una tale credenza conferisce all'uomo un potere smisurato sulle entità cosmiche e sulla divinità stessa", precisa il Dictionnaire critique de l'ésotérisme, dir. Jean Servier, PUF.

(8) - Tiqqun, "Introduzione alla guerra civile", n°2, 2001. Si potrebbe dire qui, in questa concezione filosofica che decostruisce la comunità per tornare alle basi suppostamente meno idealiste dei "rapporti singolari", che gli autori di Tiqqun non hanno fatto altro che operare un trasferimento dell'idealismo, della "comunità", verso i "rapporti singolari" ("rapporti" divenuti delle terze persone morali ed agenti, cioè invocandoli in maniera incantatrice e instancabile). Al contrario, si potrebbe pensare che "la sostanza delle relazioni nelle quali l'individuo è preso, scrive Michel Henry, non è mai la sua propria sostanza, i rapporti in cui si iscrive la sua vita individuale gli appartengono, sono i rapporti e le determinazioni di quella stessa vita. Cito "L'ideologia Tedesca": "Le condizioni in base alle quali gli individui sono in relazione gli uni con gli altri sono delle condizioni che fanno parte della loro individualità, non c'è niente in esse che sia a loro esterno." E Marx, qualche riga dopo, aggiunge: "Queste sono le condizioni della loro stessa attività e sono prodotte da questa stessa attività.". Dato che le relazioni sociali sono interne agli individui e non designano altro che alcune modalità della sua vita personale, l'idea di una determinazione (intesa come ontologica) dell'individuo da parte del sociale appare immediatamente assurda. Essa presuppone l'astrazione del sociale, la sua ipostasi fuori dall'individuo come una realtà differente da lui e quindi l'esistenza di una relazione di causalità esterna  fra questa pretesa realtà sociale e lo stesso individuo. Tutte le determinazioni soggettive individuali e concrete vengono quindi così estirpate dalla loro realtà originaria, proiettate nel cielo del mito dove si dispiegano nella realizzazione di una nuova esistenza e si propongono a noi come "condizioni oggettive". Inoltre, in Tiqqun (come in Guattari o Foucault) quest'insistenza sulle "relazioni" o sui "rapporti" è una vecchia definizione della realtà ultima come essenza dialettica, dove alla fine la realtà ultima è fra gli elementi collegati o rapportati fra loro. Per il Marx di M. Henry, "non è mai la contraddizione, l'opposizione, la prima cosa, ma, al contrario, i termini entro i quali si dice che la contraddizione si istituisce, e questi stessi termini non sono mai entità generali, classi, strutture, ma sono al contrario delle realtà particolare, determinate, singolari. Sono queste realtà particolari ad essere la prima cosa e tutto quello che passa attraverso l'esperienza, gli scontri ed i conflitti che si producono, gli equilibri più o meno durevoli che si installano, non sono altro che gle effetti di tali realtà e delle loro stesse determinazioni, il loro punto di incontro" (M. Henry, Le socialisme selon Marx, Sulliver, 2008). "Ma" mettersi alla prova "nella sofferenza non c'è niente che abbia a che vedere con la tautologia morta di A=A del soggetto formale e vuoto dell'idealismo tedesco né con il "Io sono io" di Husserl. Mettersi alla prova vuol dire, attraverso la sofferenza (ma si potrebbe dire lo stesso del godimento, come dell'orgasmo) arrivare a sé stesso, caricarsi del proprio contenuto, subire sé stessi, soffrire sé stessi in un soffrire più forte di ogni libertà" (M. Henry De la phénoménologie, tome 1, PUF, 2003, p. 201.)

(9) - Articolo di Jacques Guigou, « Tiqqun ou une rhétorique de la remontrance », 2006, (  http://1libertaire.free.fr/JGuigou01.html ). Una delle prime azioni predicatrici del gruppo è stato ad esempio un "sermone" in piazza alla Sorbonne.

(10) - Garrone e Caboret commentano che "è dunque caratteristico che nello svelare l'essenza metafisica del mondo, essa (Tiqqun) non può combatterla se non come categoria filosofica, cioè a dire in quanto avversario che si trova nella stessa condizione. Altresì, trova l'espressione adatta per qualificare la sua attività, allorché afferma che lotta unicamente contro una "interpretazione". Perduta nel suo pericoloso esercizio scolastico, non può annunciare agli uomini la loro liberazione se non sotto forma di un postulato morale: scambiare la loro coscienza attuale contro la vera coscienza", cioè l'assolutizzazione della comunità come essenza, in ultima istanza, dell'individuo.

