sabato 31 maggio 2014

Il Nilo sfocia a Palermo

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Le acque della Sicilia
di Leonardo Sciascia

«La mia terra è sui fiumi stretta al mare». Non solo «tagliata dall’acque», la Sicilia, ma come sollevata: dalle acque di quei fiumi «cui il nome greco è un verso a ridirlo, dolce». L’Anapo («alle sponde odo l’acqua colomba, Anapo mio»); il Gela («le bianche acque del siculo Gela»); l’Imera («Certo, ricordo, fu da quel grigio scalo di treni lenti che portavano mandorle e arance, alla foce dell’Imera, il fiume pieno di gazze, di sale, di eucalyptus…»); il Platani («dai pianori d’Acquaviva, dove il Platani rotola conchiglie sotto l’acqua fra i piedi dei fanciulli»). Nella poesia di Quasimodo la Sicilia si configura come una mappa corsa e intersecata da vene azzurrine, isola che i fiumi ritagliano in isole. Affrontiamo questa immagine a quella del geografo: «I fiumi, in genere, risultano più o meno ricchi, più o meno lunghi nel corso e di portata più o meno costante: in rapporto alla ricchezza delle sorgenti che li alimentano; ai terreni, più o meno permeabili, sui quali scorrono; alla regolare distribuzione delle precipitazioni entro l’anno. Quindi, è assai facile intendere come qui, in Sicilia, i fiumi debbano essere pochi e spesso brevi nel loro corso, per la scarsa distanza tra lo spartiacque e il mare. E siano, inoltre, quanto mai capricciosi nella loro portata, che talora li fa grossi come l’Adige, talora li fa essiccare del tutto o ne lascia vivo solo un rivoletto tra i bianchi sassi. Una buona parte dei corsi d’acqua non sono neppure fiumi, bensì torrenti: le tipiche fiumare» (Ferdinando Milone, Sicilia. La natura e l’uomo, Boringhieri, Torino 1960). E cioè: in Sicilia i fiumi sono poveri, di breve corso, di portata incostante perché povere le sorgenti, permeabili i terreni su cui scorrono, irregolare la distribuzione della pioggia; e ovviamente poca distanza corre, dentro il perimetro dell’isola, tra la sorgente e la foce di ciascun fiume. Il più lungo, il Salso-Imera, non corre per più di centocinquanta chilometri; quello di maggior portata, il Simeto, ha una media di diciotto metri cubi al secondo: ma è una media che sta tra i quaranta dell’inverno e l’uno dell’estate.
Eppure da Abu Abdallàh Muhammad ibn Muhammad ibn Idrís, comunemente chiamato Edrisi o Idrisi (un richiamo idrografico si annida per noi nel nome), geografo arabo al servizio di Ruggero II, a Salvatore Quasimodo, l’immagine della Sicilia ricca di fiumi, ricca di sorgenti, specchiata e come circonfusa d’acque, ha la meglio su quella che l’uomo di scienza assevera; che il nostro sguardo percorre; su cui il contadino al doppio fatica, e imprecando. Mai contento, dicono del contadino quelli che fanno altri mestieri o nessuno; e mai contento sempre riguardo all’acqua: e gli dà ragione l’uomo di scienza.
Di Palermo, città oggi assetata, Idrisi dice: «Le acque attraversano da tutte le parti la capitale della Sicilia, dove scaturiscono anche fonti perenni… All’esterno del Borgo scorre sul lato meridionale il fiume Abbàs che ha un corso perenne ed è cosparso di mulini» (il Borgo è un quartiere oggi piuttosto fatiscente). E muovendo da Palermo: «A Trabia scorre il fiume Termini, largo e copioso di acque, in cui si pesca a cominciare dalla primavera un pesce della specie del salmone»; a Cefalú sono «cascate d’acqua che, dolce e fresca, serve anche per il fabbisogno degli abitanti»; Tusa, Caronia, San Marco, Naso, Patti, Milazzo hanno «acque abbondanti», «acque copiose», «acque irrigue»; Messina si adagia tra giardini e frutteti «e lungo i fiumi dalle acque copiose sono sistemati molti mulini» a Taormina i fiumi «scorrono abbondanti» (e su di uno vi è un ponte «di fattura straordinaria»); vicino Catania, «le acque sorgenti e fluviali sono copiose», e c’è a ponente il Simeto «fiume ragguardevole che abbonda di pesci tanto grandi e saporiti come non se ne trovano altrove»; Lentini ‘la un fiume che «abbonda di ogni specie di pesci pregiati, veramente impareggiabili, che si esportano in tutte le località di questa zona»; a Siracusa, la sorgente dell’Anapo veramente straordinaria, che scaturisce da una roccia «proprio in riva al mare»; a Noto i «fiumi perenni hanno acque abbondanti e sono disseminati di mulini»; Scicli, oltre ai fiumi, ha una «fonte delle ore, cosí detta perché, fenomeno veramente singolare, l’acqua vi scorre solo nelle ore delle preghiere e si prosciuga nelle altre»; Ragusa ha un fiume che prende il suo nome; intorno a Butera scorre «uno dei maggiori fiumi dell’isola, lungo il quale si allineano i giardini»; e presso Licata sfocia il Salso, «che abbonda di pesci saporiti, grassi e di gusto delizioso». La descrizione del resto del litorale, fino a ritornare a Palermo, dice ancora di fiumi, sorgenti, giardini irrigati, mulini ad acqua; né diversamente sono descritti i paesi dell’entroterra. Anzi, quei fiumi che sul litorale ha incontrato di n solo nome, all’interno, rameggiando gli affluenti, ne prendono diversi. Da notare, come curiosità, che parlando di Aci, «terra di antica civiltà», Idrisi non fa menzione del fiume omonimo: forse a contestazione del mito classico. C’è da credere che proprio da Idrisi, geografo, sia sorta la favola delle acque siciliane, della Sicilia copiosa di acque, della Sicilia canto e lume di acque. Solo che Idrisi era, appunto, un geografo: non poteva essersi inventato fiumi, sorgenti, orti irrigui, pesca fluviale e persino il gusto dei pesci. Una certa esagerazione, una certa enfasi: va bene. Ma al re che gliel’aveva commissionata non avrebbe osato consegnare una descrizione fantastica della Sicilia. E l’attendibilità di quel che descrive, è confortata da un piccolo particolare: quello della fonte delle ore, da dove il credente musulmano vien fuori, poiché certo non vuol dire delle ore della preghiera cristiana. Con tutta la tolleranza che al re normanno si attribuisce in fatto di religione, a convalida della verità della propria, Idrisi non si sarebbe certo attentato a raccontargli un fenomeno non verificabile. Gli ha raccontato una cosa vista; e oggi crediamo spiegabile (e forse anche ieri).

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Quello che è per noi favola, mito, non era dunque tale per Idrisi. Ci sarà stata, in quel tempo, una più regolare distribuzione delle precipitazioni nel giro di ogni anno; e più abbondante anche. E diverso era il rapporto tra il numero degli abitanti e la terra, l’acqua da irrigare e da consumare, i prodotti. Gli arabi, speculativi e sagaci anche in fatto di idrica, avevano creato una Sicilia di orti e giardini, una Sicilia ortofrutticola. Quale, praticamente, è rimasta per tanti secoli e fino a noi: sia quantitativamente, nell’estensione del coltivato e nel volume della produzione, sia qualitativamente, nel modo di coltivare e nel tipo del prodotto. Se ne può trovare riscontro nel fatto che in molti paesi siciliani la località che quasi interamente soddisfaceva la richiesta di frutta e verdura, il fabbisogno degli abitanti, è denominata «saraceno»: indubbiamente perché i saraceni vi si erano insediati, avevano cercato l’acqua e dato inizio a un tipo di agricoltura prima ignoto. Naturalmente, oggi la richiesta si è moltiplicata: la produzione locale non basta più, si consuma tanta più frutta e, in quanto ad ortaggi, la produzione e conservazione industrializzate hanno la meglio sulla produzione stagionale. Ma gli orti del «saraceno» al mio paese (e credo anche in altri paesi) ci sono ancora: lavorati di zappa, pazientemente irrigati ogni sera attraverso un reticolo di piccoli canali che due colpi di zappa bastano ad aprire o a chiudere, in modo che l’acqua arrivi, una «casella» dopo l’altra, ad irrigarle tutte equamente. Per quanto possa sembrare incredibile, in fatto di ricerche idriche ben poco si è fatto in Sicilia dopo gli arabi: vale a dire dal secolo XI al xx. Grandi e piccole sorgenti che oggi alimentano le reti idriche cittadine, le poche fontane che restano e gli abbeveratoi nelle campagne, nella maggior parte sono stati loro a scoprirle: e lo testimoniano i nomi, che spesso si estendono a tutta una località.
Non mitiche, dunque, le acque siciliane per Idrisi. La ricchezza e bellezza della Sicilia lui le vedeva come sorgere dalle acque. Fiumi, acquedotti, bivieri, fontane. Acque mobili, acque che scorrono. I pozzi, ne parla come di un indizio di povertà. Era figlio, direbbe Savinio, di una civiltà idrica. Nell’esaltazione delle acque siciliane, nel suo goderne visualmente e spesso in bevute (bevute, possiamo immaginare, da uomo che è costretto a fare il suo lavoro nella stagione arsa, così come i geometri per la fondazione o l’aggiornamento del catasto), forse ritrovava le proprie radici, l’orgoglio di appartenere a quella civiltà, il gusto di dispiegarne l’elogio – attraverso i nomi arabi che ancora quei luoghi d’acque portavano – sotto gli occhi del re normanno. Da lontano, dall’esilio in Spagna, Ibn Hamdis, siciliano di Noto, con malinconia e a momenti con rabbia, cantava alla sua gente le stesse cose che Idrisi descriveva al re cristiano.
Ma la Sicilia – civiltà idrica di Idrisi, di Ibn Harndis, di tutti quegli autori arabi che Michele Amari raccolse e addusse nella sua Biblioteca arabo-sicula, a noi appare come sognata. E viene il sospetto sarebbe così apparsa anche ai greci, ai siciliani della Sicilia greca. Il fatto che alle acque siciliane abbiano legato dei miti, non dice che solo da prodigi le vedevano scaturire, da miracoli, da fatti innaturali e divini? Si consideri, per esempio, la fantasia di un fiume non siciliano, di un fiume emigrato in Sicilia, di un fiume alla Sicilia straniero. Non è eloquente, un simile mito, di una terra negata alle sorgenti, ai corsi d’acqua? E varrebbe la pena dare, di questo e di altri miti legati alle acque siciliane, la summa che si contiene nei versi 385-520 del libro V delle Metamorfosi di Ovidio, nella traduzione di Salvatore Quasimodo: Non lontano dalle mura di Enna s’apre il Pergo, lago d’acque profonde; mai il Caistro, nelle sue onde fuggenti, ode canti di cigni più di quello. Una selva corona le sue acque e ne avvolge le rive, e le fronde come velo allontanano l’impeto di Febo. I rami danno ombra e l’umida terra fiori d’ogni specie: là eterna è primavera… In questa sfera di miti si era tanto lontani dalla Sicilia idrica di Idrisi quanto Quasimodo che quei miti rivive per congenialità al mondo classico e per inganno della memoria. O quanto, per altro verso, diversamente, noi: impossibilitati a ricordare la Sicilia, con gli inganni che sono propri ai ricordi, o ad immaginarla. E per il fatto che l’abbiamo presente, che ci viviamo e la viviamo.
Ecco il Platani che «rotola conchiglie sotto l’acqua fra i piedi dei fanciulli». Nell’opera La Sicilia in prospettiva, cioè il Mongibello, e gli altri Monti, Caverne, Promontori, Liti, Porti, Seni, Golfi, Fiumi e Torrenti esposti in veduta da un religioso della Compagnia di Gesú, uscita in Palermo dalla stamperia di Francesco Cichè l’anno 1709, il Platani è fiume «grossissimo», abbondante di cefali e anguille. Oggi, tranne che per qualche improvvisa piena invernale, che regolarmente porta Via i binari ferroviari che gli corrono vicini, è un rigagnolo che sotto Campofranco finisce in un bacino. Passando noi spesso per la strada Palermo-Agrigento, che ne segue il corso, ogni volta i versi di Quasimodo fanno ironico cartiglio, appena passata la stazione di Acquaviva. Con più adesione alla realtà, viene da ricordare un aneddoto: quello di Alessandro Dumas figlio che in mattinata vede il Manzanarre tanto solenne e solennizzato il nome quanto deludente la cosa – e nel pomeriggio una corrida; e preso da svenimento al primo toro che vede ammazzare, quando rinviene si trova davanti un tale che gli offre un bicchier d’acqua; e «datelo al Manzanarre, – dice – ne ha più bisogno di me».

