venerdì 31 ottobre 2014

La serietà del plusvalore

9

Il disvalore dell'ignoranza
- "Critica del valore" tronca come ideologia di legittimazione di una nuova piccola borghesia digitale -
di Robert Kurz

*Nota precedente all'edizione stampata* 1. Dalla critica del valore all'ideologia del circolo digitale* 2. La sorella della merce e Internet come "macchina di emancipazione* 3. Forma del valore, sostanza del valore e riduzionismo della circolazione* 4. "Scambio giusto" e relazioni d'uso capitalistiche* 5. L'anima della merce in azione: dal "ben pagare il non serio" all'antisemitismo strutturale* 6. Produzione di contenuti, costi capitalistici e "riproduttività senza lavoro"* 7. Lavoro produttivo ed improduttivo nel contesto di riproduzione capitalistica* 8. Verso un'ontologia del lavoro secondaria* 9. Il carattere sociale totale della sostanza del valore e l'ideologia del capitale "produttivo" e "predatore"* 10. Svalorizzazione universale e teoria degli stadi di un'emancipazione simulatrice* 11. Falso universalismo ed esclusione sociale. L'ideologia dell'alternativa digitale come eldorado degli uomini della classe media trasformati in casalinghe* 12. Il punto di vista degli idioti del consumo virtuale* 13. Autoamministrazione della miseria culturale* 14. L'esproprio dei produttori e delle produttrici dei contenuti come abnegazione sociale e risentimento* 15. Termiti e formiche blu. La biopolitica della "intelligenza del formicaio" digitale* 16. Realpolitik di pauperizzazione dei candidati a capo dell'amministrazione di crisi nella cultura*

