mercoledì 30 aprile 2014

Capa al cinema

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Robert Capa e il cinema
di Federico Cartelli

Reso celebre come fotoreporter da un’iconografia che lo mostra in uniforme e anfibi sui teatri di guerra di mezzo mondo, è alquanto singolare immaginare Robert Capa fra le risaie del vercellese in veste di fotografo di scena per il film neorealista Riso amaro girato nel 1948. Ma che c’entra Robert Capa in Piemonte? Forse ad attirarlo sul set del regista Giuseppe De Santis era stata l’attrice americana Doris Dowling, sua fiamma del momento, impegnata nel cast insieme con Silvana Mangano, Vittorio Gassman e Raf Vallone. Comunque sia, il rapporto fra Capa e il cinema è stato piuttosto solido e lo approfondisce la mostra, la cui locandina lo ritrae mentre imbraccia una cinepresa, Robert Capa. La realtà di fronte allestita nella scenografica Villa Manin a Passariano di Codroipo. È la sola retrospettiva europea in corrispondenza col centenario della sua nascita che cadrà il prossimo 22 ottobre (in Italia c’è anche una mostra a Roma, presso Palazzo Braschi, tutta dedicata ai suoi scatti sullo sbarco degli alleati).
La rassegna friulana, promossa dalla Regione, l’Azienda speciale Villa Manin, è frutto di una collaborazione con Magnum Photos di Parigi e il Centro internazionale di fotografia di New York. Dei 180 scatti esposti, la sezione più intrigante, e la meno esplorata finora, è quella relativa al cinema. La foto che ritrae Capa mentre maneggia una cinepresa da 16mm venne scattata in Spagna da Gerda Taro, compagna di vita e di lavoro dell’età giovanile. La stessa foto è stata poi pubblicata nel dicembre 1938 sulla copertina della rivista inglese Picture Post che, nella didascalia, definì Capa «il più grande fotografo di guerra al mondo». Prese così avvio nel corso della guerra civile spagnola, parallelamente alle riprese fotografiche, l’attività filmica di Bob. Il documentario Espagne 1936, diretto da Jean Paul Le Chanois e prodotto da Luis Buñuel, ne fornì una prima testimonianza. Capa collaborò alle riprese che vennero effettuate dal cineasta russo Roman Karmen. In Spagna, continuò a lavorare, con puntate a tema, per i filmati del cinegiornale americano March of time (“Il corso del tempo”), notiziario seguitissimo dal pubblico statunitense. I primi nove mesi del 1938 li trascorse in Cina al seguito della troupe del cineasta olandese Joris Ivens. Impegnato in documentari dal taglio socio-politico, Ivens girò le sequenze de I 400 milioni, incentrato sulla guerra cino-nipponica vista dalla parte dei nazionalisti cinesi di Chiang Kai-shek. L’attore dell’epoca Fredric March, nel documentario, prestò la voce narrante. Dal 1942 al 1945 Capa fu poi corrispondente per Collier’s e Life dai fronti di guerra in Africa settentrionale, nel Mediterraneo e in Europa. È in quegli scenari che gli si offrì l’opportunità d’incontrare e allacciare amicizia con noti registi di Hollywood i quali lavoravano, a beneficio della propaganda bellica, per l’esercito a stelle e strisce: John Huston, George Stevens, Alfred Hitchcock realizzavano i notiziari cinematografici che venivano proiettati nelle sale delle città americane.

capa riso amaro

Quei personaggi torneranno utili a Capa nell’immediato dopoguerra allorché il fotografo intensificò il rapporto, anche per ragioni di carattere sentimentale, con l’ambiente del cinema. Incontrò, infatti, Ingrid Bergman e nacque un amore. La loro storia andò avanti - tra frequentazioni e lontananze - per un paio di anni. Parigi stregò Capa fin da quando vi giunse la prima volta, a vent’anni; e non solo perché la capitale francese rappresentava il centro mondiale della fotografia. Ai principi dell’estate '45 Capa si aggirava con Irwin Shaw, drammaturgo e sceneggiatore, nei pressi del Ritz, quando gli arrivò la soffiata che nel lussuoso albergo soggiornava Ingrid Bergman. Il fotografo mollò l’amico e agganciò l’attrice per strapparle qualche scatto. Non ci volle molto per andare a cena insieme. Ma la scintilla non scoccò nella stereotipata e romantica Parigi, bensì nella disastrata Berlino, ridotta a un cumulo di macerie. Alcuni interni della città fecero da stridente sfondo ai primi piani che Capa rubò alla seducente attrice. Lei aveva un marito in Svezia, ma si dichiarò pronta a lasciarlo per l’improvvisa attrazione verso quel fotografo scanzonato, dai tratti somatici mediterranei. E lui, da parte sua, non si lasciò pregare: la seguì a Hollywood, sperando di aprire le porte, molto prosaicamente, per entrare nel cinema come fotografo di scena.