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Ottantaquattro fitte pagine impiega il religioso della Compagnia di Gesú per i fiumi e i torrenti della Sicilia: dall’Abiso (non Abisso, raccomanda) allo Zaffaria (Zafariae fluvius). Ma dove sono questi fiumi e torrenti che corrono per ottantaquattro pagine? Come quel fiume che era la ninfa Aretusa e che dall’Elide, correndo sotto il mare, era migrato in Sicilia, forse dalla Sicilia sono fuggiti interrandosi, scavandosi segreti alvei sotterranei e sotto Carini. L’Alcantara, con le sue gole profonde, forse è un me in fuga: attardatosi nella fuga, sorpreso nel suo lavorío di scavo, di sprofondamento. E così il Simeto nello spostamento della sua foce – per ben tre volte da Idrisi a noi: prima verso il nord, di un paio di chilometri; poi verso sud di altrettanti; e ancora verso sud continua a ‘ostarsi -, quasi stesse tentando un punto di fuga, un punto in cui immergersi nel mare per riemergere altrove. Ma alla reale esistenza dei corsi d’acqua in Sicilia si ha impressione non credesse nemmeno il padre gesuita che i primi del Settecento si dava ad enumerarli e descriver. Per lui sono nomi; nomi greci, latini, siciliani, italiani. arabi mai. E miti che hanno sostituito o convivono con altri miti, prodigi che hanno sostituito o convivono con altri prodigi. A parte i pesci, di cui riferisce come per sentito dire, nulla c’è per lui in un corso d’acqua che sia gato alla vita di ogni giorno, al lavoro umano, alla tranquillità o all’inquietudine degli uomini. Del Platani racconta: «Presso le sue sponde viaggiava un dí Sant’Alberto armelitano, la fama della cui santa vita, e de’ prodigi per la intercessione da Dio operati, era da per tutto divulgato; quando alquanti Giudei, nel valicarlo, rapiti dalla piena dell’acque, implorarono il soccorso del Santo, acciòcchè in virtú del suo Cristo, si compiacesse liberarli dall’evidente ridicolo, in cui erano incorsi… Cortese il Santo promise o in nome di Gesú Cristo il desiderato scampo, purché ‘si vicendevolmente promettessero di abbracciarne la fede, consentirono prontamente que’ miseri naufraganti; ed Alberto, camminando a piè asciutto su l’acque, ivi stesso istruitili, li battezzò, e salvi li condusse al lito, con dividere in due parti l’acque del fiume, e rinnovare le antiche maraviglie del Mare Rosso nel passaggio degl’Israeliti». Del Giarretta: «Nell’acque del Giarretta miseramente annegò Quintiano, quel Tiranno crudele che condannò a morte Sant’Agata, quando da Catania portandosi in Patmo, per rapire il ricco patrimonio della martirizzata eroina, mentre valicava il fiume, per giusto giudicio della divina Vendetta, mortalmente percosso con calci e morsi da due infuriati Cavalli, precipitò col corpo nell’acque, e con l’anima negli abissi infernali». E del Papireto, fiume che scorreva dove oggi è il marché aux puces, dice c’è controversia sulla «scaturigine», poiché tanti «scrittori eruditi» del Cinque e del Seicento «giudicano essere un braccio del fiume Nilo, che per sotterranei canali sbocchi in Palermo, il che stabiliscono con alcune prove»; e sarebbero queste: il crescere e decrescere stagionale delle acque, a somiglianza di quelle del Nilo; il fatto che vi nascano i papiri, «cannuccie triangulari senza nodi, e crinite in cima, proprie del fiume Nilo»; e, prova decisiva, il venir fuori da esso, sotto il regno di Pietro d’Aragona, di un coccodrillo (coccodrillo che fino a qualche anno addietro stava appeso al tetto di una spezieria: a certificazione che il Papireto ormai scomparso era un ramo del Nilo). E del resto, dice il padre gesuita, «nella supposizione del suo pellegrinaggio sotterraneo il Papireto non sarebbe dissimile dall’Aretusa di Siracusa; poiché se questo nasce in Arcadia, e per secreti meati scaturisce in Siracusa, un ramo del Nilo dall’Egitto per nascosto condotto sgorgherebbe in Palermo». Fiumi che vengono dalla Grecia e dall’Egitto «per nascosti condotti». Fiumi che scompaiono (è stato risucchiato dal Nilo, il Papireto?). Fiumi che spostano il loro corso e la loro foce. Affluenti che decidono di non più affluire, di tributare al mare invece che a un altro fiume; e al contrario. Fiumi che cambiano nome, e dunque identità (Simeto, Fiume di Catania, Giarretta, Simeto: non corrispondono, questi mutamenti di nome, ai suoi movimenti, al suo divincolarsi per raggiungere altra foce?). L’idrografia siciliana è una mitografia. Una mitografia in atto, se persino l’uomo di scienza parla dei fiumi come avessero personalità, volontà, sentimento: «Quasi volesse allontanarsi dal vulcano, e non a torto, l’Alcantara…»; «Il fiume più bizzarro di tutto il versante direi che è il Simeto…»; «Il Dittaino è ancora più pazzerellone del Simeto…»; «Entrambi i fiumi (il Dittaino e il Gornalunga) erano un tempo indipendenti dal Simeto, «al quale devono essersi associati in seguito…». Una specie di pirandellismo delle acque: amor proprio, fuga dall’identità, uno e due, uno e nessuno. Il Simeto come Mattia Pascal. Il Papireto come Vitangelo Moscarda. Mitografia su mitografia: quella di Teocrito, di Virgilio, di Ovidio; quella cristiana. Perché non tentarne una pirandelliana? A queste mitografie – abbiamo già tentato di dirlo corrispondono la povertà, l’aridità, il bisogno, la sete. La sete della terra, la sete degli uomini: sicché l’apparizione dell’acqua è sempre un prodigio, un miracolo. Nascono, le mitografie, dalla ragione stessa per cui il geografo dice: «Chi consideri l’enorme importanza dell’acqua in un paese semi-arido, dalle piogge scarse, concentrate nella corta stagione invernale, e la lunghezza della estate siccitosa, non si meraviglierà che alla poca acqua che scorre in superficie o a quella, un po’ più copiosa, che sgorga dalle sorgenti, dedicheremo parecchio spazio». uno spazio che – mancando la meditazione e ricognizione scientifica, mancando ogni volontà di affrontare il problema e di tentare di risolverlo – per secoli è stato occupato dalla fantasia, dalla creazione di miti. Soltanto gli arabi non fecero mito dell’apparizione dell’acqua: appunto perché la cercarono, la trovarono dove potevano e sapevano trovarla, la condussero sapientemente ad irrigare orti e giardini; legarono insomma ad essa il lavoro, la vita.

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Ma «i miei fiumi», dice Quasimodo. Sono i fiumi della sua infanzia, forse mai più rivisitati. Il Platani, all’altezza della stazione ferroviaria d’Acquaviva; l’Imera, presso la foce; l’Anapo, di «fresca acqua azzurrina», le «bianche acque del siculo Gela». Chi scorra il volume delle sue poesie, è come ascoltasse un continuo suono d’acqua, vedesse il mondo smemorato da un velo d’acqua. «Sera d’acque limpide», «Primavera solleva alberi e fiumi», «Giaccio su fiumi colmi», «Ancora un verde fiume mi rapina», «Voci d’acque trepide», «L’acqua tramonta I sulle mie mani erbose», «Non so che cieli ed acque I mi si svegliano dentro», «Sopori scendevano dal cielo I dentro acque lunari», «Mite letargo d’acque»: tutto è memoria d’acque, tutto vive in quella trasparenza. Dalla sorte ha avuto di poter vivere nell’infanzia, di viverla come realtà, la favola delle acque siciliane, il mito, poi ritrovati «nei versi degli antichi».
Anche noi possiamo dire di avere avuto, nell’infanzia, un fiume. Se non lo avessimo rivisto ad ogni estate, sarebbe ancora un fiume. Un fiume come il Po, come il Danubio. Era, per tutti, più che un fiume il fiume. Non lo si chiamava col nome, che aveva, di Azzalora: era semplicemente e assolutamente il fiume. E non era nemmeno un fiume, era appena un torrente. Oggi, non è nemmeno un torrente, se non quando diluvia. D’estate, non vi corre più quel filo d acqua, che andava a finire al fiume Naro, a cui andavamo a cercare, tra pietre e melma, qualche granchio e qualche anguilla. Eppure, l’andare al fiume era un’avventura: raccomandazioni di tenerci alle pietre e alle fronde venivano fatte a noi bambini, che l’acqua non ci trascinasse con sé; e si finiva col credere che davvero quella poca acqua potesse a un momento incapricciarsi, impennarsi, prendere volume e forza da trascinarci. E non sentivamo qualcuno dire, in momenti disperati, «vado a gettarmi nel fiume dell’Azzalora»? Ricordarlo com’era, e cioè come ci appariva, è difficile. Certo, c’era più verde; un verde più intenso ed acquatico di quanto non fosse nella campagna della zona. C’erano cespi di canne minute, un morbido pennacchio in cima: canneddi, i contadini li chiamano; e la loro presenza in terreno aperto è per loro indizio d’acqua sotterranea. Le pietre erano più muschiose, che oggi appaiono come ossame. E sui due bordi correvano orti, e celebrate ne erano le cipolle per la dolcezza: da mangiare crude, con pecorino forte o caciocavallo, o mescolate in insalata al pomodoro al cetriolo, al sedano (aglio, origano o basilico quando non c’era il sedano, olio e acqua la completavano; e l’aggiunta dell’acqua i contadini la facevano per ammollarvi tocchi di pane, a modo di Zuppa). E, quando era il tempo della bassa, c’era qualche uccello d’acqua; oltre che, sempre, ad Ira di vespro, stormi di uccelli che scendevano a bere e qualche volta trovavano il vischio che li catturava o la rete. Era insomma, anche se con poca acqua, il fiume. E poi c’erano le anguille e i granchi. Di granchi a volte riuscivamo a prenderne un paniere: attenti ad afferrarli in nodo che non ci prendessero qualche dito tra le rosse e dure tenaglie, li mettevamo su un mucchietto di paglia che accendevamo, badando a ricacciarli con una bacchetta indietro, dentro il fuoco, quando stavano per uscirne. Poi intorno alla cenere, stabilito quanti ad ognuno ne toccassero, era il banchetto. Tiravamo con le dita la polpa parte bianca parte giallastra contenuta in quella che chiamavamo «la tabacchiera», poiché ne aveva la forma; e succhiavamo una ad una, meticolosamente, le chele. Il fiume dell’Azzalora. E che delusione quando seppi che non era un fiume: un torrente, un piccolo torrente. E altra delusione quando mi sono imbattuto in un libro intitolato L’Azzalora e parlava del feudo dell’Azzalora e non del fiume: di Pietro Mignosi, un racconto niente male. E il ricordo di questo racconto, di quella mia delusione, apre a una domanda. Ecco: uno scrittore siciliano può mai pensare un racconto, una storia, che abbia a che fare con un fiume?
Non può. E difatti, credo non se ne possa trovare uno solo. Si può fare poesia, sui fiumi siciliani, non mai prosa. Di poesia ce n’è tanta, su fiumi, torrenti, laghetti e fontane: e specialmente nel secolo sedicesimo, corifeo Antonio Veneziano. Ma non un romanzo, non un racconto. I fiumi sono mito e memoria, s’appartengono ai «verdi paradisi» dell’infanzia: l’infanzia dell’Isola, l’infanzia di ognuno che sia nato nell’Isola.