9. Il carattere sociale totale della sostanza del valore e l'ideologia del capitale "produttivo" e "predatore"

Per quanto riguarda la pretesa di Lohoff ad una "critica dell'economia politica dell'informazione", rimane il punto chiave della questione di sapere come nella realtà si arrivi a rappresentare "falsamente" i supposti "beni universali", "senza valore", come "beni pagati" nel sistema valore-prezzo dell'insieme della riproduzione capitalistica, e perché si facciano allora passare gli utilizzatori attraverso la sofferenza di dover consegnare il loro "buon denaro" in cambio di queste presunte non-merci. Dal momento che Lohoff pensa di poter ridurre il problema della creazione di valore, o di plusvalore, a delle definizioni a livello di impresa individuale e a livello di singola merce, il preteso mistero della trasformazione del non-valore in valore può avvenire solo nella circolazione. Questo problema ha già dei precedenti nella vecchia teoria della crisi della critica del valore. Si trattava, lì, di chiarire la contraddizione per cui il capitalismo, attraverso lo sviluppo delle forze produttive, ed il successivo rilascio di forza lavoro che accompagna questo processo, tagli il ramo sul quale sta seduto. Questo non può essere semplicemente trattato come una mancanza di coscienza degli agenti capitalisti riguardo al carattere del loro proprio modo di produzione, ma dev'essere chiarito a partire dal meccanismo interno della struttura di riproduzione sociale, che gira "alle spalle" di questi agenti.
Nel già citato "testo primordiale" della teoria della crisi, del 1986, veniva definito il contesto nel quale, per mezzo della concorrenza, nella circolazione, è proprio il capitale a minare il sistema nel suo insieme, per mezzo della razionalizzazione della forza lavoro, riuscendo ad estrarre, per mezzo del ribasso dei prezzi dei prodotti, una quota più che proporzionale del potere d'acquisto della società, e realizzando così una quota maggiore di plusvalore sociale, la cui produzione nel suo insieme diminuisce proprio a causa del contributo sostanziale di tale razionalizzazione. In altre parole: produzione e realizzazione di plusvalore divergono. In nessun modo il capitale si appropria del plusvalore prodotto dentro le sue quattro pareti, ma si appropria, semmai, di una parte di plusvalore dell'insieme del capitale, la cui dimensione è determinata nella circolazione, per mezzo della concorrenza, nella quale ciascuno si impone proprio per l'impegno a prosciugare la fonte del plusvalore sociale totale. Tuttavia, le conseguenze di quest'osservazione, per la teoria del valore, riguardo al concetto di riproduzione globale del capitale, non sono mai stato elaborate nel dettaglio.
Lohoff e compagnia adesso riprendono queste idee nel contesto della loro limitata argomentazione, senza fare naturalmente riferimento alla fonte originale. Tuttavia, si mettono nei guai, come andremo a vedere, poiché mettono in moto solo l'insufficienza dell'approccio della teoria della crisi, svolto nella vecchia critica del valore, omettendo il potenziale di sviluppo di cui questa ancora dispone. Lohoff parla di "situazione felice" del capitale d'innovazione, nello "appropriarsi del valore esistente fuori dalle sue aziende" (id.). Questo ragionamento viene ora trasferito alla "situazione felice" del capitale-informazione, e al suo valorizzare i propri prodotti "senza valore": "per il capitale individuale naturalmente è irrilevante se sia merito suo la creazione del valore o se riesca a partecipare del valore creato altrove" (id.). Anche Samol parla, nel contesto del lavoro improduttivo, di appropriazione "di plusvalore prodotto da un'altra parte". Ugualmente, Meretz afferma che i "beni universali privatizzati" sarebbero, "a causa del loro carattere di senza valore e di non-merce... solo nella posizione... di generare una partecipazione nella massa di valore prodotta altrove".
Nel modo in cui il problema viene qui formulato, si afferma ancora una volta la riduzione definitoria positivista della sostanza del valore, con imputabilità e "possibilità di localizzazione" dirette, che ora viene sviluppata sul piano dei meccanismi della riproduzione capitalistica globale, ma solo fino alla sua piena riconciliabilità. Si sono già fatte alcune osservazioni su tale assunto, visto che non è possibile chiarire la questione delle relazioni di equivalenza nella circolazione, né la definizione concettuale del lavoro produttivo ed improduttivo, senza ricorrere al contesto interno dell'insieme del sistema; che è cosa diversa dalla mera somma dei momenti singolari. Ora si tratta di definire con maggior precisione questo problema relativamente al carattere sociale totale della massa di plusvalore e della sua realizzazione sotto forma di denaro, e continuare a sviluppare l'argomentazione ancora insufficiente della vecchia teoria della crisi e dell'accumulazione della critica del valore, correggendo un determinato punto rimasto poco chiaro.
Ciò può avvenire solo nel confronto con una riflessione che si faccia valere contro l'elaborazione teorica della critica del valore, in particolare quella di Michael Heinrich, che sotto un determinato punto di vista continua a sviluppare la critica della "teoria del valore pre-monetaria" di Backhaus, fra le altre. Heinrich afferma che la teoria del valore di Marx è ancora legata all'economia classica borghese, nella misura in cui trascinerebbe con sé una comprensione "naturalista" del valore, inconsistente dal punto di vista dell'insieme della produzione capitalista. Come argomentazione, si tratta di un approccio somigliante a quello da me rappresentato nel senso della critica del valore, mediante la definizione di un "doppio Marx". Tuttavia Heinrich si riferisce a qualcosa di diverso, si riferisce all'analisi stessa della forma valore. Si mescolano qui in Heinrich due momenti, uno giusto ed uno sbagliato. Il momento giusto parla proprio della presunta "imputabilità" e "possibilità di localizzazione" dirette della sostanza del valore, che servono da base a tutte le argomentazioni di Lohoff & Co.
Heinrich sottolinea, in primo luogo, riguardo alla questione che costituisce veramente la rivoluzione teorica di Marx nei confronti dell'economia classica borghese: "Adam Smith in un primo momento si è confrontato con un unico atto di scambio e si è domandato come si potesse definire una relazione di scambio; Marx, al contrario, ha visto la relazione di scambio individuale come parte di un determinato contesto sociale totale... e si è domandato poi cosa significasse questo per il lavoro speso da tutta la società" (Michael Heinrich, "Critica dell'economia politica", Introduzione). A questo attinge anche Lohoff, il cui ragionamento fondamentale si rivela però come una ricaduta sul punto di vista dell'economia politica borghese. Heinrich poi rimuove l'effetto chiave ai fini della comprensione della sostanza del valore da parte del marxismo tradizionale: "Il discorso sulla sostanza del valore è stato inteso soprattutto in modo quasi materiale, 'sostanzialista': il lavoratore o la lavoratrice avrebbero speso una determinata quantità di lavoro astratto, e questo quantum si sarebbe ora accumulato come sostanza del valore, in ciascuna merce, e avrebbe trasformato ogni cosa, individualmente, in un oggetto di valore" (id.). Anche Lohoff arriva a questo, dal momento che questa "accusa" è al centro della sua argomentazione.
Nella misura in cui si tratta di "possibilità di localizzazione" pretesamente immediata della sostanza del valore in ciascuna merce individuale, è stato elaborato qui un decisivo punto di vista della critica. Heinrich torna ripetutamente a ricordare che il valore sostanzialmente non può essere attribuito a ciascuna merce individuale. E stabilisce la sua versione del "doppio Marx" nel fatto che Marx, da un lato, solleva il contesto della mediazione sociale totale, ma, dall'altro lato, con l'espressione di un "valore individuale", torna ripetutamente a cadere nella comprensione "naturalista" di una "possibilità di localizzazione" individuale ed immediata. Così, finisce per fallire anche il tentativo della trasformazione valore-prezzo; un problema che, perciò, non trova soluzione nel marxismo (Lohoff non è ancora arrivato a questo, poiché come abbiamo visto non va oltre il primo capitolo del primo volume del "Capitale").
Ma Heinrich mescola il momento giusto di questa critica con un momento errato, nella misura in cui introduce un secondo concetto della presunta comprensione "naturalista" di Marx e dei marxisti. Nega la definizione marxiana di lavoro astratto come dispendio di energia umana (in relazione alla validità sociale), ossia, di "nervo, muscolo e cervello". Anche questo sarebbe (a somiglianza del ragionamento di Rubin già negli anni 30) una definizione erronea "fisiologica-naturalista" e perciò presumibilmente trans-storica. Così, però, lo stesso Heinrich regredisce al punto di vista dell'economia politica borghese, che non ha alcun concetto di lavoro astratto. La riduzione attuata del cosiddetto lavoro concreto a dispendio astratto di energia umana nella relazione di validità sociale, è capitalista e niente affatto trans-storica. Nel denunciare il concetto marxiano di sostanza come "naturalista" anche da questo punto di vista, Heinrich elimina il problema della sostanza in quanto tale, per cui allora non si può dichiarare nemmeno in cosa consista in realtà il contesto di mediazione sociale totale del valore, in accordo con il suo contenuto. Il valore si riduce così per lui alla relazione di scambio, addirittura alla relazione di prezzo, in quanto la merce individuale in sé non può rappresentare alcuna oggettività di valore astratto. A partire da questo, parla espressamente di un'unica "teoria del valore" vigente, quella "della circolazione". Si dissolve l'unità attuata, e conseguita attraverso frizioni, di produzione e di circolazione, o di realizzazione del valore; il valore viene ad essere solamente il figlio della circolazione, essenza ed apparenza allora coincidono (come nel pensiero postmoderno in generale). Proprio come i precedenti critici della "teoria pre-monetaria del valore", anche Heinrich si volge verso l'ideologia della circolazione, in modo specifico.
Ora, come può essere risolta la contraddizione fra, da una parte, la corretta critica alla "imputabilità" e alla "possibilità di localizzazione" diretta della sostanza del valore in ciascuna merce isolata ed in ciascuna azione di mercato, o relazione di scambio isolato (come nella teoria borghese, nel marxismo e din modo particolarmente grossolano in Lohoff) e, dall'altro lato, la necessaria definizione di lavoro astratto come sostanza del valore, in quanto dispendio di energia umana? E' possibile solo se il problema stesso di sostanza viene trattato come contesto di mediazione sociale totale, invece che come determinazione della grandezza individuale. Da questo punto di vista, la divergenza fra produzione e circolazione coincide con la divergenza fra oggettività del valore sostanziale ed astratto e la determinazione della sua rispettiva grandezza. In altre parole: la sostanza del plusvalore (è solo di questa che si tratta e non della sostanza del valore in generale), anche relativamente alla sua produzione, può essere concepita solamente come globalmente sociale, e non come somma del dispendio, imputabile a ciascuna impresa, di una determinata quantità spesa di "nervo, muscolo e cervello" (in questa modo, nella polemica con Heinrich, è esigibile anche una correzione all'altro testo fondamentale della vecchia critica del valore, il mio saggio "Lavoro astratto e socialismo", in Marxistische Kritik 4, 1987; allora l'oggettività del valore di ciascuna merce veniva ancora posta come identica alla determinazione della sua grandezza, e non era ancora stato elaborato il problema della mediazione sociale totale, nonostante fosse corretta la critica a Backhaus sotto altri aspetti).
Sul piano di ciascun capitale individuale si spegne la differenza fra lavoro produttivo e lavoro improduttivo. Non si può andar lì e valutare i nostri dispendi individuali di lavoro (per esempio in unità di tempo) che producono esattamente plusvalore sostanziale. Questo significa che la differenza fra capitale innovatore e capitale mediamente produttivo, oppure, da un altro lato, fra capitale produttivo ed improduttivo in generale, non rappresenta magari dei casi speciali nei quali avviene "appropriazione" di una massa di plusvalore prodotto altrove. Al contrario, fondamentalmente ogni dispendio capitalista individuale di lavoro astratto e ogni realizzazione capitalista individuale di plusvalore nella circolazione, differiscono. Il dispendio capitalista individuale di lavoro astratto costituisce all'inizio una parte indeterminata, quanto alle sue dimensioni della sostanza del plusvalore sociale totale, che rimane ugualmente indeterminata per quanto riguarda la sua dimensione totale, in quanto non si realizza.
Nessuna merce individuale, di qualsiasi specie sia, "incorpora" perciò una determinata quantità di lavoro astratto produttivo speso, per così dire, "personalmente" di per sé, ma tuttavia, sotto la forma del prezzo di circolazione, rimane sempre una determinata parte di quantità di lavoro astratto produttivo speso nell'insieme della società. Una volta che tale rappresentazione del valore avviene già sempre sotto forma di denaro, come processo mediato nell'insieme della società, e non magari come trasformazione nella forma del valore di ciascuna quantità di lavoro utilizzato in ciascuna merce individuale, la quantità di valore alla fine "incorporata" in ogni merce individuale sotto forma di denaro non ha niente a che vedere col fatto che nella sua produzione in quanto cosa-merce non sia stato speso alcun lavoro; lavoro improduttivo o produttivo (o un misto di entrambi). Questa è anche la ragione per cui l'equazione "x cappotto= y tessuto" può essere solo una cifra concettuale nella relazione di equivalenza sociale delle merci nel suo insieme, e non una relazione di equivalenza immediata per ciascun atto-transazione sul mercato. Se un cappotto costa 20 euro questo non significa, in alcun modo, che il cappotto rappresenti, per esempio, 2 ore di lavoro applicato ad esso individualmente, nel quale i 20 euro dovrebbero corrispondere all'equivalente di 2 ore di lavoro. Il postulato di equivalenza è valido solamente nel senso per cui la quantità di valore sociale totale e la quantità di prezzo sociale totale devono corrispondere. Il fatto per cui una cosa non può mai confliggere con l'altra, si ripercuote nelle contraddizioni e nelle frizioni che avvengono nell'insieme della produzione; per esempio nella bancarotta, nel processo di debito e nella svalorizzazione, nelle crisi congiunturali e strutturali e, alla fine, come limite interno assoluto su questo piano se - per mancanza di sufficiente sostanza in generale - non è più possibile stabilire una qualsiasi equivalenza valore-prezzo per l'insieme della società, neppure approssimativa. Così ora, a partire dalla prospettiva del processo d'insieme della riproduzione capitalista suesposto, diviene definitivamente chiaro quanto sia sorprendentemente ingenua dal punto di vista teorico la scoperta dei "beni universali" - senza forma di merce in sé - fatta da Lohoff, per cui tali "beni universali" non disporrebbero di sostanza di valore "individuale".
Non esiste alcun "valore individuale". Il carattere del lavoro astratto - come riduzione al dispendio di energia umana, e della merce individuale come oggettività astratta del valore (relativamente alla sua qualità socialmente valida) - non viene pregiudicato in niente; solo la sua grandezza rimane indeterminata, in quanto determinabile solo come unità conseguita nella frizione di produzione e circolazione (realizzazione) del plusvalore, nel contesto della riproduzione sociale totale. Anche per questo la sostanza del valore non può apparire, quanto alla sua dimensione, come somma contabilizzabile del dispendio di tempo di lavoro, ma solo nella forma di apparenza del valore di scambio, nella forma del prezzo e della rispettiva realizzazione come somma di denaro. Per tale ragione ancora non è possibile una qualche trasformazione valore-prezzo contabilizzabile. Si noti di passaggio che questo contesto mostra anche l'impossibilità di un socialismo inteso come contabilizzazione del tempo di lavoro (come avviene, per esempio, in Engels), dove la forma feticcio del valore finirebbe per essere rappresentata solo, per così dire, "naturalmente", come contabilizzazione delle unità di tempo di lavoro, assunto, e perciò supposto, come "pianificabile"; cosa che finirebbe per essere la quadratura del cerchio, o l'impossibile consumo "cosciente" della mediazione del feticcio.
Sebbene con questo non si esaurisca il contesto dell'argomentazione riguardo a tale problema, voglio lasciare provvisoriamente le cose come stanno, visto che è perfettamente sufficiente per quanto riguarda la critica a Lohoff & Co (una discussione più dettagliata verrà inclusa nel libro ancora in elaborazione "Lavoro morto. La sostanza del capitale e la teoria della crisi di Karl Marx"). Per la vecchia teoria della crisi della critica del valore, questo significa che il carattere sociale totale della realizzazione della massa di plusvalore deve essere conseguentemente esteso alla sua produzione; che questa massa non si presenta come somma del plusvalore incorporato nelle merci individuali, ma come l'insieme della massa sociale invisibile che viene realizzata dalle merci nella vendita, indipendentemente dal dispendio specifico di lavoro in sé. Quindi, senza oggetto, non è rilevante la discussione sulla sostanza del valore che "qui" manca, e sulla "appropriazione" della sostanza del valore prodotta "altrove". Per corrispondere alla pretesa della teoria critica del valore, Lohoff avrebbe dovuto sentirsi obbligato ad approfondire le argomentazioni di Heinrich. Nella sua ansia di avere successo come affascinante starlet intellettuale del party, nel "circolo" teoricamente insipido dell'alternativa digitale, ha però schivato questo dibattito con la critica di Heinrich, la quale critica distrugge alla radice il suo ragionamento. Come sempre, però, questa mancanza di sviluppo teorico non porta semplicemente a bloccare un riflessione precedentemente insufficiente, ma porta ad una regressione brutale, come si vedrà più avanti.
Lohoff, da parte sua, è qui abbastanza spudorato da smarcarsi per mezzo di una critica apparente della comprensione "naturalista" del valore: "Da sempre quel che domina nelle scienze economiche è un'idea naturalista del valore. La creazione del valore viene intesa non come forma di relazionamento sociale, ma come qualità sovra-storica della cosa". Questa critica al concetto positivista borghese del valore dell'economia politica, tuttavia, non ha niente a che vedere con la critica interna di Heinrich ad una comprensione "naturalista" del valore nel marxismo (e in via residuale anche in Marx), che si relaziona:
a) con l'imputabilità individuale del lavoro astratto in ciascuna merce come determinazione di grandezza del valore
e b) con la caratterizzazione del lavoro astratto come dispendio di energia umana (nervo, muscolo e cervello).
Lohoff non discute con l'ultima critica, errata, né con la prima, giusta. Si tratta di un procedimento tipico di Lohoff; i concetti vengono afferrati in maniera associativa ("comprensione naturalista") o perfino creati ("beni universali") per suggerire profondità teorica, mentre nel proprio assunto è in atto la più completa confusione, o la semplice ignoranza. Lohoff ritiene di aver già raggiunto una "interpretazione del valore ricardiano-marxista", quando rifiuta la contabilizzazione del lavoro di informazione improduttivo (in termini capitalistici) come "insieme di lavoro produttivo"; cosa che si trova in alcuni autori. La prima giusta critica di Heinrich alla "comprensione naturalista" si riferisce, però, ad un qualcosa di completamente diverso, ossia, all'imputabilità individuale del dispendio di lavoro ed alla possibilità di avere valore, o grandezza di valore, in ciascuna merce. In questo senso, è proprio la comprensione di Lohoff ad essere chiaramente naturalista, "ricardiano-marxista". Come è stato già dimostrato, sulla base del richiamare l'attenzione - da parte di Heinrich - sul vero carattere della rivoluzione teorica di Marx, l'economia borghese classica, nel suo concetto di valore, parte sempre dall'atto individuale di produzione o di scambio, mentre Marx parte dalla struttura dell'insieme della riproduzione sociale (scivolando, però, in parte, su un concetto di valore "individuale", come resto della teoria del valore borghese, che lo porta a delle incongruenze). Tutta l'argomentazione di Lohoff si basa invece su una ricaduta conseguente nella concezione "ricardiano-marxista", corrispondente al concetto di valore borghese classico, della "possibilità di localizzazione" e della "imputabilità individuale" del dispendio di lavoro produttivo individuale per ogni singola merce.
La vecchia teoria della crisi della critica del valore partiva già dal carattere sociale totale della realizzazione del plusvalore, mentre la "possibilità di localizzazione" della produzione di plusvalore rimaneva ancora aperta ed irrisolta. Tuttavia, già allora era perfettamente chiaro che ogni mediazione passava all'interno del "sistema produttore di merci". Si trattava, pertanto, dei meccanismi di produzione e di realizzazione del plusvalore, ed in nessun modo di un antagonismo fra merci "reali" ed altre (al fondo) non-merci. Dal momento che Lohoff costruisce quest'antagonismo, egli non estende il carattere sociale totale del plusvalore alla sua produzione, ma, al contrario, dissolve nella circolazione anche la realizzazione di questo carattere sociale, per mezzo dell'antagonismo fra plusvalore "serio" e plusvalore "non-serio". La caduta ideologica in un antisemitismo strutturale - che aveva già drizzato le orecchie nell'ideologia dello "scambio equo" relativamente all'equivalenza diretta e sulla base di una "riproducibilità senza lavoro" dei beni d'informazione - diviene ora definitivamente manifesta sul piano del capitale nell'insieme della sua riproduzione.
La ben nota critica tronca del capitalismo, ridotta al "capitale finanziario" improduttivo, senza lavoro e speculativo, ora si allarga al "capitale dell'informazione", che un bel mattino avrebbe introdotto il contenuto del valore ed il carattere di merce nelle sue presunte non-merci. Nei corrispondenti "circoli" è già da molto tempo che gira il concetto di una "rendita da informazione" "ingiusta", speculativa, analogo al concetto di rendita "ingiusta" proveniente da transazioni finanziarie speculative. Invece di sottomettere tale idea alla critica dell'ideologia, Lohoff pretende di fornirle un'adeguata teoria di legittimazione da parte della "critica del valore". Il concetto di "rendita da informazione" improduttiva si è trascinato finora "senza grandi pretese teoriche", ed ora il pretenzioso Lohoff recupera il tempo perduto: "Il lavoro d'informazione è diventato il fondamento di un nuovo tipo di rendita, la rendita d'informazione. Nel caso dei capitalisti dell'informazione, considerando il senso strettamente categoriale, non si tratta di capitalisti, ma di una variante particolare di redditieri". Questo implicherebbe una "posizione privilegiata" nella riproduzione capitalista, dal momento che ci sarebbe "appropriazione di plusvalore prodotto altrove" da parte di questi redditieri dell'informazione. Non serve una qualche deformazione denunciatoria per riconoscere qui una variante della contrapposizione ideologica tra capitale "produttivo" e capitale "predatore".
Mentre la "Krisis" residuale, a partire dal vecchio fondo della critica del valore, critica anche (in ogni caso, appena superficialmente) la critica tronca del "capitale finanziario", Lohoff ha creato ora, con pretese teoriche, una seconda specie di "locuste". Qui possiamo riconoscere, in analogia con la metafora delle "locuste", anche un aspetto più ampio. La critica tronca al "capitale finanziario" presuppone, com'è noto, un'inversione fra causa ed effetto, per cui gli "speculatori" bloccherebbero gli investimenti reali e l'accumulazione attraverso la costruzione di bolle finanziarie, ragione per la quale il "buon denaro" dovrebbe essere nuovamente guidato verso la strada produttiva, per mezzo dell'intervento politico, per creare così finalmente i meravigliosi "posti di lavoro". La "teoria" di Lohoff delle "rendite non serie d'informazione" implica un'inversione analoga relativamente ai rendimenti improduttivi suppostamente usurai del capitale-informazione: se le autentiche non-merci che sono i beni d'informazione "senza valore" - in quanto falsa imputazione individuale – fossero finalmente fatti diventare "senza prezzo" ed i redditieri dell'informazione perdessero la loro posizione privilegiata, allora anche loro non potrebbero "appropriarsi" di un qualche "plusvalore prodotto altrove". Così si prenderebbero facilmente i classici due piccioni con una fava: i disgraziati "utenti", finalmente, non dovrebbero spendere il loro "buon denaro" in non-merci senza sostanza, e l'accumulazione reale, liberata dalla zavorra improduttiva delle "rendite d'informazione", potrebbe guadagnare nuovo spazio di manovra, o per lo meno la crisi potrebbe venire un po' alleviata. Si dimostra così, senza ombra di dubbio, fino a dove possa arrivare forzatamente una comprensione tronca della "sostanza del valore", il cui approccio si limita alla (errata) interpretazione definitoria del primo capitolo del "Capitale". La soppressione della mediazione, messa in atto da Lohoff, continua a trasformare la riflessione teorica in ideologia.