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Capa si rivelò presto insofferente alla vita sedentaria, anche se ebbe la possibilità di lavorare sul set dei film in cui era impegnata la Bergman: Notorious di Hitchcock del ’46 e Arco di trionfo di Lewis Milestone del ’48. Alla richiesta dell’attrice di sposarsi, fece marcia indietro. Nello stesso anno, tornò in Italia. L’aveva risalita dalla Sicilia fra il ’43 e il ’44 al seguito delle armate degli alleati. Si spostò nei dintorni di Vercelli, catalizzato da un’altra attrice, Doris Dowling, che recitava in Riso amaro di De Santis. Il 1947 era stato l’anno di Magnum Photos. Capa, che fu autore del progetto che dette vita all’agenzia fotografica, si recò in Turchia a realizzare un documentario per il cinegiornale March of time. Il nome Magnum, dato all’agenzia, era un omaggio all’ottimo champagne francese che Capa e soci stappavano senza risparmio in ogni occasione. Alcol, fumo e donne, oltre al gioco, hanno costantemente dominato il suo tempo libero. Gli anni ’50 si aprirono invece con un reportage in terra d’Israele, il terzo per il fotoreporter dopo la guerra del 1948. Nel paese mediorientale si fermò circa due mesi per girare un documentario per conto dell’Uja, l’influente organizzazione ebreo-americana, sui sopravvissuti della shoah che, sbarcando nel porto di Haifa, divenivano cittadini israeliani. Il documentario intitolato The journey (“Il viaggio”), poco meno di trenta minuti di proiezione, sarà visibile per la prima volta durante la mostra friulana. Ancora nel 1950 ottenne da registi del livello di John Huston, suo vecchio amico, e Howard Hawks l’esclusiva per la ripresa fotografica dei loro film. La collaborazione con il cinema proseguì e nel 1952 Capa si trovò a Roma, sulle scene del film La carrozza d’oro di Jean Renoir, girato interamente a Cinecittà, con protagonista Anna Magnani. Con John Huston si reincontrò di nuovo per Moulin rouge interpretato da Josè Ferrer e Zsa Zsa Gabor; nel ’53, ancora con Huston, era sul set di Il tesoro dell’Africa. Le riprese avvennero a Ravello sulla Costiera amalfitana, dando luogo a una rimpatriata fra amici. Oltre a Huston, c’erano l’icona Humphrey Bogart e il geniale Truman Capote, in veste di sceneggiatore, le protagoniste femminili della pellicola Jennifer Jones e Gina Lollobrigida. Per Capa, stando in Italia, sarebbe stato più facile spostarsi dalla Costiera a Cortina d’Ampezzo per fare un reportage, incaricato dalla rivista Holiday, sulla mondana località sciistica. In quell’anno Capa fu anche sul set del film La contessa scalza di Joseph Mankiewicz con la diva dell’epoca Ava Gardner e ancora «Bogie» Bogart. Alcune scene di lavorazione vennero girate sulla riviera ligure, fra Sanremo e Portofino. Alla mostra di Villa Manin non poteva mancare la sezione di ritratti su di lui, Capa, eseguiti dai colleghi più cari del suo tempo: compagne di passione, come Gerda Taro; compagni di avventura, come Henry Cartier-Bresson.