- Leonardo Sciascia -

venerdì 30 maggio 2014

In chiesa (i numeri sulla foto, metteteli voi!)

chiesa

Il 15 dicembre del 1939, Manuel Romani, di professione libraio, venne condotto dal carcere madrileno di Torrijos al palazzo di giustizia, dove comparì davanti ad Eusebio Rams, procuratore della Causa General di Madrid. Una volta identificato ed invitato a dire la verità, venne messo di fronte ad una fotografia. Gli chiesero se si riconosceva nel miliziano contrassegnato col n°4, quello che si è messo in testa un copricapo clericale e che guarda con espressione comica un mucchio improvvisato di teschi.
Non era la prima volta che veniva usata la stampa come prova d'accusa. E Romani, mentre contemplava quell'istante del suo passato, sicuramente stava maledicendo il giorno in cui il fotografo Alfonso Sánchez Portela entrò nella chiesa del Carmine e lo invitò a mettersi in posa davanti alla sua macchina fotografica. Due giorni dopo, il 1° agosto del 1936, la fotografia veniva pubblicata sulla rivista "ABC", repubblicana e di sinistra". Veniva offerta al pubblico, quasi in un empito di generosità! Occupava mezza pagina, e sotto si poteva leggere la didascalia che recitava: "Le milizie della CNT, che hanno preso possesso della chiesa del Carmine, ieri hanno fatto delle interessanti scoperte nella cripta del tempio".
Gli effetti della diffusione di quella immagine furono devastanti per il governo repubblicano. Più che un sequestro rivoluzionario, sembrava una festa di carnevale; non mancava neanche la scopa! A peggiorare le cose, al centro della foto, si poteva vedere una donna vestita da ballerina e con grandi orecchini da gitana.
Romani rispose alla domanda del procuratore circa il fatto se nella chiesa venissero processate persone di destra che si trovavano rinchiuse nelle cappelle laterali del tempio. Solo una volta - ammise - avevano fatto fare la "passeggiata" ad un detenuto, un falangista galiziano che viveva nascosto in una pensione che si trovava nella stessa strada dove c'era la chiesa del Carmine. Tuttavia, negò di aver partecipato al crimine. E come garante della sua condotta, e del fatto che stava dicendo la verità, chiamò a testimoniare Manuel González, un prete di 43 anni che era stato detenuto nei primi giorni di agosto, e che nonostante fosse stato condannato a morte dal capo del "gruppo di custodia della chiesa del Carmine", riuscì ad aver salva la vita, in extremis; il miracolo, così come era stato considerato dal prete, avvenne quando i miliziani rifiutarono di eseguire l'ordine e chiesero che venisse revocato per iscritto. Qualche giorno dopo, venne a testimoniare, era il 25 dicembre del 1939, il primo natale nazional-cattolico nella Madrid del dopo-guerra civile. Il sacerdote riconobbe nella fotografia i miliziani contro i quali c'erano le accuse più gravi, e confermò i loro nomi. Poi, prima che fosse pronunciato il giudizio, che prevedeva la condanna a morte di ciascuno degli accusati, ricordò che, come aveva raccontato Manuel Romani, la passione assembleare di quegli anarchici gli aveva salvato la vita.
Sapeva molto bene, e non c'era bisogno che glielo ricordasse il procuratore, che la maggioranza di loro erano quelli che avevano abbattuto a picconate e a colpi d'ascia, la porta della chiesa, per poi mettersi a mutilare tutti i cristi, le madonne e i santi che trovavano. L'assalto al cielo di quel martedì 21 di luglio 1936, aveva raggiunto il suo culmine, giorni dopo, con la pubblica esibizione di una collezione assortita di teschi, mummie e scheletri dissotterati dalla cripta della chiesa. La coda per poter contemplare questo gesto rivoluzionario arrivava fino alla Puerta del Sol!
Ai funzionari giudiziari che trascrivevano le dichiarazioni del prete, doveva sembrare strano e sorprendente che, nonostante la sua conoscenza dettagliata di questi fatti, e di altri ancora più gravi, quali la "passeggiata" del falangista, trovasse sempre e comunque da segnalare una virtù, per ciascuno di essi, un fatto per i quali dovessero essere lodati, o scusati, un fatto, per quanto piccolo che fosse, che mitigava la gravità delle accuse.In loro difesa, ricordò al procuratore che in un'occasione i suoi carcerieri, pistola alla mano, si rifiutarono di consegnarlo ad un altro gruppo che lo cercava per ammazzarlo. Alla fine, i miliziani non ebbero altra scelta che quella di portarlo via dalla chiesa, di notte, per nasconderlo provvisoriamente in una "checa", "la checa de listeros", che si trovava a due passi, al primo piano del n°22 della Calle del la Montera, proprio sopra un locale da ballo di dubbia fama, el Sanghai. In quei giorni di agosto, l'affluenza del pubblico nel locale era assai scarsa, e il fatto che ci fosse una "checa" al piano di sopra, dissuadeva molti dall'andarci. Così alla fine il locale chiuse, e alcune delle ragazze che ci lavoravano si trasferirono a vivere nella chiesa, insieme ai miliziani. A questo punto del racconto, la pietà evangelica mostrata fino ad allora dal prete, sembrò fare un passo indietro. "Provocante, provocatrice e pericolosa, non aveva cuore nei confronti di quelli che venivano portati in chiesa ..." - è di Carmen Corao, ballerina diciottenne nota come "la Chula", che il prete sta parlando. Carmen era la fidanzata di Ramón, un miliziano diciannovenne, di grande coraggio ma non particolarmente sveglio. Nella fotografia appare contrassegnato col n°1, e si mostra felice del fucile che si è guadagnato nell'assalto alla caserma. A differenza di Romani, Ramón riconobbe davanti al procuratore di essere uno di quelli saliti in macchina  insieme a Víctor Muñoz Baijón, il falangista galiziano, per fargli fare la "passeggiata". Di lui, il sacerdote non aveva alcun motivo per lamentarsi: "Fin dall'inizio, l'ho sempre visto ben disposto nei miei confronti e poi, col tempo, mi ha sempre trattato con rispetto, e perfino con affetto". L'unica cosa che gli rimproverava era la sua sottomissione ai capricci di Carmen, tipo l'aver fatto installare in chiesa una radio che trasmetteva solo rumba, paso doble e altra musica da ballo. "Con Carmen, ballavano frequentemente in chiesa e ci dormivano anche insieme, per dare scandalo". Lo scandalo non venne impedito dal sacerdote, ma dalla CNT regionale, cui alla fine di agosto erano arrivato all'orecchio notizie dalla chiesa del Carmine, e che convocò i miliziani per scoprire che le tessere del sindacato, da loro presentate, erano false. Tirando le fila, scoprirono che il capo del gruppo, "el Olmeda", il n°5 della fotografia, le stampava e le rilasciava a suo arbitrio, poi incassava le quote e, cosa ancor più grave, si era appropriato dei beni preziosi che aveva sequestrato in chiesa. La risposta della CNT fu fulminea: tutti i miliziani della chiesa del Carmine vennero arrestati e, dopo un processo sommario, nel corso del quale non mancò di essere mostrata la foto di Alfonso, furono mandati nel carcere di Porlier. El Olmeda e la sua fidanzata, un'altra ballerina soprannominata "la Patro", vennero messi al muro del cimitero di Aravaca, e fucilati. Successivamente, i miliziani vennero mandati al fronte e la chiesa venne posta sotto la tutela e la custodia  proprio di Manuel González, il prete che aveva vissuto con loro.

giovedì 29 maggio 2014

La Banca della Fede

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Benjamin e il capitalismo
di Giorgio Agamben  

1.  Vi sono segni dei tempi che, pur evidenti, gli uomini, che scrutano i segni nei cieli, non riescono a percepire. Essi si cristallizzano in eventi che annunciano e definiscono l’epoca che viene, eventi che possono passare inosservati e non alterare in nulla o quasi  la realtà a cui si aggiungono e che, tuttavia, proprio per questo valgono come segni, come indici storici, semeia ton kairon. Uno di questi eventi ebbe luogo il 15 agosto del 1971, quando il governo americano, sotto la presidenza di Richard Nixon, dichiarò che la convertibilità del dollaro in oro era sospesa. Benché questa dichiarazione segnasse di fatto la fine di un sistema che aveva vincolato a lungo il valore della moneta a una base aurea, la notizia, giunta nel pieno delle vacanze estive, suscitò meno discussioni di quanto fosse legittimo aspettarsi. Eppure, a partire da quel momento, l’iscrizione che  tuttora si legge su molte banconote (per esempio sulla sterlina e sulla rupia, ma non sull’euro): “Prometto di pagare al portatore la somma di …” controfirmata dal governatore della banca centrale, aveva definitivamente perduto il suo senso. Questa frase significava ora che, in cambio di quel biglietto, la banca centrale avrebbe fornito a chi ne avesse fatto richiesta (ammesso che qualcuno fosse stato così sciocco da richiederlo) non una certa quantità di oro (per il dollaro, un trentacinquesimo di un’oncia), ma un biglietto esattamente uguale. Il denaro si era svuotato di ogni valore che non fosse puramente autoreferenziale. Tanto più stupefacente la facilità con cui il gesto del sovrano americano, che equivaleva ad annullare il patrimonio aureo dei possessori di denaro, fu accettato. E, se, come è stato suggerito, l’esercizio della sovranità monetaria da parte di uno Stato consiste nella sua capacità di indurre gli attori del mercato a impiegare i suoi debiti come moneta, ora anche quel debito aveva perduto ogni consistenza reale, era divenuto puramente cartaceo.
Il processo di smaterializzazione della moneta era cominciato molti secoli prima, quando le esigenze del mercato indussero ad affiancare alla moneta metallica, necessariamente scarsa e ingombrante, lettere di cambio, banconote, juros, goldschmith’s notes, eccetera. Tutte queste monete cartacee sono in realtà titoli di credito e vengono dette, per questo, monete fiduciarie. La moneta metallica, invece, valeva – o avrebbe dovuto valere – per il suo contenuto di metallo pregiato (peraltro, com’è noto, insicuro: il caso limite è quelle delle monete d’argento coniate da Federico II, che appena usate lasciavano scorgere il rosso del rame). Tuttavia Schumpeter (che viveva, è vero, in un’epoca in cui la moneta cartacea aveva ormai  sopraffatto la moneta metallica) ha potuto affermare non senza ragione che, in ultima analisi, tutto il denaro è solo credito. Dopo il 15 agosto 1971, si dovrebbe aggiungere che il denaro è un credito che si fonda soltanto su se stesso e che non corrisponde altro che a se stesso.