10 – segue -

Robert Kurz

fonte: EXIT!

giovedì 30 ottobre 2014

Col sudore della fronte

Breaking Bad

Il disvalore dell'ignoranza
- "Critica del valore" tronca come ideologia di legittimazione di una nuova piccola borghesia digitale -
di Robert Kurz

*Nota precedente all'edizione stampata* 1. Dalla critica del valore all'ideologia del circolo digitale* 2. La sorella della merce e Internet come "macchina di emancipazione* 3. Forma del valore, sostanza del valore e riduzionismo della circolazione* 4. "Scambio giusto" e relazioni d'uso capitalistiche* 5. L'anima della merce in azione: dal "ben pagare il non serio" all'antisemitismo strutturale* 6. Produzione di contenuti, costi capitalistici e "riproduttività senza lavoro"* 7. Lavoro produttivo ed improduttivo nel contesto di riproduzione capitalistica* 8. Verso un'ontologia del lavoro secondaria* 9. Il carattere sociale totale della sostanza del valore e l'ideologia del capitale "produttivo" e "predatore"* 10. Svalorizzazione universale e teoria degli stadi di un'emancipazione simulatrice* 11. Falso universalismo ed esclusione sociale. L'ideologia dell'alternativa digitale come eldorado degli uomini della classe media trasformati in casalinghe* 12. Il punto di vista degli idioti del consumo virtuale* 13. Autoamministrazione della miseria culturale* 14. L'esproprio dei produttori e delle produttrici dei contenuti come abnegazione sociale e risentimento* 15. Termiti e formiche blu. La biopolitica della "intelligenza del formicaio" digitale* 16. Realpolitik di pauperizzazione dei candidati a capo dell'amministrazione di crisi nella cultura*