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- Federico Cartelli - da "Alias - Il Manifesto - 19 ottobre 2013 -

martedì 29 aprile 2014

Lettera da Marsiglia

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Compagni lavoratori:-
Ho ricevuto la vostra lettera l'altro giorno a Barcellona. Avevo scritto tre pagine in risposta ma non ho potuto farle uscire dal paese, così le ho strappate.
Sono fuori dalla Spagna. Le ragioni sono numerose. Il governo non mi voleva dal momento che ero nel Battaglione Internazionale della Colonna Durruti. Il governo ci ha sabotato fin dalla nostra formazione a maggio e ci ha reso impossibile rimanere al fronte. Niente tabacco a meno che non avessimo soldi. Per tutto il tempo che sono stato nella milizia non ho ricevuto denaro. Dovevo chiedere i soldi per i francobolli, ecc. Sono stato ritirato dal fronte a causa di una leggera ferita e portato in un ospedale di Barcellona. Al momento della registrazione in ospedale ho detto che ero del Battaglione Internazionale Durruti e non volevano registrarmi. Mi hanno detto di andare a chiedere ai miei amici soldi ed un posto per dormire. Ho spiegato loro che venivo dal Canada e che non avevo amici a Barcellona, allora hanno cercato di tenermi prigioniero in ospedale. Ho detto loro che erano degli schifosi - non ci potevo credere. Ad ogni modo, un giorno sono scappato dall'ospedale e sono andato alla sezione inglese della CNT-FAI e lì hanno insistito perché vedessi il console inglese per avere un permesso per lasciare la Spagna, cosa che ho fatto, anche se detestavo andarmene.
La Spagna è un paese meraviglioso. Allo stato attuale mi tornano in mente le storie che ho letto a proposito della O.G.P.U. in Russia. Le carceri della Spagna lealista sono piene di volontari che non hanno una mentalità gretta. Ne ho conosciuto uno di Toronto, un membro della League for a Revolutionary Worker's Party. Mi chiedo se vogliono eliminarlo. Gli stalinisti non esistano ad uccidere chiunque non accetti ciecamente Stalin come se fosse un secondo Gesù Cristo. Uno dei rifugiati che è venuto via dalla Spagna insieme a me era un membro della O.G.P.U. in Spagna, la quale, tra l'altro, è controllata dalla Russia. Ogni volontario delle Brigate Comuniste Internazionali è considerato un potenziale nemico di Stalin. Viene controllato e ricontrollato, ciascuno di loro. Se pronuncia una parola diversa da quelle che si trova nel dizionario "commy" viene portato a "fare un giro". Questo tipo (ex-OGPU) è come tutti gli altri "commies" che provengono dalla Spagna, assolutamente anti-Stalin e anti-comunista. E' riuscito ad uscire dal paese esibendo il suo distintivo della O.G.P.U. sul treno, ecc..
Credo che l'IWW abbia perso più di uno dei suoi membri, dal momento che dubito che sarebbero rimasti zitti al fronte considerando quello che sta succedendo.
Solo grazie al sabotaggio, il governo è riuscito a smantellare i Battaglioni Internazionali degli Anrchici. Quattro del nostro gruppo sono morti di stenti in un solo giorno. Le nostre armi erano marce, sebbene il governo di Valencia avesse un bel po' di armi e di aerei. Sapevano come fare per non dare le armi alle migliaia di anarchici sul fronte d'Aragona. Avremmo potuto sloggiare i fascisti da Huesca e da Saragozza se avessimo avuto l'aiuto dell'aviazione. Ma gli anarchici creavano collettività in qualsiasi luogo si trovavano ad avanzare, e quei compagni invece preferivano che fosse Franco a mettere le mani su quelle città, piuttosto che la CNT-FAI.
Fenner Brockway, prominente leader laburista in Inghilterra, ha esposto il modo in cui i comunisti stavano trattando quei ragazzi (volontari) nelle Brigate Internazionali. Essi non avrebbero lasciato tornare indietro nessuno di loro a meno che non fossero trafficanti come Sam Scarlett che avrebbe detto qualsiasi cosa gli dicevano di dire, anche che le "cotolette di maiale" erano salsicce.
La CNT-FAI sembra aver perso tutto il potere che aveva nell'esercito. C'era una buona fortezza in cima alla collina che domina Barcellona, catturata ai fascisti dagli anarchici. Quando partii per il fronte era ancora nelle mani della FAI ma quando sono tornato l'avevano presa i comunisti. I lavoratori spagnoli sono contro i comunisti, ma ultimamente non ha più importanza. Stanno facendo il gioco della borghesia e di altri trafficanti. Per quanto riguarda le fabbriche, la CNT è molto potente, assai più di qualsiasi altra organizzazione.
Ecco, compagni lavoratori, è trascorso un giorno da quando ho scritto quanto sopra. La scorsa notte ho avuto mal di testa ed ho dovuto rimandare la fine della lettera. Sto mangiando bene da quando sono in Francia.
Credo che il console britannico stia per mandarmi in Inghilterra o in Canada, Se non fossi un tale rottame mi imbarcherei su una nave inglese per la Spagna. La paga è doppia e le navi non salpano per mancanza di uomini. Sono stato imbarcato su navi inglesi e nessuno dell'equipaggio parlava inglese.
Stamattina ho incontrato altri due uomini delle Brigate Internazionali. Mi dicono che molti canadesi sono in prigione in Spagna.