2.  Il capitalismo come religione è il titolo di uno dei più penetranti frammenti postumi di Benjamin.
Che il socialismo fosse qualcosa come una religione, è stato notato più volte (tra l’altro, da Schmitt: “Il socialismo pretende di dar vita a una nuova religione che per gli uomini del XIX e XX secolo ebbe lo stesso significato del cristianesimo per gli uomini di due millenni fa”). Secondo Benjamin, il capitalismo non rappresenta soltanto, come in Weber, una secolarizzazione della fede protestante, ma è esso stesso essenzialmente un fenomeno religioso, che si sviluppa in modo parassitario a partire dal Cristianesimo. Come tale, come religione della modernità, esso è definito da tre caratteri:
1. è una religione cultuale, forse la più estrema e assoluta che sia mai esistita. Tutto in essa ha significato solo in riferimento al compimento di un culto, non rispetto a un dogma o a un’idea.
2. Questo culto è permanente, è “la celebrazione di un culto sans trève et sans merci”. Non è possibile, qui, distinguere tra giorni di festa e giorni lavorativi, ma vi è un unico, ininterrotto giorno di festa-lavoro, in cui il lavoro coincide con la celebrazione del culto.
3. Il culto capitalista non è diretto alla redenzione o all’espiazione di una colpa, ma alla colpa stessa. “Il capitalismo è forse l’unico caso di un culto non espiante, ma colpevolizzante… Una mostruosa coscienza colpevole che non conosce redenzione si trasforma in culto, non per espiare in questo la sua colpa, ma per renderla universale… e per catturare alla fine Dio stesso nella colpa… Dio non è morto, ma è stato incorporato nel destino dell’uomo”.
Proprio perché tende con tutte le sue forze non alla redenzione, ma alla colpa, non alla speranza, ma alla disperazione, il capitalismo come religione non mira alla trasformazione del mondo, ma alla sua distruzione. E il suo dominio è nel nostro tempo così totale, che anche i tre grandi profeti della modernità (Nietzsche, Marx e Freud) cospirano, secondo Benjamin, con esso, sono solidali, in qualche modo, con la religione della disperazione. “Questo passaggio del pianeta uomo attraverso la casa della disperazione nell’assoluta solitudine del suo percorso è l’ethos che definisce Nietzsche. Quest’uomo è il Superuomo, cioè il primo uomo che comincia consapevolmente a realizzare la religione capitalista”. Ma anche la teoria freudiana appartiene al sacerdozio del culto capitalista: “Il rimosso, la rappresentazione peccaminosa… è il capitale, su cui l’inferno dell’inconscio paga gli interessi”. E, in Marx, il capitalismo “con gli interessi semplici e composti, che sono funzione della colpa… si trasforma immediatamente in socialismo”.

3.  Proviamo a prendere sul serio e a svolgere l’ipotesi di Benjamin. Se il capitalismo è una religione, come possiamo definirlo in termini di fede? In che cosa crede il capitalismo?  E che cosa implica, rispetto a questa fede, la decisione di Nixon?
David Flüsser, un grande studioso di scienza delle religioni – esiste anche una disciplina con questo strano nome – stava lavorando sulla parola pistis, che è il termine greco che Gesù e gli apostoli usavano per “fede”. Quel giorno si trovava per caso in una piazza di Atene e a un certo punto, alzando gli occhi, vide scritto a caratteri cubitali davanti a sé Trapeza tes pisteos. Stupefatto per la coincidenza, guardò meglio e dopo pochi secondi si rese conto di trovarsi semplicemente davanti a una banca: trapeza tes pisteos significa in greco “banco di credito”. Ecco qual era il senso della parola pistis, che stava cercando da mesi di capire: pistis, “fede” è semplicemente il credito di cui godiamo presso Dio e di cui la parola di Dio gode presso di noi, dal momento che le crediamo. Per questi Paolo può dire in una famosa definizione che “la fede è sostanza di cose sperate”: essa è ciò che dà realtà e credito a ciò che non esiste ancora, ma in cui crediamo e abbiamo fiducia, in cui abbiamo messo in gioco il nostro credito e la nostra parola.  Creditum è  il participio passato del verbo latino credere: è ciò in cui crediamo, in cui mettiamo la nostra fede, nel momento in cui stabiliamo una relazione fiduciaria con qualcuno prendendolo sotto la nostra protezione o prestandogli del denaro, affidandoci alla sua protezione o prendendo in prestito del denaro. Nella pistis paolina rivive, cioè, quell’antichissima istituzione indoeuropea che Benveniste ha ricostruito, la “fedeltà personale”: “Colui che detiene la fides messa in lui da un uomo tiene quest’uomo in suo potere… Nella sua forma primitiva, questa relazione implica una reciprocità: mettere la propria fides in qualcuno procurava, in cambio, la sua garanzia e il suo aiuto”.
Se questo è vero, allora l’ipotesi di Benjamin di uno stretta relazione fra capitalismo e cristianesimo riceve una conferma ulteriore: il capitalismo è una religione interamente fondata sulla fede, è una religione i cui adepti vivono sola fide. E come, secondo Benjamin, il capitalismo è una religione in cui il culto si è emancipato da ogni oggetto e la colpa da ogni peccato e, quindi, da ogni possibile redenzione, così, dal punto di vista della fede, il capitalismo non ha alcun oggetto: crede nel puro fatto di credere, nel puro credito (believes in the pure belief) – cioè: nel denaro. Il capitalismo è, cioè, una religione in cui la fede – il credito – si è sostituita a Dio: detto altrimenti, poiché la forma pura del credito è il denaro, è una religione il cui Dio è il denaro.
Ciò significa che la banca, che non è nient’altro che una macchina per fabbricare e gestire credito (Braudel, 368), ha preso il posto della chiesa e, governando il credito, manipola e gestisce la fede – la scarsa, incerta fiducia – che il nostro tempo ha ancora in se stesso.

4.  Che cosa ha significato, per questa religione, la decisione di sospendere la convertibilità in oro? Certamente qualcosa come una chiarificazione del proprio contenuto teologico paragonabile alla distruzione mosaica del vitello d’oro o alla fissazione di un dogma conciliare – in ogni caso, un passo decisivo verso la purificazione e la cristallizzazione della propria fede. Questa – nella forma del denaro e del credito – si emancipa ora da ogni referente esterno, cancella il suo nesso idolatrico con l’oro e si afferma nella sua assolutezza. Il credito è un essere puramente immateriale, la più perfetta parodia di quella pistis che non è che “sostanza di cose sperate”. La fede – così recitava la celebre definizione della Lettera agli ebrei – è sostanza – ousia, termine tecnico per eccellenza dell’ontologia greca – delle cose sperate. Quel che Paolo intende è che colui che ha fede, che ha messo la sua pistis in Cristo, prende la parola di Cristo come se fosse la cosa, l’essere, la sostanza. Ma è proprio questo “come se” che la parodia della religione capitalista cancella. Il denaro, la nuova pistis, è ora immediatamente e senza residui sostanza. Il carattere distruttivo della religione capitalista, di cui Benjamin parlava, appare qui in piena evidenza. La “cosa sperata” non c’è più, è stata annientata e deve esserlo, perché il denaro è l’essenza stessa della cosa, la sua ousia in senso tecnico. E, in questo modo, viene tolto di mezzo l’ultimo ostacolo alla creazione di un mercato della moneta, alla trasformazione integrale del denaro in merce.

5.  Una società la cui religione è il credito, che crede soltanto nel credito, è condannata a vivere a credito. Robert Kurz ha illustrato la  trasformazione del capitalismo ottocentesco, ancora fondato sulla solvenza e sulla diffidenza rispetto al credito, nel capitalismo finanziario contemporaneo. “Per il capitale privato ottocentesco, con i suoi proprietari personali e con i relativi clan familiari, valevano ancora i principi della rispettabilità e della solvenza, alla luce dei quali il sempre maggior ricorso al credito appariva quasi come osceno, come l’inizio della fine. La letteratura d’appendice dell’epoca è piena di storie in cui grandi casate vanno in rovina a causa della loro dipendenza dal credito: in alcuni passi dei Buddenbrook, Thomas Mann ne ha fatto addirittura un tema da premio Nobel. Il capitale produttivo di interessi era naturalmente fin dall’inizio indispensabile per il sistema che si stava formando, ma non aveva ancora una parte decisiva nella riproduzione capitalistica complessiva. Gli affari del capitale ‘fittizio’ erano considerati tipici di un ambiente di imbroglioni e di gente disonesta, al margine del capitalismo vero e proprio… Ancora Henry Ford ha rifiutato per parecchio tempo il ricorso al credito bancario, ostinandosi a voler finanziare i suoi investimenti solo con il proprio capitale” (R.Kurz, La fine della politica e l’apoteosi del denaro, Roma 1997, p.76-77; Die Himmelfahrt des geldes, in “Krisis”, 16,17, 1995).
Nel corso del XIX secolo, questa concezione patriarcale si è completamente dissolta e il capitale aziendale fa oggi  ricorso in misura crescente al capitale monetario, preso in prestito dal sistema bancario. Ciò significa che le aziende, per poter continuare a produrre, devono per così dire ipotecare anticipatamente quantità sempre maggiori del lavoro e della produzione futura. Il capitale produttore di merci si alimenta fittiziamente del proprio futuro. La religione capitalista, coerentemente alle tesi di Benjamin, vive di un continuo indebitamento, che non può né deve essere estinto. Ma non sono soltanto le aziende a vivere, in questo senso, sola fide, a credito (o a debito). Anche gli individui e le famiglie, che vi ricorrono in maniera crescente, sono altrettanto religiosamente impegnati  in questo continuo e generalizzato atto di fede sul futuro. E la Banca è il sommo sacerdote che amministra ai fedeli l’unico sacramento della religione capitalista: il credito-debito.