(11) - Cf. Michel Henry, Marx. Une philosophie de la réalité, tome 1, Gallimard, 1991 (1976).

(12) - "C'è un'enorme contraddizione fra ciò che essi (i militanti) pretendono di desiderare e la miseria e l'inefficacia di quello che fanno (...) Benché insoddisfatto, il militante rimane incapace di riconoscere ed affrontare i suoi desideri (...) Militare, non è aggrapparsi alla trasformazione della propria vita quotidiana, non significa rivoltarsi direttamente contro ciò che opprime, è, al contrario, rifuggire tale terreno. Ma questo terreno è il solo ad essere rivoluzionario dal momento che la nostra vita di tutti i giorni è colonizzata dal capitale e regolata dalle leggi della produzione di mercato (...) Militando, si conferisce peso alla propria esistenza, la vita ritrova un senso. Ma questo senso, il militante, non lo trova in sé stesso nella realtà della sua soggettività, ma nella sottomissione a delle necessità esterne. Così come nel lavoro, egli è sottomesso ad un fine e a delle regole che gli sfuggono, militando obbedisce a delle "necessità della storia" (...) L'attività del militante non è il prolungamento dei suoi desideri, poiché egli obbedisce ad una logica che gli è esterna (...) La soluzione non arriva mai, perché quando i militanti se la pongono, se la pongono in quanto separati dalla loro vita" (in "Il militantismo, stadio supremo dell'alienazione, vol. 1, 1972).

(13) - P.M., Bolo’Bolo, L’éclat, 2003.

(14) - Così un autore scrive in seguito al suo viaggio in diverse "comuni hippies" nella California del 1969: "Non ho potuto rilevare alcun denominatore comune. Nessuna comune rassomigliava a quella prima. La semplice definizione cui avevo pensato (vivere insieme e condividere un fine comune) copriva delle realtà così diverse che arrivava a non avere più alcun senso. L'obiettivo comune può essere per esempio solo quello di divertirsi. Ho scoperto che quello che la gente faceva, leggeva, credeva, sperava, è quello che era più importante, ed era meno l'espressione di una vita in comune che di una cultura hippie. A partire d questa constatazione, ho cominciato a vederci chiaro: le comuni sono il risultato di una cultura(...) Le comuni vengono create e sostenute per mezzo di una cultura. Sono create e sostenute perché sono un meccanismo di potere collettivo che aiuta tale cultura a sopravvivere. Per questo le comuni raramente sono "la cosa in sé". Esse sono la manifestazione di una cultura che vuole sopravvivere".  Bob Fitch, « Les communes et la culture hippies », revue Esprit, octobre 1970, p. 505.

(15) - P. Garonne et D. Caboret, op. cit.

(16) - "Non se ne fa alcun mistero del fatto che Julien Coupat, con la sua idea di una missione da compiere, è segnato fino al ridicolo dal giudizio di Franck", P. Garrone, D. Caboret, op. cit.

(17) - In un certo senso, è l'industrializzazione più che l'uomo, che ha approfittato del progresso della medicina: le persone sono diventate capaci di lavorare più regolarmente nelle condizioni più disumanizzanti", Illich, La convivialité, Seuil, 1973, p. 16.

(18) - Questa idea per cui il fatto di essere armati possa rendere superfluo l'utilizzo delle armi, viene presentata come una logica di dissuasione: "Quando nel marzo 1977, manifestano a Roma centomila persone, diecimila delle quali sono armate, e che dopo una giornata di scontri solo alcuni poliziotti rimangono per terra, quando sarebbe stato così facile fare un massacro, si percepisce un po' meglio la differenza che passa fra essere armati e l'uso delle armi. Essere armati è un elemento del rapporto di forza, il rifiuto di rimanere alla mercé della polizia, un modo di arrogarsi la nostra legittima impunità", in  « Ceci n’est pas un programme », op. cit., p. 254.