8. Verso un'ontologia del lavoro secondaria

Prima di portare a termine la critica della temeraria pretesa di Lohoff di aver prodotto il "fondamento, nella critica del valore, di una critica dell'economia politica dell'informazione", si rende necessario un excursus sul modello del concetto di lavoro ad essa associato. Nel suo riferirsi al concetto di Marx di "attività di tipo generale", nel quale include erroneamente la produzione di conoscenza in sé, Lohoff ricorre al concetto di "lavoro generale". Afferma che Marx avrebbe definito la "creazione di nuova conoscenza" "come lavoro generale... e non come lavoro privato" (op.cit.) Questa è però un'interpretazione di Lohoff, che si basa su un'assoluta confusione. Marx differenzia chiaramente tra generalità sociale della "scienza forza produttiva", da una parte, e produzione privata dell'impresa di mercato, dall'altra, relativamente alla riproduzione sociale totale; ma non relativamente alla forma sociale delle attività individuali. Così i "costi imprevisti", in quanto improduttività capitalistica, ed anche "assenza di valore" o generalità, non si trovano per questo al di là della forma merce, del denaro e del prezzo, e la stessa cosa si applica ai "lavori" ad essi connessi.
Anche le attività legate alla "scienza forza produttiva" generale, così come tutti i lavori produttivi in generale, indipendentemente dal fatto di essere prestati sotto forma statalizzata o di economia di impresa, sono "lavori privati", nel senso che la forza lavoro viene scambiata con denaro, visto che ha un prezzo. Questo carattere privato della forma è necessariamente continuativo, indipendentemente dal fatto che nasca come salario di lavoro, remunerazione professorale, onorario o sussidio di povertà, ed indipendentemente dal fatto di essere relazionato al lavoro di conoscenza generale o specifico, o con il lavoro improduttivo in generale. Ogni attività che si trasforma in denaro o che si scambia con denaro è, per sua forma, lavoro privato e quindi lavoro astratto. La categoria di lavoro astratto non ha niente a che vedere con la differenza fra lavoro produttivo ed improduttivo: essa è sovrastante in quanto forma. Perciò anche il lavoro del giudice, del boia, del soldato (e questo in quanto "forma originaria" proto-moderna), del programmatore, del professore di Harvard o dello scrittore sono, secondo la forma, altrettanto lavoro astratto di quello svolto dall'operaio in fabbrica.
Una volta che il capitalismo, a differenza delle formazioni premoderne, ha carattere di socializzazione negativa, la differenza fra lavoro produttivo ed improduttivo, tra valore e non-valore, può anche non presentarsi come differenza fra lavoro ("privato") astratto e lavoro ("generale") non astratto. Le categorie della forma merce sono necessariamente sovrastanti nella forma denaro anche in relazione alle attività di riproduzione. Ciò vale, d'altra parte, anche per le attività sessualmente connotate dei momenti dissociati della riproduzione. Queste, infatti, non possono essere rappresentate come lavoro astratto, ma costituiscono il rovescio offuscato del lavoro astratto e appartengono perciò, come tali, allo stesso contesto storico specifico della socializzazione negativa; non costituiscono un qualche "resto ontologico" dell'assenza della forma merce, ancora suscettibile di essere occupato positivamente. Tutte le attività legate alla socialità ufficiale mediate dalla forma merce, indipendentemente dal piano economico, politico o giuridico, indipendentemente dall'essere "attività di tipo generale" o produzione capitalistica privata, indipendentemente dallo stare in relazione con i "costi imprevisti" o con la produzione di plusvalore reale, tutte esse possono essere solo lavoro astratto e partecipano del contesto di "finanziabilità".
Una volta che Lohoff adduce, sul piano di un'astrazione equivocata, una differenza concettuale fra "lavoro privato" e "lavoro generale", cosa che per lui corrisponde alla differenza fra lavoro produttivo ed improduttivo, si avvicina inaspettatamente ad una differenza ontologica, la quale minaccia di derivare in un'ontologia secondaria del lavoro. A questo punto viene assalito da un certo scrupolo, una volta che si vede attraversata la strada dal suo vecchio Adamo, come preteso critico radicale del lavoro: "Già il termine da me utilizzato di 'lavoro generale' rimane qualcosa di problematico. A partire da questo si potrebbe malintendere che, nel caso del lavoro d'informazione, ci troviamo davanti ad un'attività immediatamente sociale. Non è questo che si pretende. Nella società capitalista, queste attività sono evidentemente altrettanto grette, alienate e determinate dalla forma di qualsiasi altro lavoro. La differenziazione 'lavoro generale - vita privata separata' pretende di segnalare una contraddizione interna dentro il mondo della prassi sociale associata. Letta sotto lo stretto punto di vista della critica del lavoro (!), si tratta, nel caso, dell'espressione 'lavoro astratto', un'elaborazione concettuale paradossale, dal momento che la trasformazione dell'attività in lavoro implica già una dissociazione di tale attività dal contesto sociale" (op.cit.).
Questa battaglia di retroguardia svolta in una nota a piè di pagina, però, non è del tutto credibile. Lo scrupolo improvviso evidenzia un'inconsistenza nell'argomentazione teorica. Poiché, quando Lohoff contrappone al concetto di "lavoro privato" - come sinonimo di lavoro astratto - il concetto di "lavoro generale", non si limita a prendere atto di una "contraddizione interna" in termini meramente logici all'interno del lavoro astratto, ma compie un salto fra piani diversi che scaglia il "lavoro generale" fuori dalla categoria del lavoro astratto. Può darsi che non fosse "previsto", ma è questo quel che avviene. Lohoff si limita a notare che la logica della sua argomentazione lo ha portato ad una ricostituzione dell'ontologia del lavoro oltre la forma di merce, che però lo smentisce come "critico del lavoro". Se egli avesse voluto davvero far giustizia dello scrupolo che lo aveva assalito, sarebbe arrivato alla distruzione di tutta la sua catena argomentativa, cosa che lo spaventa. Così preferisce sfuggire al problema per mezzo di una formulazione-alibi.
Di fatto, dalle premesse dell'insieme della sua argomentazione scaturisce necessariamente un'ontologia secondaria del lavoro. Poiché, se i beni digitali della conoscenza e dell'informazione, come tali ed in sé, devono già rappresentare un'assenza di forma della merce nel bel mezzo del capitalismo, e se viene impressa loro solo in modo giuridico ed esteriore una pseudo-forma di merce, allora anche il "lavoro generale" ad essi collegato deve rappresentare, come tale ed in sé, un'attività fuori dalla forma merce nel bel mezzo del capitalismo, attività che non sarebbe già più lavoro astratto, e a cui la "determinazione della forma" verrebbe concessa solo in modo giuridico ed esterno. Il concetto di "lavoro" riceve così il contenuto - insieme all'attributo "generale" - e lo statuto di un concetto positivo di trasformazione, invece di quello di un concetto d'immanenza negativo. In bell'analogia con la metafisica del lavoro del marxismo tradizionale, si tratterebbe allora solo di "liberare" il "lavoro generale", come tale, dal suo involucro capitalista. In sostanza, abbiamo a che fare con una metafisica postmoderna del "lavoro generale", nel quale la vecchia ontologia del lavoro viene semplicemente trasferita nel "capitalismo informatico".
Su tutto questo, per Meretz non ci sono dubbi. Lui non è tormentato dagli scrupoli di Lohoff: "I beni liberi non solo sono senza valore, ma anche senza la forma della merce, perché vengono prodotti come beni universali liberi: il lavoro generale trova la sua adeguata forma nel bene universale libero" (op.cit.). Allora, nella "libera produzione" di "beni universali liberi" per "liberi individui", si va al di là della forma merce ed il "lavoro generale" incontra la sua "forma appropriata" (il ché viene perfino sottolineato mediante il corsivo). La categoria "lavoro" è salva per i prossimi mille anni, seppure solo in un'immaginazione illusoria. Meretz può così rivelare il segreto dell'ontologia del lavoro di tutta l'economia dell'alternativa digitale, dal momento che nel contesto di "Oekonux" l'adozione meramente formale della "critica del valore" è stata sempre tronca per quanto riguarda la critica del lavoro (a causa, anche, del punto di vista della "psicologia materialista" dell'ontologia del lavoro di Holzkamp, che però non può essere ritenuto responsabile dell'interpretazione di Meretz).
E' ovvio che una "critica del valore" senza una critica del lavoro (o con una critica del lavoro non conseguente, tronca e separata) non è già più una "critica del valore". Se fosse realmente un teorico della critica del valore, e non un ideologo della legittimazione, Lohoff si vedrebbe obbligato a tematizzare apertamente, e a risolvere la contraddizione fondamentale - che pervade il circolo "Oekonux" - tra critica del lavoro e concetto positivo del lavoro. La sua notoria e perfino penosa necessità di consacrarsi cone "teorico capo", che legittima una "prassi" immanente non dichiarata di un certo "circolo", lo spinge, però, ad andare in qualche modo solamente verso una profonda contraddizione. Se già il punto di vista fondamentale del ragionamento di Lohoff dimostrava una ricaduta della critica del valore nell'ideologia piccolo-borghese della circolazione semplice e delle relazioni di equivalenza diretta, anche il "resto della critica del lavoro" può essere solo malamente incerottato, nella speranza che nessuno lo noti e che l'inconsistente formulazione di un alibi riesca ad offrire una sufficiente copertura.
In ogni caso, fa parte dell'immagine del marchio della "Krisis" residuale nascondere, coprire e falsificare "politico-teoricamente" le contraddizioni di contenuto; con la consapevolezza segreta che non si può ottenere niente più che un vaso di fiori nella sfera della teoria sociale e che si tratta solo di un'astratta auto-affermazione di posizione, in un via vai di circoli e movimento che teoricamente non prende le cose tanto sul serio, perché l'obiettivo è soprattutto la legittimazione. Nello stesso senso appare anche la crescente semplificazione categoriale della critica del lavoro nella rivista viennese “Streifzüge”, dove il potenziale critico relativo al lavoro astratto si è semplificato nell'invocazione di una "oziosità" da feuilleton ed in una denuncia moralista dei criteri borghesi di servizio e di concorrenza, o di qualcosa che sì è sempre "corretto", però senza una sufficiente definizione delle categorie teoriche e si trasforma così in chiacchiera culturalista. Non si può non ricordare che la metafisica del "lavoro generale" ha una lunga storia nel post-operaismo di Negri, il quale si è riferito positivamente al "free software" ed al "movimento della libera cultura". Qui si insinua, in punta di piedi, la "post-operaizzazione" dei rappresentanti di una "critica del valore" tronca che, aprendosi da tutti i lati, riesce a malapena a muoversi, dimostrando così solamente quanto stia diventando superflua.

9 – segue -

Robert Kurz

fonte: EXIT!

mercoledì 29 ottobre 2014

La produzione della conoscenza e la conoscenza della produzione

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Il disvalore dell'ignoranza
- "Critica del valore" tronca come ideologia di legittimazione di una nuova piccola borghesia digitale -
di Robert Kurz

*Nota precedente all'edizione stampata* 1. Dalla critica del valore all'ideologia del circolo digitale* 2. La sorella della merce e Internet come "macchina di emancipazione* 3. Forma del valore, sostanza del valore e riduzionismo della circolazione* 4. "Scambio giusto" e relazioni d'uso capitalistiche* 5. L'anima della merce in azione: dal "ben pagare il non serio" all'antisemitismo strutturale* 6. Produzione di contenuti, costi capitalistici e "riproduttività senza lavoro"* 7. Lavoro produttivo ed improduttivo nel contesto di riproduzione capitalistica* 8. Verso un'ontologia del lavoro secondaria* 9. Il carattere sociale totale della sostanza del valore e l'ideologia del capitale "produttivo" e "rapinante"* 10. Svalorizzazione universale e teoria degli stadi di un'emancipazione simulatrice* 11. Falso universalismo ed esclusione sociale. L'ideologia dell'alternativa digitale come eldorado degli uomini della classe media trasformati in casalinghe* 12. Il punto di vista degli idioti del consumo virtuale* 13. Autoamministrazione della miseria culturale* 14. L'esproprio dei produttori e delle produttrici dei contenuti come abnegazione sociale e risentimento* 15. Termiti e formiche blu. La biopolitica della "intelligenza del formicaio" digitale* 16. Realpolitik di pauperizzazione dei candidati a capo dell'amministrazione di crisi nella cultura*