Giorgio Agamben

fonte: Lo Straniero

mercoledì 28 maggio 2014

Pugni

boxe cassius

Boxe
di Marco Perisse

Edita negli Stati Uniti, "At the Fights" è un’antologia che merita attenzione: perché attraverso la raccolta di articoli e scritti sulla boxe curata dai giornalisti sportivi George Kimball e John Schulian per i tipi della Library of America (pp.517) si profila uno spaccato della storia degli Usa più vivido e immediato di un trattato di sociologia o di una storiografia. Arriva al bersaglio pungendo come un jab. Come quando Richard Wright, in High Tide in Harlem, usa solo sette righe per lampeggiare il rematch tra Joe Louis e il tedesco filonazista Max Schmeling vinto dal nero dell’Alabama per poi filmare in un rutilante piano sequenza il giubilo di Harlem alla vittoria del simbolo di una comunità esclusa e umiliata. E non era colpa degli afroamericani – scrive Wright – se quel riscatto lo affidavano al pugilato visto che «non avevano avuto dall’emancipazione altra possibilità di partecipare al processo della vita nazionale». Wright, iscrittosi al partito comunista nel ’33, quando feroci erano gli effetti della Grande Depressione e Hitler saliva al potere, fa pulsare quelle centinaia di migliaia di persone tracimate dal ghetto che celebravano non la vittoria del Negro (così per decenni si continuò a scrivere) sull’uomo bianco, ma contro il nazismo, gridando «Tutti gli ebrei sono contenti oggi» e issando striscioni «Abbasso Hitler e Mussolini».
At the Fights si impone come un’avvincente collezione di racconti ricchi di metafore, immagini, dettagli, aneddoti e memorie sorretta da due big della letteratura americana: Jack London – sul match tra Johnson e Jeffries, «la Grande speranza bianca»: è sua l’espressione mai tramontata prima dell’attuale egemonia dei pesi massimi cresciuti nell’ex-Urss – e Norman Mailer che con una miscela visionaria di presa diretta e immaginazione confezionò il memorabile racconto sulla sfida di Kinshasa tra Ali e Foreman. Mailer coniò l’espressione "narrativa non-fiction" per classificare il genere ibrido tra reportage e trasfigurazione creativa del suo The Fight che domina il corpo centrale dell’antologia.
Non si pensi però che la collana di perle che vi luccicano sia fatta di firme di giornalismo solo sportivo: sono sceneggiatori, autori, scrittori che dal ring hanno estratto un’evocazione della società americana trasposta anche in altri linguaggi – il cinema innanzitutto – o soggetti narrativi. Leonard Gardner che scriveva di boxe per “Esquire” – e che sarà per anni lo sceneggiatore del serial “NYPD Blue” - è l’autore di Fat City, la sublime novel che ispirò l’omonimo capolavoro di John Huston, felice di affidargli la sceneggiatura che ha dato vita al più bel film attorno alla boxe mai realizzato, quella "Città Amara" del sottotitolo italiano dei perdenti del sistema americano. E di perdenti alle corde di At the Fights ne pendono parecchi: il pugilato è il solo sport che abbia per statuto la distruzione fisica dell’avversario, dove il limite che non si deve varcare si spinge fino alla fatalità che separa il k.o. dalla morte come in "Then all the Joy Turned to Sorrow" di Ralph Wiley, uno degli scrittori afroamericani dell’ultima generazione, coautore assieme a Spike Lee; tramutandosi perciò in un’universale metafora della vita che consegna ai suoi cronisti una materia sanguinolenta e l’eroe solitario che vi si immola nel quadrato sacrificale. John Sullivan è il primo campione del popolo dei migranti che sbarca senza posa a Ellis Island. Gli italiani avranno l’imbattuto Rocky Marciano. Irlandesi, ebrei, italiani e afroamericani si picchiano tutti contro tutti fin quando sul ring non salgono gli ispanici ultimi arrivati sotto i lembi dell’american dream dove fanno a pugni proletari di tutto il mondo: gli anonimi Firpo e Brescia che denunciano origini italianissime nascoste sotto l’invariabile nomignolo di Wild Bull of the Pampas che accomuna i pugili venuti dall’Argentina, o il nigeriano Dick Tiger per cui il ring è un’utopia oweniana a confronto dei massacri che sventrano il suo paese nel ’68, avvisaglia degli orribili genocidi che avrebbero poi sfigurato l’Africa di Ali e Foreman. Lontanissimo dalla retorica celebrativa è il crudo ritratto di "Pity the Poor Giant", tracciato da Paul Gallico (da un suo racconto Hollywood produsse "L’avventura del Poseidon" con Gene Hackman ed Ernest Borgnine, un Oscar alla musica e diverse nomination, il primo film del catastrofismo in mare), di un patetico Primo Carnera carne da macello per il circo boxistico della malavita. Mai fu pugile moderno – crede Gallico - piuttosto «un cavaliere medievale che nel Trecento avrebbe vinto guerre gloriose a colpi di mazza protetto da elmo e armatura», mentre sul quadrato era gigante dalla mascella di cristallo: un’anfora di coccio che proveniva dal baraccone bonario dell’esibizione e che finì frantumata dalla crudeltà dello show scandito dal profitto. Da At the Fights trasuda un’altra delle verità che hanno fatto la boxe materia di business e di linguaggi espressivi: la natura ambivalente tra sport e spettacolo. Di Carnera ha scritto anche Budd Schulberg – qui grazie a "The King is Dead" – il solo al mondo ad aver vinto un Oscar - per la sceneggiatura del suo romanzo "Fronte del porto" - e a figurare nella Hall of Fame dei memorabili della boxe. L’ex-pugile protagonista del capolavoro di Elia Kazan con Marlon Brando è ritagliato sui personaggi che Schulberg incontrò nella vita reale prima come praticante e poi come scrittore. Ai suoi inizi il pugilato sportivo era ad uso della upper class cui apparteneva Schulberg, figlio di un produttore del cinema muto, e fra gli universitari, fino agli anni ’30: fu la Grande Depressione a diffonderlo nelle classi subalterne come un mestiere per sbarcare il lunario. A Londra nel ’28 conobbe il gigante friulano che negli anni bui gli ispirò il romanzo "The harder they fall" del ’47 sul quale era costruito il film "Il colosso d’argilla" (’58), l’ultima interpretazione di Humphrey Bogart.
La compilazione segue una diacronia temporale riuscendo, attraverso la catarsi del combattere, a mettere assieme senza distonie premi Pulitzer come Kempton e Remnick con le memorie dei boxeur Patterson e Gene Tunney che – avido di letteratura già da pugile – racconta il successo sul più terribile picchiatore della storia dei massimi, il meticcio irlandese-cherokee Jack Dempsey. Ecco un’altra benemerenza di At the Fights: ti consegna la ricetta per vivere l’emozione del match, inghiottirne l’adrenalina, patirne ansie e attese senza rischiare di esser messo a dormire da un gancio al mento. Ma non è la playstation: pulsano sentimenti, si annidano riflessioni sotto gli occhi gonfi, si consumano drammi, tracima umanità fuori del ring. Nella stagione della lotta per i diritti civili e del Black Power, George Plimpton, cofondatore di The Paris Review, ci porta al cospetto di Cassius Clay – ancora per poco con questo nome – politicamente «guidato» da un Malcom X che lo seguiva come un'ombra. Ali è onnipresente in At the Fights, come si deve al «più grande» e alla carriera intrecciata di titoli, renitenza, battaglie politiche e ring: leggendaria quella con Joe Frazier, appena scomparso il 7 novembre all’età di 67 anni, culminata nel pathos distruttivo di Manila, in antologia con "The Fight’s over, Joe" di William Nack.
Joyce Carol Oates ha scritto che la boxe è il grande teatro tragico dell’America, il medium con cui la nazione ha portato in scena ferite e valori, iniquità e mobilità sociali, business e gerarchie, altari e polvere come accadde a Mike Tyson, di cui la Oates racconta in chiave antropologica il significato della condanna per stupro che lo portò in galera (Rape and the Boxing Ring). Poi iniziò la deriva del pugile che aveva evocato l’incubo di Sonny Liston, il «nero cattivo». Quando Tyson affronta Holyfield, afroamericano middle class integrato e timorato di Dio, è lo scontro tra due mondi, rap contro gospel. Tyson, nella frustrazione di una nuova sconfitta, gli strappa via con un morso il lobo dell’orecchio e firma la fine della sua carriera (David Remnik, Kid Dynamite blows up). «Il declino di un pugile si vede prima dalle gambe, poi dagli amici», diceva Joey Giardello, alias Carmine Orlando Tilelli, boxeur italoamericano di Brooklyn, una delle mille comparse di At the Fights dietro le grandi figure, Robinson, Duran, Ray Sugar Leonard, De La Hoya, Marvin Hagler; i maestri Angelo Dundee e Cus D’Amato mistico e austero, l’uomo che per Patterson e Tyson – entrambi usciti dal ghetto di Stuyvesant a Brooklyn - fu padre prima che trainer; i promoter Bob Arum e Don King, diventati i padroni della scena dopo che la commissione antimafia del procuratore Robert Kennedy nel ’61 aveva allontanato dalla boxe Paolo «Frankie» Carbo e Frank «Brinky» Palermo – narrati da Barney Nagler in "James Norris and the Decline of Boxing".
Guardi la boxe e vedi l’America. Negli anni ’70, sulla scia di Ali, a bordo ring cominciano a mostrarsi gli afroamericani. È un sintomo di mobilità sociale. Caduta la barriera di genere, Katherine Dunn traccia in "The knockout" il profilo umanissimo di Lucia Rijker, la cattiva di "Million Dollar Baby" di Clint Eastwood. Pagina dopo pagina i pugni scorticano la vernice delle narrative «melting pot», «bianco/nero», «multirazziale», per denudare l’osso della contraddizione di classe che nessuno dice meglio dell’afroamericano Larry Holmes ex-campione del mondo dei massimi: «È duro essere neri. Siete mai stati neri? Io sì, un tempo: quando ero povero». E allo sguardo d’insieme, At the Fights risulta uno splendido mural alla Diego Rivera sulla boxe come la storia sociale giunta fino all’elezione di Obama alla Casa Bianca.