(19) - In Tiqqun, c'è una fascinazione per la violenza gratuita che non è nuova: "Niente può spiegare l'assenza sistematica di rimorsi in questi criminali (K. Kinkel, per esempio), se non il sentimento muto di partecipazione ad una grandiosa opera di saccheggio. Con ogni evidenza, questi uomini in sé insignificanti sono gli agenti di una ragione severa, storica e trascendente che reclama l'annientamento di questo mondo, cioè a dire il compimento del suo nulla" (Tesi sul partito immaginario, n°1). "Già nel n°1 di Tiqqun si trova l'apologia di 'uccisioni, suicidi e disordini vari' (...) Sia Foucault (con Pierre Rivière) sia Tiqqun si inscrivono in una tradizione letteraria molto francese di esaltazione del crimine privo di motivi apparenti, dalle fantasie di Andre Gide su 'l'atto gratuito' (I sotterranei del Vaticano) alle speculazioni di Maurice G. Dantec sugli assassini seriali (Le radici del male) passando per la celebre esortazione di Andre Breton: ?l'atto surrealista più semplice consiste, pistola alla mano, nello scendere in strada e sparare a caso, finché si può, sulla folla' (Manifesto del surrealismo); (in Jean-Marc Mandosio, D’or et de sable, Encyclopédie des nuisances, 2008, p. 233). Si legge anche, nella Teoria del Bloom: "La contraddizione fra l'isolamento, l'apatia, l'impotenza, l'insensibilità di Bloom da un lato, e dall'altro il suo bisogno di sovranità. non può che portare a questi gesti assurdi, mortiferi..."

(20) - "D'ora in avanti, la macchina da guerra (per fare la rivoluzione) dovrà difendersi non solo dagli attacchi ostili, ma anche dalla minaccia che la sua minoranza guerriera si separi da essa (...) Stabilire un maggior rapporto con la violenza vuole solo dire, per noi, stabilire un maggior rapporto con la minoranza dei guerrieri(...) Il guerriero non è una figura della pienezza(...) Il guerriero è una figura dell'amputazione. Il guerriero è quell'essere che non accede al sentimento di esistere se non nel combattimento, nello scontro con l'Altro; quell'essere che non riesce a procurarsi da sé il sentimento di esistere. Niente è più triste, in fondo, dello spettacolo di questa forma di vita che, in ogni situazione, aspetterà nel corpo a corpo il rimedio alla sua assenza di sé (...) Il guerriero è una figura dell'ansia e del caos. La forza di non esserci, di esserci solo per la morte, la sua immanenza è diventata miserabile, e lo sa" ( Ceci n’est pas un programme », op. cit., p. 254-255).

(21) - "Laddove il movimento operaio era stato da tempo liquidato, come negli Stati Uniti ed in Germania, si è avuto un passaggio immediato dalla rivolta studentesca alla lotta armata, passaggio in cui l'assunzione di pratiche e di tattiche proprie al Partito immaginario sono state spesso mascherate per mezzo di una vernice di discorso socialista perfino terzomondista. Questo è stato in Germania, il movimento del 2 giugno, la Rote Armee Fraktion (RAF), o la Rote Zellen, e negli Stati Uniti, il Black Panther Party, i Weathermen, i iIggers o la famiglia Manson, emblema di un prodigioso movimento di diserzione interiore" (Tiqqun n°2, « Parti imaginaire et mouvement ouvrier », p. 241.).

(22) - J. Guigou et J. Wajnsztejn, « Compléments à Mai 68 et le Mai rampant italien », juillet 2008, disponibie a :  http://membres.lycos.fr/tempscritiques/texte.php?ordre=34

(23) - Così, a proposito dell'uragano Katrina, a New Orleans, degli insurrezionalisti americani scrivevano: "Siamo sul punto di vivere uno dei più grandi sconvolgimenti dell'economia capitalista e dell'ordine sociale forse dalle ribellioni urbane di Los Angeles che hanno scosso il paese nel 1992 (...) Le utorità sono demoralizzate: un terzo della polizia di New Orleans ha disertato ed il resto opera con veicoli, carburante, armi e comunicazioni limitate, i membri dell'esercito si interrogano in maniera aperta circa il loro intervento sia a New Orleans che in Iraq, il sindaco di New Orleans è scoppiato pubblicamente in lacrime... La fede e la fiducia nelle autorità federali e di Stato evaporano nella misura in cui gli aiuti e le risorse di salvataggio sono stranamente assenti o si trovano altrove (...) Il disgusto per il governo, e forse anche per l'idea stessa di governo, cresce. Gl atti illegali sono sempre più difesi ed apprezzati. Molti americani comuni sono sul punto di rompere con la loro routine legalitaria e giustificano il saccheggio. Ma mano che si allarga la definizione di crimine (e di sopravvivenza), gli agenti del controllo sociale cominciano ad indebolirsi (...) Forse il sistema è sovraccarico fino al punto del collasso? come possiamo partecipare nel modo migliore a questi momenti di crisi? (...) Se il momento è questo, cosa dobbiamo fare?" (vedi l'opuscolo "Autour de la catastrophe Katrina à la Nouvelle-Orléans. De sa gestion par l’Etat et de l’organisation autonome et collective pour la survie" su :  http://infokiosques.net/spip.php?article444

(24) - René Riesel et Jaime Semprun, Catastrophisme, administration du désastre et soumission durable, Encyclopédie des nuisances, 2008, p. 41-42.