7. Lavoro produttivo ed improduttivo nel contesto di riproduzione capitalistica

Dal momento che anche Lohoff e Meretz sanno che "la riproduzione senza lavoro" del software e dei contenuti culturali, nel senso più ampio, presuppone qualcosa come "il lavoro d'informazione" ed "il lavoro di contenuto" (visto che ancora omettono, negli insiemi di riproduzione dei beni d'informazione digitale, tanto gli aggregati infrastrutturali quanto il consumo d'energia), essi arrivano senza sorprese - per quanto riguarda la definizione del carattere di questo "lavoro" o di questo "sforzo" - al vecchio problema del lavoro "produttivo" ed "improduttivo" in Marx e nella teoria economica; questione che viene affrontata per mezzo di un saggio sul tema (Peter Samol, "Lavoro senza valore", Krisis 31). Viene così raggiunto il livello d'insieme della riproduzione sociale e delle sue mediazioni. Lohoff attribuisce il lavoro d'informazione e dei contenuti ad una "produzione sociale della conoscenza". Invocando le rispettive pagine di Marx nei "Gundrisse", dove Marx parla di "attività di tipo generale" [allgemeinen Gattungsgeschäften], Lohoff arriva all'affermazione generale per cui "i lavoratori della conoscenza" avrebbero semplicemente "...dal punto di vista della teoria del valore, lo stesso statuto che hanno i giudici o i soldati, svolgendo così un lavoro improduttivo in senso capitalista" (op.cit.).
E' noto che le considerazioni di Marx sul lavoro produttivo ed improduttivo sono incomplete ed inconsistenti; pertanto, si prestano ad interpretazioni abbastanza flessibili. La mancanza di chiarezza risiede soprattutto nel fatto che Marx, in vari frammenti dedicati al tema, sembra dare una definizione determinata, sulla base di alcuni "lavori" empiricamente tangibili, riferendosi al capitale concreto o allo Stato. Ci troviamo qui di nuovo di fronte allo stesso problema, che si era già fatto notare a livello di circolazione, della falsa immediatezza della definizione di sostanza e di relazione di equivalenza. Tuttavia, non si tratta qui di un mero problema di esposizione dell'architettura teorica di Marx, ma possibilmente di un'inconsistenza reale, nella misura in cui nei frammenti di testo di Marx su tale questione emergono di fatto definizioni positiviste. Su questo c'è da dire, in primo luogo, che la differenza fra lavoro produttivo ed improduttivo non si può stabilire in forma definitoria, sulla base di determinati "lavori" particolari, ma solo in termini di teoria della circolazione, ossia, in riferimento all'insieme della riproduzione capitalista. Quest'idea era già, essenzialmente, il fondamento del mio saggio "Die Himmelfahrt des Geldes" (L'apoteosi del denaro), ma fino ad oggi non c'è stato alcun ulteriore sviluppo.
Peter Samol tocca solo superficialmente questo tema, per mezzo ancora della semplice, e molto nota, relazione fra lavoro nella produzione e lavoro nella circolazione, nella quale quest'ultimo "non sarebbe risolvibile in lavoro produttivo" (op.cit.), e con l'avvertenza che "lavoro produttivo ed improduttivo... si presentano fortemente mescolati nelle aziende delle infrastrutture" (op.cit.), senza però esaminare sistematicamente (dal punto di vista della teoria della circolazione) il problema della mediazione. Invece, come Lohoff, si basa su una definizione positivista, sulla base dei "tipi di lavoro" che sarebbero suppostamente identificabili chiaramente. Tuttavia, lo stesso "lavoro" può essere produttivo o improduttivo, non solo nel senso che supporta o meno la produzione di lucro di un capitale individuale, ma anche all'interno della propria produzione di lucro. Cosa che nel caso dei capitali di circolazione si può ancora risolvere con relativa facilità, in quanto sono alimentati dalla massa di plusvalore sociale totale, in altri casi è meno chiaro, in quanto si presenta "mescolato" o ambivalente. Questo ci riporta di nuovo al problema della riproduzione capitalistica totale, che non può essere risolto per mezzo di una semplice somma di lavori "contabilizzabili" con chiarezza come produttivi o improduttivi. Per esempio, anche lavori industriali di fabbrica, in apparenza chiaramente produttivi, possono anche essere improduttivi, se non acquisiscono una qualche domanda con capacità di pagamento; questo non è in alcun modo un problema di realizzazione di un valore in sé esistente, ma quello che succede è che è stato prodotto molto poco valore nell'insieme della società (cosa che diventa visibile solo nel contesto della mediazione), situazione che poi si "vendica" su determinati capitali individuali, oppure si ripercuote anche sull'insieme della società per mezzo della crisi. Lo stesso vale per la produzione del valore apparentemente reale, che siano automobili, case o altro, e che viene generato solo attraverso rendimenti provenienti da bolle finanziarie.
Dal momento che Lohoff e Samol non espongono nessuno sviluppo sulla base della teoria della circolazione, e che sia relazionato con l'insieme della produzione, ma forzano soprattutto delle definizioni positiviste riguardo ad una "imputabilità" suppostamente chiara (cosa, com'è noto, dovuta all'assenza di un punto di partenza nella relazione di equivalenza immediata, ideologicamente costruita sul piano della circolazione), posso anche fermarmi qui. Prima di affrontare l'importanza del "lavoro della conoscenza" di fatto improduttivo nell'argomentazione di Lohoff, bisogna segnalare l'inconsistenza di questa dal punto di vista immanente, in tre punti. Si tratta di una differenza che Lohoff in parte lascia indeterminata, in parte la imposta semplicemente in modo erroneo, cioè, a partire dall differenza tra: a) "lavori" che non aggiungono alcun valore, b) "lavori" che aggiungono valore ma che non producono plusvalore, c) "lavori" che producono plusvalore reale (essendo che nel caso di quest'ultimi si tratta di plusvalore sostanziale e non di plusvalore meramente formale di un capitale individuale alimentato a partire dalla massa di plusvalore sociale totale, come avviene nelle imprese della circolazione. La differenza tra lavoro produttivo ed improduttivo in Marx viene relazionata esclusivamente alla produzione reale (sostanziale) di plusvalore, cosa che di fatto viene ricordata da Lohoff, ma cui non si attiene.
Il primo punto "a" si riferisce alla produzione generale della conoscenza, nel senso delle "attività di tipo generale", in Marx. Nella misura in cui, nel caso di queste attività di tipo generale, non si tratta di attività di giudici, boia o di altri amabili portatori di attività generale, ma di "produttori della conoscenza" nel senso più lato, Lohoff mette in atto la stessa falsa generalizzazione che aveva già usato nel caso del teorema di Pitagora e della legge di Ohm. Non distingue fra produzione di conoscenza in generale, per esempio nelle università o nei dipartimenti di ricerca definiti fondamentali, da un lato, e la produzione specifica di conoscenza per mezzo di determinati beni, dall'altro. In realtà, la prima può anche assumere la forma di merce, per esempio quando un istituto di ricerca privato vende una conoscenza generica, ma si tratta, relativamente all'insieme della produzione, non di una conoscenza incorporabile in determinati beni, ma di una conoscenza generale che in sé non può apportare alcun valore, entrando sempre solo nelle condizioni generali di produzione di merci scientificizzate.
Diverso è il caso della produzione specifica di conoscenza per alcune determinate merci. Un momento dell'argomentazione di Marx consiste esattamente di questa differenza fra la produzione generale di sapere come "attività tipica" e la produzione di sapere che entra in una merce specifica. Tutto quello che entra nella produzione specifica di merci come "lavoro" aggiunge valore. Però, per il capitale quello che importa non è il valore puro e semplice , ma solo il plusvalore. Ci troviamo qui di fronte ad un problema particolare della produzione di conoscenza che entra in una determinata merce specifica, cosa che può essere esemplificata per mezzo delle attività di costruzione di un nuovo modello di automobile (progetto). Tale "lavoro" di costruzione è tutto meno che una "attività di tipo generale"; essa appartiene in un certo qual modo all' "insieme del lavoro" di un capitale individuale, della produzione di merci perfettamente determinata nell'ambito dell'economia d'impresa, anche se essa di per sé non si integra nel processo immediato di fabbricazione. Tuttavia, la sua incorporazione solo mediata non sta allo stesso livello della generalità delle "attività tipiche" della produzione di conoscenza, ma rimane in un certo senso immediata, in particolare relativamente al processo dell'insieme dell'economia d'impresa di produzione di una determinata merce.
Ora, il problema per la produzione di valore consiste nel fatto che quest'aggiunta di valore legato alla produzione del "progetto" è insignificante nell'insieme del lavoro dell'economia d'impresa, e per una semplice ragione: questo "lavoro" si esaurisce con la fine del progetto; esso non è ripetitivo, nel senso che non si ripete senza posa come avviene col lavoro di fabbrica per la produzione di milioni di automobili in accordo con tale "progetto". Nella quantità totale del "lavoro" dell'economia d'impresa, la quota-parte del "lavoro della conoscenza" lì incorporata resta pertanto molto ridotta. Questo, però, costituisce su questo piano un problema quantitativo, e non un problema qualitativo, relativamente al "carattere di generalità" del "lavoro della conoscenza" specifico di tale economia aziendale.
Lo stesso avviene con la produzione di "beni d'informazione" digitale. Anche questo "lavoro" si presenta, sotto forma di determinato software che viene prodotto da determinate imprese, come un prodotto-merce specifico, e non ha in alcun modo "carattere di generalità", come per esempio la conoscenza matematica, o anche la scoperta della legge di Ohm, ecc.. Il fatto per cui questo software possa essere usato per fini differenti, che questi siano, a loro volta, produzioni di merci o meno, è un altro discorso, e non ha niente a che vedere col carattere specifico di merce di questo software prodotto da una determinata impresa. La differenza, tuttavia, consiste nel fatto che a questo software non si aggiunge un qualche lavoro di fabbrica ripetitivo, e che la massa di lavoro totale, e la sua capacità di aggiungere valore, si mantengono pertanto straordinariamente ridotti, diversamente da quello che avviene nella produzione di automobili. Questo, però, si manifesta solamente sotto forma di contributo indiretto da parte della quantità di lavoro produttivo di valore in tutta la società, e anche da parte della massa di valore o di plusvalore, in quanto la produzione di questo software, specifico come merce, può rivelarsi redditizio per l'impresa che lo produce.
Lohoff, ora, con il suo concetto erroneo di "beni universali", pensa di potersi ergere ad esperto affermando: "... Robert Kurz argomenta in termini oggettivamente errati, a proposito di 'Internet come fabbrica dei sogni del nuovo mercato (Jungle World 16/2000). Qui egli concede alle pretese merci dell'informazione un valore, battendo in ritirata per mezzo di un'argomentazione meramente quantitativa. Come opera di 'pochi specialisti' la produzione di software e di altre merci di informazione non porterebbe a nessuna 'creazione di valore addizionale degno di essere riferito'" (op.cit.). Quest'affermazione di Lohoff è dovuta solo alla sua confusione fra produzione di conoscenza sociale generale e produzione di conoscenza specifica nell'economia d'impresa, incorporata in merci materiali o immateriali. Nell'ultimo caso si tratta effettivamente di un problema quantitativo. In qualche maniera, lo stesso co-autore di Lohoff, Samol, è cosciente di questo e dice a proposito: "Supponiamo che, per esempio, lo sviluppo di software consumi molto tempo. Ma in relazione alle possibilità di essere replicato quasi gratuitamente, la possibilità della sua rapida diffusione e l'ampia varietà della sua applicazione, i costi di produzione vengono incredibilmente dimiuniti. La quota-parte diventa così quasi omeopatica. Ciascuna copia isolata rappresenta, in altre parole, un valore che praticamente tende a zero" (op.cit.).
Questo è di fatto corretto ma così, in primo luogo, Samol ammette in forma indiretta che, per quanto riguarda il carattere del valore della produzione di software nell'economia d'impresa, si tratta di un problema quantitativo. In secondo luogo, però, questo problema nasce solo in un contesto relativamente al quale, tanto Somol che Lohoff, passano di lato, ossia il contesto della riproduzione dell'insieme del capitale. Anche questo non era ancora del tutto completamente chiaro nel mio articolo di allora su Jungle World. Il che, come venne detto, dal punto di vista dell'economia d'impresa può essere presentato come produzione di merce redditizia, e rivelare il suo carattere "omeopatico" solo sul piano della massa del valore sociale totale. A questo livello, non solo è assolutamente disprezzabile la parte corrispondente all'ottenimento del valore reale ma, e soprattutto, questa piccola produzione di valore non può generare alcuna sostanza di plusvalore (ed è perciò improduttiva in questo decisivo senso capitalista), poiché i costi di riproduzione della corrispondente forza lavoro qualificata tendono ad essere più elevati di quella che è la sua capacità di ottenere valore. Tuttavia, quello cui Samol si riferisce non si presenta immediatamente nell'economia d'impresa, ma solo nel contesto della mediazione sociale (e in questo contesto di nuovo indirettamente, come tentativo di abbassare i costi di riproduzione di questa forza lavoro, attraverso l'esternalizzazione oppure attraverso la pura e semplice sparizione, a causa della razionalizzazione dell'attività di programmazione, attraverso programmi programmatori). Ma la stessa argomentazione limitata e tronca di Lohoff è già criticabile dal punto di vista immanente; essa risulta solo un'affermazione ideologica per cui tutta la produzione di conoscenza in generale dev'essere dichiarata non-merce, per poterla suppostamente slegare dalla struttura del valore e del prezzo dell'insieme della società, ed isolarla dal punto di vista della "teoria dell'appropriazione".
Il secondo punto riguarda la parte indiretta della produzione di conoscenza in generale nella creazione di plusvalore sociale totale, e merita qualche parola. Lohoff in questo caso forza un punto di vista da molto tempo noto della teoria della crisi della critica del valore: "Il progresso scientifico eleva le forze produttrici della società in generale e moltiplica anche la produzione materiale di capitale, ma non moltiplica la sua creazione di valore" (op.cit.). La celebre "scienza forza produttiva" eleverebbe perciò solo la produttività materiale, poiché le forze produttive risultanti, dice Lohoff con l'aiuto di una citazione da MEGA, "non influenzano in modo immediato il valore di scambio" (op.cit.). Questo, però, è solo una mezza verità e come tutte le mezze verità è particolarmente falsa. Perché la "scienza forza produttiva" in generale non aggiunge alcun valore e naturalmente non lo aggiunge "immediatamente" neanche al valore di scambio. Ma entra "mediatamente", ossia in modo indiretto, precisamente nel contesto che Marx ha elaborato ne "Il Capitale" come produzione di plusvalore relativo.
Cioè, malgrado la crescita della produttività materiale non solo non apporta alcun valore, prima di far diminuire, al contrario, il valore dell'insieme delle merci individuali, essa diminuisce simultaneamente i costi (valore) della merce forza lavoro, cosa che, sotto determinate condizioni, eleva la parte relativa del capitale nell'ottenimento di valore totale. Per questo la tematizzazione della "scienza forza produttiva", come potenziale di produzione di plusvalore, assume un posto centrale nelle argomentazioni delle teorie della crisi che negano categoricamente l'esistenza di un limite interno assoluto all'accumulazione reale; oggi particolarmente dirette contro la teoria della crisi della critica del valore. Lohoff usa lo stratagemma di presentare un trattato su "Il valore della conoscenza" con la pretesa che sia "fondamentale" (anche dal punto di vista della teoria della crisi) e, per la circostanza, offusca completamente la connessione fra "conoscenza" e plusvalore relativo; ancora una volta, un certificato di povertà per un "teorico".
Questo contesto ha già svolto un ruolo fondamentale nel "testo primordiale" della teoria della crisi della critica del valore, col mio saggio “Die Krise des Tauschwerts" (La crisi del valore di scambio, pubblicato nel 1986 su Marxistische Kritik, pertanto ha più di vent'anni), le cui argomentazioni vennero adottate dallo stesso Lohoff già negli anni 90. Quindi, davanti al suo attuale ragionamento, si deve chiaramente parlare di un regresso per quanto riguarda la teoria della crisi. L'argomentazione della critica del valore, a tutt'oggi, per quanto riguarda il plusvalore relativo è in un certo qual modo insufficiente, in quanto non viene definita con sufficiente precisione la relazione tra il capitale individuale e l'insieme del capitale nell'ambito della produzione di plusvalore relativo. Più tardi, con lo sviluppo del concetto di plusvalore relativo nel "Capitale", però diventa chiaro che la categoria di plusvalore in generale può essere determinata solo a partire da un contesto di mediazione dell'insieme della società, e non a partire da una "imputabilità" immediata relativamente alla produzione individuale di merce. Invece di intrapredere il necessario sviluppo, Lohoff, con la sua argomentazione regressiva, cancella completamente questo contesto di mediazione; ancora una volta a causa della sua intenzione ideologica di costruire in maniera isolata, semplicemente e puramente, la "assenza di valore" e il presunto carattere di non-merce della produzione di conoscenza. Mentre parla di una "de-socializzazione della ricchezza comune" (op.cit.) della produzione di conoscenza sul piano giuridicamente ridotto della proprietà, è lui che opera una desocializzazione teorica del contesto della mediazione, di fatto complesso, che non può essere suddiviso in momenti singolari "con valore" e "senza valore".
Il terzo punto riguarda un'inconsistenza teorica in Samol, che solo indirettamente ha qualcosa a che vedere con la produzione di conoscenza, in un certo qual modo perfino in controtendenza con la linea generale dell'argomentazione, e che qui verrà riferita solo perchè non si dica che sia stata ignorata. Samol si riferisce alla privatizzazione delle infrastrutture pubbliche, ossia, alla loro trasformazione in imprese redditizie di economia imprenditoriale: "Di fatto una tale trasformazione dell'educazione, dell'assistenza, della cultura, della salute ecc. in merci vendibili trasformerebbe le rispettive attività in lavoro produttivo. Ma tali servizi, per la loro natura, possono essere esercitati come valorizzazione del capitale solo fino ad un certo punto. Manca soprattutto la domanda con un potere di acquisto" (op.cit.). Questo è corretto solo sul piano dell'apparenza superficiale, cui a volte i commenti giornalistici cercano di circoscriverla, ma non è ammissibile nell'ambito di una riflessione teorica. Come già accennato, la mancanza di domanda con potere di acquisto dev'essere imputata in ultima istanza all'insufficiente produzione sociale di plusvalore, dalla quale inizialmente risulta tutto il potere di acquisto.
Una volta che la "cultura" in senso lato includesse, per esempio, la produzione di conoscenza comune universitaria, secondo il ragionamento di Samol, nel caso della privatizzazione, questa verrebbe immediatamente "trasformata in lavoro produttivo". Cosa che è in chiara contraddizione col concetto di Lohoff di pura e semplice "assenza di valore"  e del carattere di non-merce della "produzione di conoscenza" nel suo insieme. Di fatto, la produzione di conoscenza comune privatizzata verrebbe trasformata immediatamente in "lavoro" produttivo solo nello stesso senso, per esempio, delle imprese della circolazione, cioè, solo formalmente, in quanto in realtà vengono alimentate a partire dalla massa di plusvalore sociale totale. Il loro contributo indiretto alla produzione sociale di plusvalore relativa avverrebbe in ogni caso, sia nella forma pubblica che in quella privata, in quanto la questione della "mancanza di potere d'acquisto" per la produzione di conoscenza comune privatizzata attiene alla mancanza di produzione di plusvalore sociale totale, che è trasversale a tutti i settori (nel caso di una crescita sufficiente della massa assoluta del plusvalore sociale potrebbe sorgere sufficiente "potere di acquisto" per l'accesso alla conoscenza comune privatizzata). La confusione qui in agguato è dovuta ancora una volta alla soppressione del contesto di mediazione e alla limitazione alla "imputabilità" singolare definitoria che poi, senza connessione con la propria argomentazione di fondo, si ferma subito direttamente alla tradizionale riduzione della teoria della crisi ad un semplice "problema di realizzazione".
Mi sono qui riferito in maniera un po' più circostanziata all'inconsistenza immanente del ragionamento di Lohoff, rimandando comunque sempre nuovamente alla riproduzione del capitale nel suo insieme, che non può essere rappresentata come semplice somma di momenti individuali isolati e definiti separabili, ma che ha una sua qualità propria, alla quale sono subordinati i momenti mediatori della produzione e della circolazione immediatamente individuali e a partire dai quali, solamente, questi possono essere precisati. Questo si applica anche al carattere capitalisticamente improduttivo della produzione della conoscenza, sotto qualsiasi punto di vista, indipendentemente dalla forma pubblica o privata e indipendentemente dal carattere generale o imprenditoriale della conoscenza. Poiché anche i momenti di produzione di conoscenza, "senza valore" puro e semplice o relativamente alla creazione di plusvalore, fanno parte della condizioni oggettive della riproduzione capitalistica, poiché in caso contrario non sarebbero arrivati ad esistere. Tanto meno, la loro apparente immediata "assenza di valore" in sé può essere separata dalla struttura sociale valore-prezzo, così come la loro "riproducibilità senza lavoro". Al contrario, si manifestano necessariamente sotto forma di "imprevisti" (costi morti), così come è stato evidenziato più volte da Marx.
I costi morti, però, sono qualcosa di diverso dalla "assenza di costi"; non hanno in sé niente a che vedere con un'assenza della forma merce, devono essere necessariamente rappresentati sotto forma di denaro e di prezzo. E' vero - e per la teoria della crisi della critica del valore non è assolutamente niente di nuovo - che con la progressiva socializzazione i "costi imprevisti" crescono per ragioni obiettive, in quanto simultaneamente si abbassa la massa di plusvalore reale dell'insieme della società. E' tale discrepanza crescente a costituire precisamente il limite interno assoluto della valorizzazione. Si tratta, nel caso, di uno stato di crisi che coinvolge tutta la società, e che può essere superato solo attraverso una trasformazione sociale totale, ma non attraverso la divisione fra merci "normali", con sostanza di valore", e non-merci che si suppongono "anomale", senza sostanza, in quanto "beni universali" che in sé sarebbero già oltre la forma dominante. Lohoff, nel suo percorso che parte dall'ideologia dell'equivalenza immediata nella circolazione, passando per la "riproducibilità senza lavoro" di artefatti della conoscenza, fino al carattere "improduttivo" e tuttavia necessario del lavoro dell'informazione, della conoscenza e dei contenuto, non guadagna nemmeno un millimetro di terreno. Per questo il costrutto puramente ideologico dei "beni universali", nella svolta (per mezzo della teoria dell'azione) verso la "teoria dell'appropriazione", porta a conseguenze assurde e realmente barbare, come si vedrà più avanti. In ultima analisi, è ciò che implica ogni ideologia di alternativa immanente, e l'ideologia postmoderna dei "beni della conoscenza liberi" non costituisce un'eccezione.