Con i migliori auguri per l'I.W.W. il sempre vostro

Bill Wood

- da: One Big Union Monthly - Settembre 1937 -

fonte: Kate Sharpley Library

lunedì 28 aprile 2014

Il Partito dello Stato

Amoros

Classe media, partitocrazia e fascismo
di Miguel Amorós

Il tema della partitocrazia non è mai stato studiato seriamente, né dalla sociologia accademica, né dalla critica "antifascista" del parlamentarismo moderno, e questo a prescindere dal fatto che la crisi dei regimi sedicenti democratici ne abbia rivelato la sua realtà specifica  - in quanto sistema autoritario dall'apparenza liberale, dove i partiti, e assai più le loro cupole, si arrogano la rappresentanza della volontà popolare al fine di legittimare la propria azione - ed i suoi eccessi a difesa di interessi particolari. Il fatto non deve stupirci, poiché, come è successo con la burocrazia del partito unico nei regimi stalinisti e fascisti, la classe politica costituitasi nella partitocrazia esiste nella misura in cui occulta la propria esistenza in quanto classe.
Come osserva Debord, "la menzogna ideologica della sua origine non può mai essere rivelata." La sua esistenza come classe dipende dal monopolio dell'ideologia - leninista o fascista in un caso, democratica nell'altro. Se la classe burocratica del capitalismo di Stato nascondeva la propria funzione di classe sfruttatrice, presentandosi come "partito del proletariato" oppure come  "partito della nazione e della razza", la classe partitocratica del capitalismo di Mercato la nasconde esibendosi come "rappresentante di milioni di elettori", e pertanto, se la dittatura burocratica era il "socialismo reale", la rappresentazione partitocratica della sovranità popolare è la "democrazia reale". La prima ha cercato di sostenersi mediante l'abbondanza di spettacoli rituali e sacrifici; la seconda lo ha fatto con abbondanza di alloggi, e di credito per acquistarli. Ora, queste abbondanze sono crollate.
Per comprendere il fenomeno della partitocrazia bisogna risalire alle sue origini storiche, quando avviene la perdita di potere da parte delle oligarchie locali a favore dello Stato. Ad un certo punto dello sviluppo capitalistico - quello in cui la burocratizzazione gioca un ruolo centrale - l'amministrazione partitica si sostituisce al paternalismo dei proprietari terrieri e dell'alta borghesia. Tale fenomeno va inquadrato in quella che sarà poi la degenerazione estrema del parlamentarismo: la concentrazione del capitale, il degrado delle organizzazioni sindacali, l'espansione dello Stato e la professionalizzazione totale della politica; tutti fatti che vanno ad intensificarsi nel secondo dopoguerra. Possiamo anche far riferimento alle fluttuazioni imperialiste, alla guerra fredda, all'"eurocomunismo", ai processi di modernizzazione tecnologica e alla crisi energetica, così come a tanti altri accadimenti che hanno condizionato la fusione della politica, dello Stato e del capitalismo nazionale. Ma la patrimonializzazione dello Stato, da parte di una classe politica, non raggiunge il suo apice, e pertanto non gioca un ruolo cruciale, se non quando viene proclamato, come obiettivo unico, la crescita dell'economia autonoma: cioè a dire, l'abbandono del nazionalismo economico in favore dello sviluppo mondiale del Mercato. A questo punto, la classe politica, appoggiata da un'estesa clientela creata per mezzo dei fondi e degli impieghi pubblici, si converte in parte della classe dominante; in una nuova borghesia, se si vuole. Non è una classe subalterna, e non è neppure tutta classe dirigente (salvo che in Cina); tantomeno si tratta di una classe nazionale. Per la precisione, quando si internazionalizza, diviene un elemento fondamentale nei rapporti di produzione imposti dalla globalizzazione finanziaria. La partitocrazia sopprime la contraddizione fra interesse nazionale ed interesse globale, ricreando dappertutto le medesime condizioni politiche ottimali per l'espansione dell'economia: mentre, da un lato, tesse un'estesa rete clientelare, dall'altro lato disattiva le proteste che emergono dalla società civile, portando la violenza istituzionale laddove fallisce la violenza economica.