- Marco Perisse - da “Alias – il manifesto”, del 19 novembre 2011 -

boxe

martedì 27 maggio 2014

Il dono della teoria

dono teatro

Il "lato oscuro" del valore e il dono
di Anselm Jappe

Nei quasi 30 anni, nel corso dei quali la teoria del dono è diventata uno dei pensieri sociali più importanti, essa si è dovuta spesso confrontare con i paradigmi di origine marxista. Il progetto di elaborazione di una critica radicale dei fondamenti stessi della società delle merci e dei suoi presupposti storici, ma su basi diverse dal marxismo, potrebbe essere definita dal percorso del MAUSS (Movimento Anti-Utilitarista nelle Scienze Sociali) e di quello che l'ha portato a scegliere Marcel Mauss e Karl Polanyi come riferimenti teorici maggiori. Invece di essere esplicitamente anti-marxista, come lo sono state molte teorie di moda nello stesso periodo storico, la teoria del dono sembra voler passare a lato di Marx, tentando di edificare una critica sociale tanto ricca quanto quella di Marx, ma senza le sue conseguenze politiche, giudicate disdicevoli, e senza che questo venga percepito come un suo limite e una sua unilateralità per quanto riguarda le concezioni di base. Il difetto principale di tutta la teoria marxista, agli occhi di MAUSS, è il suo economicismo: lo si accusa di ridurre l'essere umano alla sua sola dimensione economica, o quanto meno di attribuire a tale dimensione una preponderanza assoluta. L'approccio marxista sarebbe strettamente utilitarista: gli uomini sono guidati solo dai loro interessi, interessi strettamente materiali ed individuali. Nelle sue basi filosofiche ed antropologiche, il marxismo dimostrerebbe anche una sorprendente parentela col liberalismo borghese: è la concezione dell'uomo come Homo œconomicus, incapace di qualsiasi atto che non sia , direttamente o indirettamente, parte di un calcolo volto a massimizzare i benefici. Lungi dal dispiacersene, i marxisti traggono un piacere maligno dal dimostrare che nella società borghese tutte le manifestazioni di simpatia, di generosità o di disinteresse, non sono altro che un velo ipocrita steso sull'eterno scontro di interessi antagonisti. Questo tipo di marxismo non è una pura "costruzione", messa insieme dai teorici del dono per distinguersi più facilmente. Esiste per davvero, e non è necessario qui approfondire ulteriormente una tale evidenza. Ma si può ridurre tutta la teoria di Marx ad un tale "economicismo"? Siamo sicuri di non poter trovare nello stesso Marx quegli strumenti teorici in grado di farci uscire dal paradigma utilitarista? In altre parole, la teoria del dono ed un approccio basato su alcuni concetti di Marx, sono necessariamente incompatibili? E se non lo sono, si tratta di incollarne i pezzi insieme, di stabilire delle "competenze specifiche" per ciascuno degli approcci, o si può, piuttosto, constatare una convergenza (sicuramente, parziale) sullo stesso sfondo?
Nel 2003, ho pubblicato un libro, dal titolo "Le avventure della merce", che apparentemente non sarebbe "marxista" - in effetti, si è attirato le ire dei diversi sostenitori di quello che oggi passa per marxismo - ma che sviluppa le conseguenze di certe categorie di Marx. Non mi sono troppo interessato di altri apporti teorici; ma verso la fine, ho potuto rilevare che aveva trovato in Polanyi, in Mauss e nei pensatori del dono, delle osservazioni che andavano nello stesso senso della critica marxiana, così come l'avevo ricostruita. Per cui ho suggerito che questi pensatori non marxisti avrebbero potuto essere più prossimi all'eredità di Marx della maggior parte di coloro che oggi si richiamano al "marxismo". In quel che segue, non si tratterà di affermare che il paradigma del dono ed il pensiero di Marx coincidano punto per punto, ma di dire che una certa rilettura di Marx, quale quella fatta dalla "critica del valore", permette di trarre delle conclusioni che in parte coincidono con quelle della teoria del dono.
Non bisogna dimenticare che Il Capitale non ha per sottotitolo "Trattato di economia politica", bensì "Critica dell'economia politica". In tutta l'opera di Marx, all'inizio come alla fine, si trovano delle osservazioni che criticano perfino l'esistenza stessa di una "economia". La sua intuizione per cui un'economia separata dal resto delle attività sociali ("disincastonata", direbbe Polanyi) costituisce già un'alienazione, è stata ripresa da alcuni dei suoi interpreti. Così, nel 1923, il più lucido pensatore marxista della sua epoca, Georg Lukács, scriveva a proposito della futura "economia socialista": "Questa 'economia' tuttavia non ha più la funzione che precedentemente aveva tutta l'economia: essa dev'essere la serva della società diretta coscientemente; essa deve perdere la sua immanenza, la sua autonomia che ne fa propriamente un'economia; essa dev'essere soppressa in quanto economia".
A partire dagli anni 1940, coloro che mettono in dubbio il legame necessario fra la critica marxiana del capitalismo ed una concezione utilitaristica e produttivistica dell'uomo, volta esclusivamente ad espandere il suo dominio sulla natura, furono soprattutto i rappresentanti della Scuola di Francoforte, Theodor W. Adorno ed Herbert Marcuse in testa, così come, in modo un po' diverso, i situazionisti e Guy Debord. L'esperienza dell'arte moderna costituiva, presso gli uni come presso gli altri, il modello di un rapporto meno "interessato" con le cose, più ludico e più conviviale. Nella misura in cui queste correnti critiche vedono il maggior difetto della società del dopoguerra, non più nella miseria materiale, ma nell'alienazione della vita quotidiana, l'uscita che prevedono non deve più avvenire esclusivamente a livello economico, ma mira a comprendere tutti gli aspetti della vita. E' allora la questione del lavoro a costituire il vero problema. Marx ha esitato, dalle sue prime opere di gioventù fino ai suoi ultimi scritti, come la Critica del Programma di Gotha, fra il programma di una liberazione del lavoro (quindi attraverso il lavoro) e quello di una liberazione dal lavoro (quindi liberandosi del lavoro). La sua critica dell'economia politica contiene una profonda ambiguità in rapporto al lavoro. Il movimento operaio ed il marxismo ufficiale, diventati in certi paesi l'ideologia di una modernizzazione di recupero, e negli altri quella dell'integrazione effettiva della classe operaia, ne hanno trattenuto solo la centralità e l'elogio del lavoro, concependo ogni attività umana come un lavoro e chiamando all'avveramento di una "società dei lavoratori". I primi a mettere in dubbio l'ontologia del lavoro, pur richiamandosi a dei concetti essenziali in Marx, furono gli stessi autori critici dell'economia che abbiamo citato. Il "Non lavorate mai" dei situazionisti, ereditato da Rimbaud e dai surrealisti, si unisce al "gran rifiuto" di cui parla Marcuse. Tuttavia, la più parte di quelli che avevano cominciato la loro carriera intellettuale nel corso dei "gloriosi trenta", all'insegna del marxismo scelgono, per allontanarsene, di accusare il pensiero marxista - anche nelle sue versioni più eterodosse - di prendere in considerazione solo una parte limitata dell'esistenza umana. Le sue analisi economiche possono essere corrette - affermano - ma il pensiero marxista fallisce miseramente quando ne vuole trarre delle implicazioni per le altre sfere dell'esistenza umana: lingustica, simbolica, affettiva, antropologica, religiosa, ecc.. Cornelius Castoriadis e Jürgen Habermas sono dei casi paradigmatici fra coloro che hanno ridotto Marx ad un esperto di economia, di cui si poteva trarre una certa utilità, ma che non sarebbe molto "competente" nei vasti altri campi della vita che ci si aspetta che obbediscano a logiche ben diverse.

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Un'altra strada è stata seguita da una corrente internazionale, chiamata sovente "critica del valore". Questa tenta, piuttosto, di dimostrare che la critica dell'economia politica di Marx contiene una messa in discussione delle basi della società capitalista molto più radicale di quella poi proposta dal marxismo tradizionale: il valore, il denaro, la merce ed il lavoro non sono più considerati dalla "critica del valore" come dei dati "neutri" e trans-storici, eterni, ma come il cuore della specificità negativa del capitalismo moderno. Sono dunque queste categorie di base che bisogna criticare, e non solo l'esistenza delle classi sociali, del profitto, del plusvalore, del mercato e del rapporto giuridico di proprietà - che sono essenzialmente le forme di distribuzione del valore, cioè a dire, dei fenomeni derivati. Questo punto di vista viene sviluppato, a partire dagli anni 1980, da Moishe Postone, professore a Chicago, nella sua grande opera "Tempo, lavoro e dominazione sociale". Inoltre, viene elaborato poco a poco dalla rivista tedesca "Krisis" (dal 1987) e da "Exit!" e dal principale autore Robert Kurz. Poco importa se li si vuole chiamare neo-marxisti, post-marxisti, o in qualche altra maniera. Per loro, non si tratta di "combinare" l'approccio marxista, o considerarlo come tale, insieme ad altri approcci, bensì di leggere l'opera dello stesso Marx in modo molto diverso da come hanno fatto i marxisti per più di un secolo. Questi avevano messo al centro della loro critica il plusvalore e la sua distribuzione, ed hanno ontologizzato il valore, che però ne è la base, e che è un prodotto altrettanto storico. Anziché effettuare un'ampia comparazione fra il punto di vista della critica del valore e quello della teoria del dono - che rimane comunque auspicabile - mi limiterò qui ad indicare qualche punto in cui la critica del valore più si allontana dal marxismo tradizionale e dove un confronto teorico con la teoria del dono, sembra più promettente. Nel migliore dei casi, ciascuna delle due teorie ne uscirà arricchita e colmerà qualche lacuna nella sua propria concezione. Questa prima bozza di un confronto, si limita essenzialmente alla sfera teorica. Lascia da parte le conseguenze pratiche dove la distanza è più grande - soprattutto per quanto riguarda le speranze che la teoria del dono ripone nell'associazionismo, nel "terzo settore", ecc., fino al progetto di fondare un "socialdemocrazia radicalizzata ed universalizzata" al fine di tornare al modello fordista, considerato come una forma di "re-incastonamento dell'economia nella società". Questo, agli occhi della critica del valore, non è né possibile né auspicabile.