8 – segue -

Robert Kurz

fonte: EXIT!

martedì 28 ottobre 2014

Il teorema di Pitagora e la Warner Bros

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Il disvalore dell'ignoranza
- "Critica del valore" tronca come ideologia di legittimazione di una nuova piccola borghesia digitale -
di Robert Kurz

*Nota precedente all'edizione stampata* 1. Dalla critica del valore all'ideologia del circolo digitale* 2. La sorella della merce e Internet come "macchina di emancipazione* 3. Forma del valore, sostanza del valore e riduzionismo della circolazione* 4. "Scambio giusto" e relazioni d'uso capitalistiche* 5. L'anima della merce in azione: dal "ben pagare il non serio" all'antisemitismo strutturale* 6. Produzione di contenuti, costi capitalistici e "riproduttività senza lavoro"* 7. Lavoro produttivo ed improduttivo nel contesto di riproduzione capitalistica* 8. Verso un'ontologia del lavoro secondaria* 9. Il carattere sociale totale della sostanza del valore e l'ideologia del capitale "produttivo" e "rapinante"* 10. Svalorizzazione universale e teoria degli stadi di un'emancipazione simulatrice* 11. Falso universalismo ed esclusione sociale. L'ideologia dell'alternativa digitale come eldorado degli uomini della classe media trasformati in casalinghe* 12. Il punto di vista degli idioti del consumo virtuale* 13. Autoamministrazione della miseria culturale* 14. L'esproprio dei produttori e delle produttrici dei contenuti come abnegazione sociale e risentimento* 15. Termiti e formiche blu. La biopolitica della "intelligenza del formicaio" digitale* 16. Realpolitik di pauperizzazione dei candidati a capo dell'amministrazione di crisi nella cultura*