(25) - Si noti a tal proposito, l'esistenza dal 1971 della collezione « l’encyclopédie d’Utovie » , interamente rivolta alla trasmissione di saperi e tecniche per l'autoconsumo, l'autocostruzione e l'autofabbricazione, e che oggi conta più di 70 opuscoli di informazioni pratiche accurate (vedi il sito www.utovie.com  ). Sullo stesso registro, il gruppo autonomo parigino "Hobolo".

(26) - "La Macchina Planetaria del Lavoro dev'essere smantellata accuratamente poiché non vogliamo affatto morire con essa. Non dimentichiamo che noi siamo una parte della Macchina e che essa fa parte di noi stessi. Noi non possiamo distruggere altro che il nostro rapporto con la Macchina." "Sovversione" significa cambiamento dei rapporti tra noi (le tre categorie di lavoratori) e con la Macchina (che, a sua volta, si presenta a ciascuna categoria di lavoratori come un sistema globalizzante). SI tratta di sovversione e non di attacco, perché noi siamo all'interno della Macchina ed è apartire da questo che dobbiamo bloccarla. Noi non ci presenteremo come un nemico dall'esterno. Non ci sarà né fronte, né quartier generale, e ancor meno delle uniformi. Usata da sola, la sovversione non è una soluzione, essa ci permette di paralizzare un certo settore della Macchina, di distruggere una delle sue funzioni, ma la Macchina sarà sempre capace di ricostruire un funzione isolata e di imporsi di nuovo. Noi dobbiamo riempire ogni spazio conquistato con la sovversione, con qualcosa di nuovo, qualcosa di costruttivo. Non possiamo sperare di eliminare di colpo la Macchina, e una volta liberati, di stabilire BOLO'BOLO: arriveremmo sempre troppo tardi. Elementi provvisori di BOLO'BOLO, rami della sua struttura, devono occupare tutti gli interstizi liberi, gli spazi abbandonati, le zone già conquistate. Ess prefigurano così le nuove relazioni. La costruzione dev'essere combinata con la sovversione per formare un processo unico: la substruzione (o conversione, se si preferisce). A sua volta, la sovversione isolata non produce altro che fuoco di paglia, dei dati storici e degli eroi, ma non lascia risultati sul terreno. Costruzione e sovversione prese isolatamente sono, entrambe, una maniere di collaborazione tacita o esplicita con la Macchina" ( P.M., Bolo’bolo, éditions L’éclat, 1998, p. 60 ).

fonte:  Critique radicale de la valeur

giovedì 25 dicembre 2014

Appello

scimpanze

Fratelli umani, sorelle umane,
Avrete già sentito parlare del transumanesimo e dei transumanisti; di una misteriosa minaccia, un gruppo di fanatici, una società di scienziati e di industriali, discreta e potente, la cui trama occulta e l’obiettivo dichiarato consiste nel liquidare la specie umana per sostituirla con una specie superiore, “aumentata”, di uomini-macchine. Una specie che sarà il risultato dell’eugenismo e della convergenza di nanotecnologie, biotecnologie, neuro-tecnologie e degli immensi progressi della scienza.
Avrete già sentito parlare dell’ultimatum, cinico e provocante, di questo ricercatore in cibernetica: «Ci saranno delle persone impiantate, ibridate, e queste domineranno il mondo. Le altre che non saranno come loro, non saranno tanto più utili delle nostre vacche che vengono tenute al pascolo»; o ancora: «Le persone che decideranno di restare umane e rifiuteranno di migliorarsi avranno dei seri handicap. Costituiranno una sotto-specie e saranno gli scimpanzé del futuro».
E vi sarete già chiesti se bisogna prendere sul serio queste sbruffonate oppure se si tratta solamente di fantascienza, di un modo ampolloso di esprimere l’orgoglio tecnocratico. Purtroppo il pericolo è reale e l’Umanità si trova ad affrontare un tentativo di estinzione, fomentato da una fazione egoista, implacabile e onnipotente, stanca di condividere ciò che resta di questo mondo con delle masse di bocche inutili e sempre più numerose.

Come siamo arrivati a questo punto, e cosa dobbiamo fare ?