Moishe Postone si impegna soprattutto a dimostrare che Marx, al contrario di quasi tutta la tradizione marxista, non sostiene affatto il punto di vista per cui lavoro, concepito come un'essenza eterna, che esiste nel capitalismo, si troverebbe "nascosto" dietro le altre formazioni sociali: "In altre società, le attività lavorative si trovano incorporate dentro una matrice sociale non travestita, e non sono quindi né delle essenze né delle forme fenomeniche". E' il ruolo unico, giocato dal lavoro sotto il capitalismo, che costituisce sia il lavoro come essenza che il lavoro come forma fenomenica. In altri termini, poiché i rapporti sociali che caratterizzano il capitalismo sono mediati dal lavoro, questa formazione sociale ha come particolarità quella di avere un'essenza." E' solo nel capitalismo che il lavoro, invece di essere "incorporato" nell'insieme delle relazioni sociali, come avviene nel caso delle società pre-capitaliste, diventa esso stesso un principio di mediazione sociale. Il movimento di accumulazione di unità di lavor morto (cioè, del lavoro già svolto) sotto forma di "capitale" diventa il "soggetto automatico" - il termine è di Marx - della società moderna. Naturalmente, ogni società deve organizzare in qualche maniera la sua produzione materiale, il suo "metabolismo con la natura" (Marx), ma nelle società pre-capitaliste questa produzione rientra nel quadro sociale organizzato secondo criteri diversi dallo scambio di unità di lavoro tra produttori formalmente indipendenti. Ecco perché lì non esistono né il "lavoro" né "l'economia" in senso moderno. Il lavoro, nel senso moderno, ha una doppia natura: è, allo stesso tempo, lavoro concreto e lavoro astratto (che, per Marx, non ha niente a che vedere col "lavoro immateriale"). Non si tratta di due tipi differenti di lavoro, ma di due aspetti del lavoro stesso. Quel che crea il legame sociale nel capitalismo, non è la varietà infinita dei lavori concreti, ma il lavoro nella sua qualità di essere un lavoro astratto, sempre uguale e sottomesso al meccanismo feticista della sua crescita, la quale è la sola finalità. In tali condizioni, la socializzazione non si crea che "post festum", come conseguenza dello scambio di unità di valore, e non come suo presupposto. Laddove la produzione è organizzata intorno al lavoro astratto, si può dunque dire che il legame sociale si costituisce in maniera già alienata, sottratta al controllo umano, mentre nelle altre società il lavoro è subordinato ad un legame sociale stabilito in maniera differente. La "sintesi sociale" esiste perciò sotto due forme principali ed opposte: sia attraverso lo scambio di doni - dove il fine è la produzione di un legame fra le persone -, sia attraverso lo scambio di equivalenze, dove la produzione di un legame non è altro che la conseguenza, pressoché accidentale, di un incontro, sul mercato anonimo, fra produttori isolati. Il dono può essere descritto come una forma di organizzazione sociale in cui il lavoro ed i suoi prodotti non mediano sé stessi, "alle spalle" dei partecipanti; è dunque una socialità diretta, non governata da rapporti autonomizzati fra cose. Il dono non è una cosa, come ci ricordano i pensatori del dono, ma sempre una relazione, "una relazione sociale sintetica a priori, che è vano voler ridurre agli elementi che esso collega fra di loro". Ne consegue che "l'economicismo", in quanto subordinazione all'economia di tutte le attività umane, non è un errore della teoria: è ben reale dentro la società capitalista - ma solamente in essa. Non è un dato immutabile dell'esistenza umana, ed ancor meno qualcosa da rivendicare. Questa subordinazione costituisce, al contrario, un aspetto della società capitalista che può e che dev'essere cambiato. Si deve quanto meno sottolineare che questa centralità della "economia" e dell'aspetto "materiale" in generale, nella modernità, (a scapito per esempio della "riconoscenza") si spiega solo per l'autonomizzazione del lavoro astratto. Postone forse va un po' troppo lontano nell'identificare semplicemente il Marx che egli ricostruisce con l'edificio teorico di Marx - il quale, ben più di quanto Postone ammetta, contiene anche numerosi elementi sui quali è stato in seguito costruito il marxismo "tradizionale" del movimento operaio. La "critica del valore", formulata in Germania da Kurz, da Krisis e da Exit!, preferisce distinguere fra una parte "essoterica" dell'opera di Marx - la teoria della lotta di classe e dell'emancipazione degli operai, che alla fine è diventata una teoria per la modernizzazione del capitalismo in un'epoca in cui esso aveva ancora numerosi tratti pre-modeni - ed una parte "esoterica" in cui Marx ha analizzato - segnatamente nei primi capitoli del Capitale - il nucleo stesso della società delle merci: la doppia natura del lavoro e la rappresentazione del suo lato astratto nel valore e nel denaro. Il valore descritto da Marx è ben lungi dall'essere una semplice categoria "economica". La rottura radicale fatta da Marx in rapporto ai fondatori dell'economia borghese, Smith e Ricardo, consiste nel non considerare più la rappresentazione del lavoro nel "valore", come qualcosa di neutro, di naturale e di innocente. Non è il lato concreto di un lavoro quello che si trova ad essere rappresentato nel valore, e dunque in una quantità di denaro, ma è la sua parte astratta - la semplice durata della sua esecuzione. E' il lavor astratto che determina il valore di una merce. Non è l'utilità o la bellezza di un tavolo a costituirne il suo valore, ma il tempo impiegato a produrlo, insieme ai suoi componenti. Il lavoro astratto è per definizione indifferente ad ogni contenuto e non conosce altro che la quantità e la sua crescita. Subordinare la vita degli individui e dell'umanità intera ai meccanismi di tale accumulazione senza nemmeno averne coscienza: ecco il "feticismo della merce" di cui parla Marx. Questo "feticismo" è ben lungi dall'essere una semplice mistificazione, un velo, come viene spesso creduto. Va inteso nella sua dimensione antropologica, cui ci rimanda l'origine della parola: la proiezione della potenza collettiva dentro dei feticci che l'uomo stesso ha creato e da cui crede di dipendere. La merce è in un certo senso del tutto oggettivo - e non solo psicologico - il totem intoro al quale gli abitanti della società moderna organizzano la loro vita. Quest'autonomizzazione del valore, e dunque della ragione economica, esiste solo nella società capitalista. Eì xcò che Marx ha descritto come il rovesciamento della formula "Merce-Denaro-Merce" in "Denaro-Merce-Denaro", e che non può esistere altro che nella formula "Denaro-Merce-Più Denaro". Così, la produzione di beni e di servizi non è altro che un mezzo, un "male necessario" (Marx), per poter trasformare una somma di denaro in una somma di denaro più grande. Ne consegue il "produttivismo", così caratteristico del capitalismo. Il "valore", perciò non è limitato ad una sfera particolare della vita sociale. E' piuttosto una "forma a priori", in un senso quasi kantiano: in una società delle merci, tutto ciò che esiste viene percepito come quantità di valore, dunque come somma di denaro. La trasformazione in valore si pone come mediazione universale tra l'uomo ed il mondo; sempre in termini kantiani, il valore è il "principio di sintesi" della società basata su di esso. Questo porta la critica del valore a rigettare la pretesa del "materialismo storico" ad avere una validità trans-storica, così come a rifiutare l'opposizione fra "base" (economica) e "sovrastruttura". Da un lato, il feticismo della merca è un fenomeno moderno - le società precedenti si basavano si altre forme di feticismo. Dove il lavoro era subordinato ad un ordine sociale stabilito e dove serviva soprattutto a perpetuare le gerarchie sociali esistenti, come nell'Antichità o nel Medioevo, non poteva svilupparsi una dinamica auto-istitutiva, come avverrà più tardi quando si trasformerà in un sistema basato sull'accumulazione tautologica di unità di lavoro morto che forgia da sé il suo personale di servizio. Ma anche nella società delle merci completamente sviluppata, non può essere solo questione di un "primato dell'economia". Il valore è piuttosto una "forma sociale totale". La stessa logica - che, sul piano più generale, consiste nel subordinare la qualità alla quantità, e nell'indifferenza al contenuto concreto - la si ritrova a tutti i livelli dell'esistenza sociale, fin nei recessi più intimi di coloro che vivono in una società delle merci. La forma-merce è allo stesso tempo una forma-pensiero, come ha dimostrato il filosofo tedesco Alfred Sohn-Rethel (1899-1991). Il pensiero astratto e matematico, così come la concezione astratta del tempo, è stato, a partire dall'Antichità, ma soprattutto dopo la fine del Medioevo, tanto una conseguenza quanto un presupposto dell'economia monetaria e delle merci, senza che si riesca a distinguere tra quello che proviene dalla "base" e quello che proviene dalla "sovrastruttura".