L'economia non funziona senza l'ordine, e la partitocrazia se non è proprio l'ordine, è un disordine che funziona a vantaggio dell'economia: è il disordine stabilizzato. Benché in un caso ci troviamo davanti ad un sistema aperto e competitivo che utilizza procedure elettorali e, nell'altro caso, davanti ad un sistema chiuso e rigidamente gerarchizzato dove le nomine non necessitano di legittimazione pubblica, negli ultimi tempi non è rara la comparazione, e anche l'assimilazione, della partitocrazia con il fascismo. Sono entrambe forme autoritarie di governo che sorgono dalle delusioni e dalle sconfitte del proletariato, e dal susseguente processo di massificazione e di declassamento che danno luogo ad una nuova classe media, conformista ed acquiescente. Laddove si nazionalizzano banche fallite, e dove esiste un movimento "plebeo", si sancisce il "diritto al lavoro" ed al "benessere", appoggiandosi a determinati sindacati, o creandoli ad hoc per usarli come interlocutori, poi vi si pone termine non appena la classe operaia viene addomesticata e disciolta. La conversione del proletariato in una fanteria passiva agli ordini dei sindacati istituzionali, senza alcuna coscienza di classe e senza alcun desiderio di trasformazione sociale, è fondamentale perché si possa dare inizio alle controriforme sul lavoro; dopo si renderanno necessari i sacrifici volti ad impoverire la classe media. Fascismo e partitocrazia basano la loro riuscita sulla sottomissione degli antagonismi sociali al mito dello Stato. E dove c'è Stato la libertà è sottomessa alla Ragion di Stato, ovvero non esiste. Per questo la classe politica deve consolidare e conservare il suo status sopprimendo i fondamenti liberali che l'hanno resa possibile. Bisogna impedire che la società civile proletarizzata si costituisca a margine del sistema per contestare degli spazi; per impedirlo, sotto il fascismo - in quanto difesa estremista dell'economia - si ricorre alla brutalizzazione della vita pubblica, mentre, sotto il sistema parlamentare dei partiti - in quanto difesa modernizzante - si usa di preferenza la seduzione consumistica e la corruzione. I due modi, sono risposte costose alla crisi capitalista, in quanto hanno bisogno di sostentare una crescente popolazione improduttiva; cosa che richiede un travaso di risorse che devono essere portate fuori dall'orbita del mercato. Però, mentre il fascismo è una risposta arcaica e dura, la partitocrazia è una risposta più coinvolgente e razionalizzata. Sono modelli di organizzazione politica da grande impresa, ben differenti da quelle dei regimi chiamati "bonapartisti" - facendo riferimento alla dittatura populista stabilita in Francia, dopo una vittoria elettorale, da Luigi Napoleone, così come quella del maresciallo Pétain, sempre in Francia, o del generale Perón, in Argentina, o a Chavez. Partitocrazia e fascismo poggiano su una base sociale concreta: la piccola borghesia, gli impiegati ed il proletariato declassato - per il fascismo - e la classe media dipendente e gli operai sindacalmente ammaestrati - per quanto riguarda la partitocrazia.