6. Produzione di contenuti, costi capitalistici e "riproduttività senza lavoro"

Se l'ideologia piccolo-borghese classica del "commercio equo" - avendo come sfondo un imbastardimento e un troncamento della critica dell'economia politica circa le relazioni di equivalenza immediata - costituisce il vero fulcro dell'argomentazione di Lohoff e Meretz, il problema ad essa associato della sostanza del valore e della sua "localizzazione" non tarda a venire ulteriormente sviluppato in modo ugualmente tronco. Un anello intermedio di questo processo è la tematizzazione solo tangente della relazione generale fra il "lavoro" o, in termini generali, lo "sforzo" e la forma del valore. In questo anello intermedio non estraneo alla discussione, la "assenza di valore" dei beni d'informazione specificamente digitali comincia ad essere semplicemente imputata alla loro "duplicibilità praticamente senza sforzo" (Meretz, id.) oppure, in modo ancora più esplicito, alla loro "riproducibilità senza lavoro" (Lohoff, id.).
Già qui si manifesta nuovamente la connotazione ideologica di una classica critica piccolo-borghese e tronca dei momenti rimossi dal contesto della riproduzione sotto la forma della merce o delle socializzazione del valore: la rabbia dell'etica protestante e, soprattutto, della coscienza del portinaio tedesco circa i "redditi senza lavoro" fa capolino. In questa misura ci troviamo chiaramente davanti ad una situazione analoga, a caccia delle rendite speculative, "senza lavoro", delle transazioni finanziarie nella circolazione che, com'è noto, costituiscono una caratteristica essenziale dell'antisemitismo strutturale. In analogia con transazioni simili, il cui "sforzo", senza dubbio inesistente, passa per "non lavoro" e quindi per "poco serio", anche se pretende di identificare la "riproducibilità senza lavoro" dei beni d'informazione digitale con una sorta di secondo piano della speculazione, poiché qui ci sarebbe gente che si "arricchisce senza lavorare" vendendo dei meri diritti d'uso con un click del mouse. L'ideologia di scambio immediato e "sostanziale" degli equivalenti, o l'accusa per cui questo verrebbe "ferito", viene ora imputata ad una "base di produzione senza lavoro". Dicasi di sfuggita che qui si annuncia, contrariamente a tutta la "critica del lavoro" che viene brandita, un passaggio in punta di piedi verso una nuova ontologia sui generis del lavoro, come si andrà a dimostrare.
Prima di esaminare l'ampliamento di questo già sospetto anello intermedio dell'argomentazione, a proposito della "riproducibilità senza lavoro" delle condizioni di riproduzione sociale totale della "sostanza del valore", in Lohoff e Meretz, intendo assoggettare questo enunciato nudo e crudo ad una critica immanente, dal momento che la problematica ad esso associata si rivela ancora di una certa importanza in quel che segue. La definizione di una "riproducibilità senza lavoro" è possibile solo se i beni d'informazione digitale vengono rimossi da tutto il processo di produzione nel cui contesto si inscrivono. Anche Lohoff e Meretz evidentemente sanno che quello che si riproduce "senza lavoro" deve, prima di tutto, essere prodotto. Si presuppone, pertanto, sempre un "lavoro d'informazione" implicato nella produzione di questi beni digitali, il quale magari non viene solo effettuato da programmatori seduti a casa loro davanti al computer, ma la cui produzione, da parte sua, ha dei presupposti molto dispendiosi che, a loro volta, sono dispendio di lavoro. Perché tutto questo possa continuare ad avvenire sono necessari, inoltre, enormi agglomerati di infrastrutture, che innanzitutto devono essere prodotte e mantenute in funzione: reti telefoniche, reti di dati, reti di sistema universale per la telecomunicazione mobile (UMTS, i cui eventuali effetti negativi sulla salute rimandano ad un aspetto qualitativo del contesto digitale globale imposto dal capitalismo, che non è ancora stato tematizzato). Al di là di tutto questo, un tale contesto è associato ad un consumo di energia ugualmente dispendioso. Affinché non ci siano malintesi: qui non è stato detto ancora niente sulla relazione nella quale questo "sforzo" totale, che comprende le quantità segnalate di "lavoro astratto", si incontra con la sostanza sociale del valore e del plusvalore, e nulla è stato detto sul fatto se qui avvengono, o meno, "trasferimenti di valore" ecc.. Quello che è certo è che questo sforzo, indipendentemente dal suo contenuto in sostanza di valore, si ripercuote sulla superficie del mercato come costi sotto forma di denaro, costi che sono integrati nei beni d'informazione "riproducibili senza lavoro" attraverso i diversi contesti di mediazione. Siano questi beni di informazione sostanzialmente, e in quanto tali, "senza valore" o meno (il che è già in sé una definizione falsa e tronca), in nessun caso possono essere "senza prezzo". Qui ancora una volta si manifesta l'ideologia dell'equivalenza immediata, come se una "assenza di valore" specifica potesse essere rimossa dal contesto di socializzazione del valore e ripresentata immediatamente come "assenza di prezzo".
In realtà non esiste una "assenza di valore" isolata, perché la "svalorizzazione del valore" si presenta anche nei beni o nelle relazioni di uso individuale, ma solo come processo sociale totale. Torneremo su questo più in dettaglio quando parleremo delle relazioni di riproduzione che riguardano il capitalismo nella sua totalità. Se Lohoff e Meretz hanno già deciso il carattere della socializzazione sul piano della circolazione per mezzo di una semplice somma delle relazioni di equivalenza, fanno lo stesso anche sul piano della produzione e della riproduzione, in una mera sommatoria dei momenti "con lavoro" e "senza lavoro" immediatamente individuali. Ma, visto che si tratta di un contesto di mediazione che non può essere suddiviso in momenti individuali isolabili, e che si presenta senza eccezioni sotto la forma di costi e di prezzi, la forma denaro della mediazione non può venire disattivata per beni o per usi specifici, mentre tutto il resto rimane.
Questo diventa ancora più chiaro quando Meretz parla di "beni d'informazione, conoscenza e cultura" come supposti "beni universali" in senso lato, o che finisce per specificare come "software, conoscenza, musica, film, testi". Questo è un riferimento al fatto che qui non si tratta solo  di beni digitali del software e del suo contesto di riproduzione tecnologica ed infrastrutturale come "lavoro" o "sforzo", ma del fatto che questi artefatti tecnici sono, allo stesso tempo, "portatori" di un contenuto, anch'esso incondizionalmente associato al "carattere universale". E' oramai chiarissimo che questi contenuti culturali, nel senso più lato, devono anche essere prodotti prima di poter essere "riproducibili senza lavoro".
Per oscurare ulteriormente questo stato di cose, Lohoff e Meretz applicano un proverbiale trucco che consiste nell'equiparare semplicemente la produzione dei contenuti specifici alla "conoscenza umana" in generale. Per questo tornano all'argomento dell'esclusività e della non esclusività della "capacità di utilizzo". Lohoff non si vergogna di fare la seguente citazione: "Nessuno cessa di avere a sua disposizione il teorema di Pitagora solo perché un'altra persona sta ricorrendo ad esso in questo preciso momento". E Meretz rincara la dose: "I beni sono rivali per quel che riguarda il loro utilizzo se l'uso per l'uno restringe o impedisce l'utilizzo per l'altro. Non sono rivali se dal loro utilizzo non risulta alcuna restrizione al rispettivo uso da parte di altri. Esempi: il pane è esclusivo e rivale rispetto al suo consumo ... Il ricorso alla legge di Ohm, al contrario, non è rivale, né io posso essere escluso da essa". Già era stata messa in evidenza l'inconsistenza teorica ed il contenuto ideologico di un tale argomento in termini di circolazione. Ora viene posta la questione della sua rivelanza riguardo alla "riproducibilità senza lavoro". 
Nel caso del teorema di Pitagora o della legge di Ohm, è di fatto evidente senza alcuna precondizione; questa "conoscenza umana" generale la incontriamo "libera da limitazioni spazio-temporali" (Lohoff) perché la sua produzione è già storica (e in parte molto anteriore al capitalismo), e non richiede alcuno "sforzo" nell'attualità. Invece, l'attuale produzione specifica di contenuti di musica, film e testi si trova in una situazione fondamentalmente diversa. La sua "riproduzione senza lavoro" presuppone - similmente a quanto avviene col software e le rispettive condizioni di riproduzione - uno "sforzo" attuale che si situa nel contesto della riproduzione capitalista, e quindi niente affatto libero da limitazioni spazio-temporali.
La produzione di un film presuppone multipli "lavori" del regista, degli operatori e degli attori, senza dimenticare le comparse, che devono essere tutti pagati, poiché in caso contrario non verrà prodotto nessun film; allo stesso modo, le macchine, gli scenari ecc. devono essere associati a dei loro "costi" corrispondenti. La stessa cosa si applica in linea di principio alla produzione dei contenuti di musica, testi, ecc.. Ancora una volta, quello che è in questione in partenza non è la relazione con la sostanza sociale del valore o del plusvalore, ma semmai, alla superficie del mercato, si tratta di costi, sotto forma di denaro, che si devono riflettere nei prodotti, sotto forma di prezzi. Né la "riproduzione senza lavoro" digitalizzata della produzione di contenuti può essere dissociata come isolata "assenza di prezzo", come anche vedremo a proposito di ulteriori implicazioni. Come già detto, si tratta qui solo di un anello intermedio di argomentazione ideologica, la cui confusione "in termini di economia politica", tuttavia, va ancora ad aumentare quando viene estesa alla relazione di riproduzione capitalista globale.