All’inizio c’erano i poeti. Rimbaud: «Ho creato tutte le feste, tutti i trionfi, tutti i drammi. Ho cercato di inventare nuovi fiori, nuovi astri, nuove carni, nuove lingue. Ho creduto di acquisire poteri sovrannaturali. Ebbene! devo seppellire la mia immaginazione e i miei ricordi! Bella gloria di artista e di narratore andata in malora!» Ducasse: «È un uomo, una pietra oppure un albero quello con cui inizia il quarto canto». Poi gli artisti futuristi, francesi, italiani, sovietici: Marinetti, Majakovskij, Apollinaire e molti altri, cantori della violenza e della velocità; trombettieri e superstiti della Grande Guerra industriale e mondiale, esaltavano la tecnologia come vero mezzo per “cambiare vita” e “trasformare il mondo”. Dichiararono guerra alle anticaglie poetiche, al sole e alla luna; glorificarono gli aeromobili, le dighe, i motori, l’elettricità, il Titanic, le Metropolis, le armi blindate, gli stadi giganteschi. E i robot, le masse meccanizzate. Contribuirono alla diffusione dei due grandi movimenti dell’epoca: la tecnologia e il totalitarismo. Due movimenti convergenti. Due aspetti di uno stesso movimento di ingegneri degli uomini e delle anime, che mirano a fabbricare l’uomo nuovo, dall’Übermensch nazista all’uomo d’acciaio comunista passando per ogni sorta di superuomini e di Supermen, per approdare al cyborg; all’uomo bionico dei laboratori transumanisti, “ibridato” con impianti e interfacce.
Negli anni trenta il nazional-rivoluzionario Ernst Jünger criticò il razzismo biologico e volgare dei nazional-socialisti, contrapponendogli l’avvento di un nuovo tipo di umanità: Il Lavoratore, in ceco il robot.
Questi progressisti su un piano tecnologico sono dei regressisti su un piano sociale e umano, partigiani della peggiore regressione sociale e umana; quelli che comunemente sono chiamati reazionari. Nazismo, fascismo e comunismo hanno dovuto soccombere solo di fronte a un sovrappiù di potenza tecno-scientifica degli Stati Uniti. Ma l’essenza di questo movimento, la volontà di potenza tecno-scientifica, si è reincarnata e diffusa indossando nuove casacche politiche. Ed è sempre florido il laboratorio da cui è fuggita la creatura immonda. A partire dal 1945 Norbert Wiener mise a punto la cibernetica, la “macchina per governare” e la “fabbrica automatizzata”, che oggi IBM impianta con il nome di pianeta intelligente. Ovvero un formicaio tecnologico pervasivo, con i suoi ingranaggi e le sue connessioni, i suoi insetti social-meccanici che già un tempo si auto-definivano degli zoon politikon, degli animali politici.
Secondo i transumanisti e i collaborazionisti della macchina, l’uomo è l’errore. L’umano è debole e imperfetto, l’umano è finito. L’umano è la loro vergogna. Essi aspirano alla perfezione, al funzionamento infallibile e all’infinità del sistema tecnologico; a fondersi in questa totalità autonoma.
I transumanisti trovano sostegni dappertutto. Si esprimono attraverso programmi radiofonici e nei giornali di riferimento. «L’uomo aumentato è in arrivo già domani», come proclama un settimanale cittadinista che si rallegra per il fatto compiuto. «Un altro transumanismo è possibile», dichiara l’Associazione transumanista francese. Il progresso non si può arrestare e la sinistra è a favore del progresso. Essere di sinistra significa rivendicare il diritto e i mezzi di ibridazione uomo-macchina per “tutte e tutti” e l’eugenismo come servizio pubblico, nuova branca della sicurezza sociale.
Ciononostante, noi scimpanzé del futuro non abbiamo ancora perso e la macchina non ha ancora vinto. Quella per l’Umano è una battaglia in corso fintanto che non lo si abbandona, e non lo si abbandona fintanto che pensa a delle cose e le esprime con una parola. Dare un nome a una cosa significa formare un’idea, e le idee hanno conseguenze inevitabili. Dobbiamo conservare le parole e chiamare le cose con il loro giusto termine. Dobbiamo creare delle idee assieme alle loro inevitabili conseguenze.
I transumanisti hanno un’idea sola: la tecnologia.
Noi, scimpanzé del futuro, abbiamo una sola tecnologia: le idee.
E le idee sono più attive, più rapide, più performanti di qualsiasi tecnologia; più veloci e potenti di Internet e dell’elettricità.
Noi diciamo: il transumanesimo è nazismo in ambito scientifico. Ed è questo tecno-totalitarismo, questo “fascismo” dei giorni nostri che combattiamo, noi animali politici, e vi chiediamo aiuto.
Salviamo le parole.
Distruggiamo le macchine.
Riproduce e diffondete l'appello degli scimpanzè del futuro!

Pièces et main d’oeuvre – Grenoble, 5 novembre 2014.