dono cinema

Tuttavia, si potrebbe obiettare che la critica del valore, anche se non concepisce il valore in senso puramente economico, lo vede sempre come un principio "monista": la società contemporanea sarebbe completamente determinata dal valore, e dunque dallo scambio di equivalenti. Non esisterebbe alcuno spazio per il dono e per gli atti che non sono legati ad un calcolo. In verità, la critica del valore ha superato velocemente, nel corso del suo sviluppo, una tale concezione (che renderebbe altresì impensabile ogni fuoriuscita positiva dal capitalismo). Il valore non esiste, e non può esistere, altro che in un rapporto dialettico con il non-valore, e questo rapporto è necessariamente antagonista. Storicamente, la produzione di merci ha avuto luogo per molto tempo solo in delle nicchie; era limitata a dei settori molto ristretti (per esempio, l'industria della lana). Tutto il resto della produzione obbediva ad altre leggi, dal momento che veniva assicurata dalla produzione domestica e dall'appropriazione diretta (schiavitù, servaggio). La diffusione storica del capitalismo si identifica con un'estensione progressiva della produzione delle merci a dei settori sempre nuovi della vita. Dopo essersi impadronito di tutta l'industria e dell'agricoltura nel corso del XIX secolo, nel XX secolo invade la riproduzione quotidiana, soprattutto sotto forma di "servizi". Che sia la messa in opera dell'industria agroalimentare o la commercializzazione delle cure rivolte all'infanzia o alla vecchiaia, che sia lo sviluppo dell'industria culturale o lo sviluppo di nuove terapie: il bisogno bulimico del capitale di trovare delle sfere sempre nuove di valorizzazione del valore, lo spinge a "rendere produttive" delle sfere vitali che prima non avevano "nessun valore". Questa "colonizzazione interna" della società ha giocato un ruolo grande almeno quanto quello della "colonizzazione esterna", al fine di contrastare la tendenza endemica ad esaurirsi, della produzione di valore, a causa della sempre minore quantità di valore "contenuto" in ciascuna singola merce. La diminuzione permanente è il risultato della tecnologia che rimpiazza il lavoro vivente, unica fonte del valore della merce.
Il processo di "rendere produttivo" quello che non è ancora assoggettato alla logica del valore non è finito, né mai potrà esserlo. Infatti, queste vittorie della mercificazione sono altrettante vittorie di Pirro. Occupando e rovinando le sfere non di mercato, il capitale risolve, a breve termine, i suoi problemi di valorizzazione sul piano economico. Ma così facendo mina le sue proprie basi sul piano sociale. La logica della merce, basata sull'indifferenza dei contenuti e delle conseguenze, non è praticabile in quanto tale. Una società non potrebbe mai fondarsi esclusivamente su tale logica, perché ne risulterebbe l'anomia più totale. Numerose attività di base della vita, a cominciare dall'educazione dei bambini, dalla vita amorosa, o da un minimo di fiducia reciproca, non potrebbero funzionare secondo la logica di mercato dello scambio di equivalenze e sul modello del contratto. La logica delle merci, per poter funzionare, per disporre di una società, in seno alla quale evolversi, ha bisogno che una parte della vita sociale si svolga secondo dei criteri non di mercato. Ma allo stesso tempo, la sua logica cieca e feticista ( e non la strategia di un mega-soggetto chiamato "classe capitalista") la spinge a rosicchiare questi spazi. Così, per la critica del valore, il valore non è affatto una "sostanza" che si sviluppa, ma una sorta di "niente" che si nutre del mondo concreto e lo consuma. Mentre, non solo il pensiero borghese, ma perfino la quasi totalità del marxismo ha accettato il valore come un dato naturale ed ha argomentato a suo nome (la gloria della classe operaia che "crea tutto il valore"), la critica del valore lo ha invece visto come una forma storicamente negativa e distruttrice. Se il capitale non è mai riuscito a trasformare tutto in valore, è perché questo trionfo sarebbe stato anche la sua fine. Il valore non è la "totalità", una realtà che ingloba tutto, e di cui ci si deve impadronire, ma è "totalitario" nel senso che ha la tendenza a ridurre tutto a sé stesso, senza poterci tuttavia riuscire. La totalità esiste soltanto come "totalità spezzata". Così, la critica del valore rivendica di essere andata molto più lontano delle altre critiche dell'economicismo, dal momento che ne ha indicato chiaramente le cause. La stessa critica della crescita non ha senso che quando si lega ad un'analisi della dinamica inerente al valore, e della crisi verso cui questo dinamismo interno inevitabilmente ci porta. Infatti, la previsione di una crisi maggiore, dovuta al limite interno del sistema del sistema di valorizzazione del valore, ha sempre costituito, da vent'anni, una delle assi principali della critica del valore, ed ora è stata largamente confermata.
Quindi la critica del valore concorda con il paradigma del dono in questo: anche all'interno della società contemporanea, numerosi aspetti della vita, aspetti senza i quali questa vita non sarebbe possibile, non si svolgono sotto forma di uno scambio di equivalenze, non sono misurabili per la quantità di lavoro astratto, né servono immediatamente gli interessi materiali di coloro che li compiono. Il valore "funziona" grazie al non-valore. Pertanto, si può parlare di un "lato oscuro del valore", della sua "faccia nascosta", come la faccia oscura della luna che non si vede mai, ma che però si trova là, altrettanto grande della faccia visibile.
Tuttavia, la critica del valore ne trae delle conclusioni meno ottimistiche rispetto a quelle dei teorici del dono. Per la critica del valore, la sfera non di mercato non è un'alternativa logica che corre sotto la logica trionfante di mercato e che può, in quanto tale, essere mobilitata per costituire il punto di partenza di una società non di mercato. o per posizionarsi ai margini del settore di mercato. In una società delle merci, la fera non di mercato non esiste se non come sfera subordinata e mutilata. Non è una sfera di libertà, ma è la serva disprezzata, e tuttavia necessaria, dello splendore delle merci. Non è il contrario del valore, ma il suo presupposto. La sfera del valore e la sfera del non-valore, insieme formano la società del valore. Anche se le attività non di mercato, come la vita familiare o la cooperazione fra vicini, non sono state storicamente create dalla logica del valore, ne sono state successivamente assorbite nella sua sfera e adesso sussistono come sue forze ausiliare.Non costituiscono perciò, in quanto tali, una realtà "altra", non rappresentano, nella loro forma attuale, il fulcro di una resistenza alla mercificazione. Non sono il "resto non alienato" (Adorno), né ciò che sfugge alla mercificazione. Anch'esse portano il marchio di una società feticista. La donna che si occupa della casa e che non è pagata per questo, che non crea e che non riceve alcun valore (sempre in senso economico, certo) non fa tuttavia meno parte della socializzazione attraverso il valore. Assicura questo "lato oscuro" senza il quale la produzione di valore non funzionerebbe, ma che non è soggetto alla forma-valore. L'economia domestica tradizionale non può accedere alla sfera del valore che indirettamente: organizzando la riproduzione quotidiana della forza lavoro del marito, ed allevando la forza lavoro futura. Questa sfera "dissociata" in rapporto al valore obbedisce ad altre regole: il lavoro di una casalinga non può essere descritto in termini di "sfruttamento economico" nel senso di estrazione di plusvalore. Tuttavia, essa è funzionale, perfino indispensabile alla valorizzazione. Le due sfere sono l'una il presupposto dell'altra. L'esempio della casalinga non è stato fatto a caso: la distinzione tra la sfera del valore e quella del non-valore coincide largamente con la divisione tradizionale dei ruoli tra i due sessi. La graduale introduzione della società delle merci, a partire dalla fine del Medioevo, ha significato la separazione fra il lavoro che "crea" il valore, realizzabile sui mercati, e le altre attività vitali, altrettante necessarie, ma che non si traducono in una quantità di "valore" e che perciò  non sono "lavoro". Da un lato, l'accumulazione progressiva del valore, soggetta ad una logica lineare e che si svolge in pubblico, e, da un'altra parte, la sfera della riproduzione della forza lavoro nel privato, sottomessa ad un'eterna logica ciclica: la porzione non di mercato della società delle merci. Solo la partecipazione alla sfera del lavoro dà accesso ad un'esistenza pubblica e ad un ruolo di soggetto, mentre la sfera domestica rimane ancorata ad una sorta di quasi-naturalità, fuori dalla storia e da ogni dibattito. E questo include anche il fatto che la sfera del valore è la sfera maschile, e la sfera domestica è quella femminile, esclusa per tale ragione da ogni potere ufficiale di decisione e dallo statuto di "soggetto". Si tratta, naturalmente, di una logica strutturale che non sempre è legata al sesso biologico dei suoi portatori. Nella storia, delle donne hanno fatto parte eccezionalmente, e negli ultimi decenni in modo massiccio, della sfera del valore, in quanto operaie o presidentesse; invece, i maschi che fanno parte della riproduzione quotidiana, come i domestici, e che quindi si trovano, come le donne, in un rapporto di dipendenza personale dai loro datori di lavoro, e non in un rapporto di dipendenza anonima da un mercato retto da dei contratti, sono, come le donne, esclusi dalla sfera pubblica (come il diritto di voro che quando venne concesso agli operai, non sempre venne esteso anche ai domestici).
Alla produzione di valore vengono associati i "valori" maschili: durezza verso sé stessi e verso gli altri, determinazione, ragione, calcolo; mentre le attività non di mercato vengono associati a "valori" femminili: dolcezza, comprensione, emozione, dono, gratuità. Questo non significa che le donne siano così per natura, ma che tutto ciò che non rientra nella logica del valore viene proiettato sulla "femminilità". Soprattutto oggi, viene permesso agli uomini ed alle donne di esercitare nell'altro campo, ma sempre assorbendone i valori che dominano quel settore. E' evidente che le due sfere non sono semplicemente complementari, ma sono gerarchizzate. Un certo numero di donne può accedere alla sfera maschile, alla produzione e alla gestione del valore, ma le attitudini considerate "femminili" rimangono comunque marchiate da un segno d'inferiorità in rapporto alle cose "serie". Ecco perché Roswitha Scholz ha intitolato l'articolo dove formula, nel 1992, il teorema sul rapporto fra il valore e ciò che ne viene dissociato: "E' il valore che fa l'uomo". Così riassume il problema: "Perché ciò che il valore non può afferrare, ciò che quindi viene dissociato da esso, è esattamente quello che nega la pretesa alla totalità della forma-valore; rappresenta il non detto della teoria e perciò si sottrae agli strumenti della critica del valore. Le attività femminili di riproduzione rappresentano l'opposto del lavoro astratto, è impossibile sussumerle sotto il concetto di "lavoro astratto", come ha fatto spesso il femminismo che ha largamente ripreso e fatta sua la categoria positiva del lavoro cara al marxismo del movimento operaio. Nelle attività dissociate, che comprendono fra le altre cose - e non per ultime - l'affetto, l'assistenza, la cura alle persone deboli e malate, fino all'erotismo, alla sessualità, nonché "l'amore", sono inclusi dei sentimenti, delle emozioni e delle attitudini contrarie alla razionalità di quella "economia d'impresa" che regna nel dominio del "lavoro astratto", e che si oppongono alla categoria del lavoro, anche se non sono del tutto esenti da una certa razionalità utilitarista e da certi standard protestanti" (Scholz).
Quali sono le conseguenze per la Critica del valore? Non si tratta di rivendicare un "salario per le casalinghe", perché ciò significherebbe continuare ad attribuire un'importanza sociale a quello che è rappresentato dentro un valore di mercato, e quindi nel denaro. Neppure si tratta di procedere ad una semplice valorizzazione positiva di un "lato oscuro", dissociato, nel nome della "differenza". Parimenti, sembra difficile poter organizzare una sfera del dono a lato di una sfera di mercato: la dinamica interna del capitale - e non una cattiva volontà da parte dei suoi amministratori, che potrebbe essere addomesticata con dei mezzi politici - lo spinge a conquistare settori di valorizzazione sempre nuovi. Non potrebbe mai "coabitare" pacificamente con una sfera del dono e della gratuità. La critica del valore è ben consapevole che dei rapporti sociali, diversi dallo scambio di equivalenti e diversi dal contratto, sono all'opera anche all'interno della società capitalista. Essa afferma, tuttavia, che il potenziale di emancipazione di queste forme di rapporto non potrà svilupparsi che al prezzo di un'uscita generale dal lavoro astratto in quanto forma di mediazione sociale autonomizzata e feticista. Non è quindi questione di lamentarsi di una sorta di "ingratitudine" del sistema delle merci il quale non terrebbe conto, per esempio, della "cooperazione nell'impresa". Nelle società pre-capitaliste potevano essere in grado di coesistere, come afferma Polanyi, la reciprocità, la redistribuzione e dei mercati locali; ma il mercato sfrenato, dove la trasformazione del lavoro in denaro - e dunque la moltiplicazione del lavoro astratto - diventa l'unica finalità della vita sociale, deve distruggere le altre forme di scambio, che a loro volta non possono essere ripristinate che al prezzo di un superamento globale della subordinazione del mondo concreto alla sua forma di mercato.
Alla fine, la critica del valore e la teoria del dono sono, fra i pensieri contemporanei, i due più attenti ad uno degli aspetti che minaccia maggiormente il mondo attuale: degli individui e dei gruppi sempre più numerosi diventano "superflui" dal momento che sono "inutili". "Inutili" dal punto di vista dell'utilitarismo, "inutili" dal punto di vista della valorizzazione del valore. "In una società fondata sul dovere all'utilità, non c'è niente di peggio che la sensazione di essere superflui", dice Caillé, parlando dei regimi totalitari. Ma non è forse il totalitarismo della ragione del Mercato, basato sul lavoro, che è sul punto di rendere superflui delle fasce sempre più ampie di umanità e, alla fine, l'umanità stessa? E' possibile spiegare, senza riferirsi al regno mortifero del valore astratto e del lavoro astratto, il fatto che gli individui siano diventati assolutamente interscambiabili - e perciò spiegare la loro "fungibilità" che costituisce il legame fra utilitarismo e totalitarismo? E' possibile senza comprendere la "reductio ad unum", la quale fa sì che per l'utilitarismo tutti i piaceri siano comparabili, e dunque uguali, per cui si distinguono solo quantitativamente, al punto che il "piacere di ascoltare Bach" è riducibile "a quello di gustare un camembert" (Caillé)?

- Anselm Jappe -

fonte: Critique Radicale de la Valeur

lunedì 26 maggio 2014

Ancora un paio di Tesi

sciopero3

- Istituto della SmobilitazioneTesi sul concetto di sciopero -

Tesi n°3: Lo sciopero è il (doppio) rovesciamento dei valori

Il cambiamento di paradigma - messo in luce da Hannah Arendt, in "Vita activa. La condizione umana" - può essere rappresentato nei seguenti termini:

                              Atene                                          Mondo Moderno
                              AZIONE                                           LAVORO
                              LAVORO                                           AZIONE

Nell'antichità, il lavoro era qualcosa che veniva disprezzato, lasciato agli schiavi. Un cittadino non vi si abbassava. La sua dignità lo chiamava alle cose legate all'azione, alla politica - cui non poteva sottrarsi. Rispetto a tali valori, le società occidentali praticano l'esatto opposto: il "cittadino" si sbarazza del carico della politica e si dà dei rappresentanti (cosa che gli prende circa un minuto, ogni cinque anni, per votare) di modo da potersi dedicare a tempo pieno al lavoro, luogo del suo piacere e della sua auto-realizzazione; vale a dire: della sua infelicità e del suo sfruttamento, in quelle attività professionali divenute, per la maggior parte, nocive; nocive agli uomini, alla natura, alla società.
La politica è diventata affare degli specialisti; quegli stessi che dicono: "Tornate al lavoro, e noi prenderemo in mano il problema politico". Ecco perché attaccano lo sciopero, che dice:"Lascio il lavoro, il campo e il granaio; mi riapproprio della politica che ho abbandonato ..."
La filosofia politica ha accompagnato molto bene questa evoluzione. Tutta la filosofia politica, fin da quando Platone ha cercato una via di fuga definita dalla politica.
Facendo fermare il lavoro e rimettendo le persone al loro posto, nell'azione politica, lo sciopero capovolge i valori capovolti; restaura l'antica gerarchia. Lo sciopero è la politica della politica morta.

sciopero4 PROTAGORA

Tesi n°4: Lo sciopero contesta la specializzazione della politica

Quello che Protagora dice a Socrate: "Ecco come, Socrate, ed ecco perché gli Ateniesi e gli altri, quando si tratta di architettura o di qualsiasi altra arte professionale, pensano che non competa altro che ad un piccolo numero, dare consigli, e se qualcun altro, fuori da questo piccolo numero, si unisce per dare un pare, non viene tollerato, come tu dici, e giustamente, secondo me. Ma quando si delibera sulla politica, dove tutto si basa sulla giustizia e sulla temperanza, si ha ragione ad ammettere tutti, perché bisogna che tutti partecipino alla virtù civile; altrimenti non c'è più la città. Ecco, Socrate, la ragione di questa differenza." (riportato da Platone, in "Protagora"). Ma Platone (cosa che non ha fatto Socrate) assassina Protagora - e metterà gli specialisti al potere. La costruzione della città, l'utopia, è lui. Da quel momento: "Il sovrano si prenderà cura degli affari pubblici ...". Lo sciopero contesta la definizione della politica come affare degli specialisti che avrebbero dei "titoli" a governare.

sciopero4 grondaie

Come dicono le grondaie di Besançon, sulle quali si può leggere che lo sciopero è la "riappropriazione della politica da parte degli ignoranti. L'ignorante è colui che non ha alcun titolo per governare. O, "La condizione perché un governo sia politico, è che sia fondato sull'assenza di qualsiasi titolo per governare" (Ranciére). Lo sciopero dice: "Non sono uno specialista della politica, non ho alcun titolo per governare ... ma voglio decidere delle condizioni della mia vita; voglio decidere delle condizioni del mio lavoro; insieme a tutti quelli con cui vivo; con tutti quelli con cui lavoro."
Lo sciopero è lo stesso scandalo che è la democrazia, la cui essenza è: la politica è l'affare di coloro che non hanno alcun titolo per governare.
"Fa parte del démos - scrive Ranciére - chi parla quando non ha da parlare, chi prende parte a ciò cui non ha nessuna parte."

Corollario alla tesi n°4: Lo sciopero contesta lo spettacolo
Perché: "E' la più antica specializzazione sociale, la specializzazione del potere, che è alla radice dello spettacolo" (Debord)