7 – segue -

Robert Kurz

fonte: EXIT!

lunedì 27 ottobre 2014

I moralisti della merce e il buon denaro

1939 Exile Express Anna Sten, Alan Marshal & Jerome Cowan

Il disvalore dell'ignoranza
- "Critica del valore" tronca come ideologia di legittimazione di una nuova piccola borghesia digitale -
di Robert Kurz

*Nota precedente all'edizione stampata* 1. Dalla critica del valore all'ideologia del circolo digitale* 2. La sorella della merce e Internet come "macchina di emancipazione* 3. Forma del valore, sostanza del valore e riduzionismo della circolazione* 4. "Scambio giusto" e relazioni d'uso capitalistiche* 5. L'anima della merce in azione: dal "ben pagare il non serio" all'antisemitismo strutturale* 6. Produzione di contenuti, costi capitalistici e "riproduttività senza lavoro"* 7. Lavoro produttivo ed improduttivo nel contesto di riproduzione capitalistica* 8. Verso un'ontologia del lavoro secondaria* 9. Il carattere sociale totale della sostanza del valore e l'ideologia del capitale "produttivo" e "rapinante"* 10. Svalorizzazione universale e teoria degli stadi di un'emancipazione simulatrice* 11. Falso universalismo ed esclusione sociale. L'ideologia dell'alternativa digitale come eldorado degli uomini della classe media trasformati in casalinghe* 12. Il punto di vista degli idioti del consumo virtuale* 13. Autoamministrazione della miseria culturale* 14. L'esproprio dei produttori e delle produttrici dei contenuti come abnegazione sociale e risentimento* 15. Termiti e formiche blu. La biopolitica della "intelligenza del formicaio" digitale* 16. Realpolitik di pauperizzazione dei candidati a capo dell'amministrazione di crisi nella cultura*

5. L'anima della merce in azione: dal "ben pagare il non serio" all'antisemitismo strutturale

La vendita dei diritti d'uso, sia esclusivi che non esclusivi, ha evidentemente come presupposto la privatizzazione giuridica dei beni d'uso corrispondenti, indipendentemente dal fatto di essere prodotti o meno (per esempio, le licenze di pesca ecc.). In maniera completamente indipendente dalla qualità specifica degli stessi beni o dall'utilizzo dei beni, la riservatezza giuridica formale deve rappresentare una "delimitazione" che può passare attraverso determinate recinzioni materiali o virtuali, dalla barriera delle casse (alla piscina o al cinema, come nel supermercato), ai detective umani o virtuali, videocamere di vigilanza, etichette con "sistema anti-furto" incorporato ecc.. La "Amministrazione Digitale dei Diretti" dell'industria dei computer e del software attaccata da Meretz, che deve assicurare la possibilità di vendita - mediata monetariamente, nella circolazione dei beni d'informazione digitale in quanto merce - attraverso delle misure tecniche incorporate, oppure attraverso le leggi di proprietà intellettuale sostenute per mezzo del monopolio statale della violenza, si integra in questo catalogo generale del contenimento e dei meccanismi di controllo; e non ha niente a che vedere con un carattere speciale di non-merce di questi beni i quali, contrariamente a tutte le altre merci, già "in sé" si troverebbero oltre la forma sociale.
Se Meretz e Lohoff, in questo contesto, criticano la "ideologia della scarsità" dell'economia politica, la critica si applica alla produzione di ricchezza capitalista nel suo complesso che, come produzione specifica di "ricchezza astratta" (Marx), implica una restrizione delle necessità e della loro soddisfazione, indipendentemente dalle risorse materiali ed umane. La distinzione tra beni che "in sé" non sono universali ed altri che "in sé" sono suppostamente universali oscura questo fatto sociale generale ed è ideologica; riduce inammissibilmente il problema ad un tipo specifico di beni o di utilizzo, quando invece si tratta di un problema di produzione di ricchezza astratta in generale. Fino a quando resta implicito che la forma merce continuerà ad essere "normale", ed in qualche modo "conforme", nel caso dei beni cosiddetti non universali, e che solo nel caso dei "beni universali" si scontrerà coi limiti oggettivi e soggettivi, appositamente costituiti in modo tronco ed erroneo sotto il punto di vista dell'economia politica. 
Nella realtà, è la ricchezza astratta in quanto tale che diventa obsoleta, quando sbatte contro il limite interno storico del capitalismo. La crisi generale della valorizzazione dell'accumulazione reale, sul piano della società nel suo complesso, genera una crisi sociale non meno generale, nella quale sempre più persone si vedono private della soddisfazione delle proprie necessità, e questo in relazione a tutti i beni necessari, a cominciare da quelli materiali. E' la contraddizione acutizzatasi fra le potenzialità della produzione di ricchezza materiale ed immateriale, e le restrizioni esacerbate della forma sociale che indeboliscono la "coscienza dell'illecito" e fanno apparire legittimo per gli esclusi il "piccolo furto" in senso lato.
Il fatto che questo si ripercuota in un certo qual modo nella coscienza e si rifletta nella pratica in massicci furti dai negozi ed in saccheggi occasionali (fatto già tematizzato dai situazionisti) dev'essere analizzato in termini teorici, così come parte di questo indebolimento, e non magari negato per mezzo di un adattamento "di sinistra" alla morale del pagamento borghese, per esempio asserendo che qui non verrebbe messa in questione la socializzazione capitalista nella sua totalità. Tuttavia, questo non può eludere il fatto che una "risoluzione" così immediata, nel quotidiano, della contraddizione che si acutizza è ancora molto lontana dalla prospettiva di una "appropriazione", e lo è anche da una rivoluzione radicale del proprio contesto di riproduzione sociale (il concetto di "appropriazione", ridotto alla circolazione, dall'ideologia del movimento, che ha molto ossessionato, in modo più o meno grottesco, gli ultimi mohicani di "Krisis" e del feuilleton viennese  “Streifzüge”, manca ancora di un trattamento teorico proprio, che qui può solo essere accennato).
Com'è noto, nel contesto di crisi mondiale della terza rivoluzione industriale, l'attuazione quotidiana della contraddizione sulla superficie del mercato non solo convoca una "industria della morale" capitalista, volta a rianimare la barcollante "coscienza dell'illecito", ma porta anche ad un rafforzamento giuridico e tecnico dei meccanismi di contenimento. Questo, da parte sua, riguarda tutto lo spettro dei beni di consumo e delle relazioni d'uso, e non ha niente a che vedere con un presunto carattere di non-merce specifico dei "beni d'informazione". Quando Meretz afferma che "...qualsiasi sistema DRM (Digital Rights/Restrictions Management, volgarmente: "protezione contro la copia") introdotto nel mercato viene craccato in pochissimo tempo", si riferisce solo alla speciale difficoltà tecnica del controllo e del contenimento nello spazio virtuale, ma non al fatto per cui i "beni d'informazione" avrebbero in sé un carattere trasformatore della società, costituendo un'eccezione alla forma generale. Inoltre: quest'argomentazione restringe anche ideologicamente il "problema dell'appropriazione"; poiché, se il carattere di merce passa ancora per "normale" e "conforme" nel caso dei beni non digitali, questo implica anche una corrispondente cesura nella legittimità per quel che riguarda la traballante "coscienza dell'illecito".
Il carattere ideologico di quest'argomentazione si rivela ben presto, non solo nel linguaggio, ma anche nel contesto giustificativo. Mentre si suppone che corrisponda alla "giustizia nella circolazione" dove gli acquirenti gettano il loro "buon denaro" in cambio di merci tangibili, nel caso dei "beni d'informazione" la "giustizia" sembra ferita a morte perché, nel mero uso di tali beni, nessun equivalente sostanziale immediato corrisponde al "buon denaro" (improvvisamente, il denaro viene qualificato di "buono"). "I fabbricanti di beni d'informazione digitale", dice Lohoff con l'anima indignata per la merce, "possono qualcosa che nessun fabbricante di merci serie ha mai potuto o potrebbe, qualcosa di strettamente incompatibile con le relazioni di scambio: essi si trovano nella posizione di vendere lo stesso prodotto, la stessa suoneria di cellulare o lo stesso software tutte le volte che vogliono, senza per questo ritrovarsi accusati di frode (!) davanti ad un tribunale!" (id.).
Si vede qui l'obiettivo ideologico della costruzione, fondamentalmente errata sotto il punto di vista dell'economia politica, di supposti "beni universali" in opposizione a merci "normali", costruzione associata alla riduzione della prospettiva alla "circolazione semplice" dove l'equiparazione immediata è "X merce a = y merce b". Ulrich Wickert trasuda tristezza: "L'onesto è sciocco". Lohoff assume il ruolo del soggetto della circolazione, borghese fino al midollo, che non comprende il vero contesto della riproduzione capitalista (cosa abbastanza debole per un "teorico"), per poi, nelle transazioni di mercato, sentirsi continuamente ingannato e "defraudato", annusando dappertutto un'infrazione alla "giustizia nella circolazione". Mentre la produzione delle merce capitalista in quanto tale perde la sua morale (come si può evincere dalla diffusione della corruzione e dalle truffe quasi disperate a tutti i livelli) per sbattere contro la sua propria logica, il moralista della merce Lohoff apre una contraddizione fra i produttori di merci "serie" in sé (perché si riferisce al "passaggio reale di mano" sotto il punto di vista ideologico dei beni dotati di sostanza di valore) ed i fornitori "poco seri", "fraudolenti", che suppone si limitino a fingere il carattere di merce dei loro beni sul mercato.
Quest'elaborazione ideologica dell'anima della merce dopo viene anche "nobilitata" sul piano dell'elaborazione dei concetti. Non senza un inutile, e del tutto spropositato, amor proprio, Lohoff annuncia che: "La realtà storica si riflette sempre anche nell'uso del linguaggio, nel quotidiano e nella concettualizzazione teorica. Come, nei confronti della rivoluzione della microelettronica, tutti i beni scambiati sul mercato avevano il carattere di beni di scambio, il concetto di merce stabilito si poteva applicare ad entrambi senza alcun problema. Con l'emergere dei beni di informazione digitale, però, i due concetti cominciano a divergere, e questo provoca una confusione terminologica (Molto propria di Lohoff - R.K.). Per risolverla viene introdotto un nuovo concetto di livello superiore che è destinato a designare la totalità dei beni prodotti in regime capitalista e negoziati sul mercato: il ben pagato [Bezahlgut]” (id.). Questo "nuovo concetto" superiore di "ben pagato", aderisce già terminologicamente  alla riduzione alla circolazione che sussume, da un lato, i beni di scambio "reali" dei fabbricanti di merci "serie" che si suppone valgano il "buon denaro" e, dall'altro lato, questi non-beni di scambio o non-merci "non reali" che si arrogherebbero, in modo "poco serio" e "fraudolento", il carattere di merce, dovendo essere "pagati" solo a causa di intrighi legali.
Tutto questo, già a livello superficiale di ragionamento sulla circolazione, è solo antisemitismo strutturale. Gli è che la classica ideologia piccolo-borghese della circolazione semplice e dello scambio immediato di equivalenti, contiene nella sua struttura il luogotenente del sospetto permanente riguardo la "frode nella circolazione", lo "scambio diseguale" ecc. che fin dai primordi del capitalismo è stato equiparato al "giudeo", identificazione questa che si è trasformata in un luogo comune della Storia delle ideologie e che non può più essere assolta in virtù di una presunta coscienza innocente (e ancor meno in un "teorico"). Uno dei più antichi cliché antisemiti è quello che afferma che il "giudeo" è un agente della circolazione fraudolenta. Quello che nel XIX secolo, per esempio, veniva imputato agli "intermediari ebrei", ora viene imputato, in forma "attualizzata", ai fornitori di beni d'informazione digitale. Qui vediamo quali sono i risultati, quando, come per capriccio, la presunta "lotta intorno alla forma della merce" (Meretz) si concentra in un settore parziale separato, che deve aver oltrepassato la forma di merce "automaticamente", e questa idea ha già cominciato a degradare in ideologia della circolazione.

6 – segue -

Robert Kurz

fonte: EXIT!