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La psicosi collettiva generata dalla mancanza di ideali di classe, la demoralizzazione e la paura della crisi, fanno sì che questa base creda nei miracoli e si disponga a sottomettersi - non senza scalciare un po' - a tutte le misure restrittive. Il disastro della globalizzazione fa sì che il dominio reclami un'economia di guerra. E qui cominciano le differenze: il fascismo si produce in un quadro nazionale, e da qui i suoi piani autarchici, le imprese miste, i lavori pubblici, come soluzioni per la disoccupazione ed il suo nazionalismo espansionista. La partitocrazia invece si propone in un contesto neoliberale, per cui la sua pianificazione nazionale obbedisce alle direttive economiche del capitale internazionale, e la sua politica estera si sottomette alla strategia diplomatico militare del grande Stato gendarme del capitalismo, gli Stati Uniti. Da qui, i suoi piani di infrastrutture, di consorzi misti della metropoli-impresa e l'uso del "benessere" come distribuzione discriminatoria di favori clientelari. Contrariamente a quanto succede col fascismo, nella partitocrazia l'utilizzo dell'apparato burocratico a fini privati viene decentrato; e questo avviene a qualsiasi livello dell'amministrazione, non solo nelle alte sfere ministeriali. La partitocrazia non ha bisogno di statalizzare nessun mezzo di produzione, sebbene possa darsi il caso di intervenire con mezzi finanziari, però sempre più a favore dei fondi di investimento internazionali piuttosto che per salvare l'impresa o la proprietà privata autoctona. Si muove sempre nella sfera che oltrepassa gli interessi statali e locali; sebbene non li annulli, dal momento che sono quelli della sua parrocchia. Certamente si serve della paura come strumento di governo, senza però imporre una politica di terrore, ma una politica di rassegnazione. Per la partitocrazia, i terroristi sono gli altri, i suoi nemici violenti o tranquilli che siano,  contro i quali si impegna a fondo, anche se, in condizioni normali, preferirebbe dissolvere gli antagonismi di classe - invece di criminalizzarli e schiacciarli - sostituendo la compravendita dei leader all'uso della forza e la tecno-vigilanza all'internamento politico. Il fascismo non ammette l'eccezione, mentre la partitocrazia tollera le minoranze ostili fino a quando non diventano problematiche. La comunità illusoria definita dal fascismo della quale bisogna far parte per forza è quella della razza e della nazione che necessita di uno spazio vitale, mentre la comunità partitocratica è la cittadinanza votante che completa le sue necessità spaziali per mezzo del turismo. In virtù dei trattati internazionali che stabiliscono la libera circolazione del capitale, l'espansione dell'economia nazionale non incontra dazi o barriere doganali, potendosi estendere e perfino delocalizzarsi per tutto il mondo, senza necessità di operazioni belliche, salvo quelle richieste per il controllo delle fonti di energia. Di conseguenza, le politiche di "difesa" dei sistemi partitocratici non esauriscono le riserve nazionali in fabbricazione di armamenti, né condannano alla fame la popolazione sottomessa (come avveniva per esempio in Unione Sovietica, e avviene oggi in Corea del Nord). E neppure torturano la popolazione con discorsi e continue manifestazioni di adesione: la pubblicità della merce è assai più efficace dell'ideologia nel mobilitare. Per questo i fascismi ed i totalitarismi hanno quasi sempre finito per fallire e per crollare, vittime delle loro contraddizioni. Frequentemente, sono stati sostituiti da regimi più o meno partitocratici - vale a dire più o meno mafiosi - a seconda della presenza, debole o forte, di meccanismi regolatori e, inversamente, secondo la presenza, debole o forte, del personale del regime precedente. Germania, Svezia e Regno Unito possono esser presi come esempi di partitocrazie autoregolate, e Spagna, Italia e Russia di partitocrazie corrotte. Tale riconversione ha approfittato della sconfitta definitiva del proletariato rivoluzionario, mai compensata da nuovi sviluppi che potessero rianimare la discussione ed il dibattito sociale e rendessero possibile il ritorno di un movimento operaio radicale e autonomo. Possiamo accettare il fatto che la partitocrazia non è fascismo, sebbene gli assomigli in alcuni aspetti - soprattutto nella sua forma bipartitica - però è altrettanto certo che tantomeno sia democrazia, nemmeno "democrazia malata": in essa non esiste separazione dei poteri, né dibattito pubblico, né controllo, né meccanismi formativi di opinione. E' un genere moderno di oligarchia liberista che funziona bene quando non c'è crisi. Le partitocrazie si vedono messe in discussione dalla loro base sociale quando la loro sottomissione al sistema finanziario le pregiudica, ma non fino al punto di appellarsi a procedimenti rivoluzionari, e le iniziative non vanno oltre la riforma elettorale, o al controllo delle banche, o alla domanda di inversione di rotta. Le classi medie scontente non rifiutano il sistema partitocratico, ma semplicemente esigono un partito più in linea con i loro interessi ed uno Stato più keynesiasno che risolva il problema dell'occupazione e del credito; conseguentemente, le loro armi sono la raccolta di firme, la mobilitazione per delega, il voto ed il ricorso in tribunale. Pertanto, le classi medie (ed insieme a loro, il proletariato incosciente, disperso e demoralizzato) non perseguono uno scontro con le istituzioni partitocratiche, ma una maggior apertura di queste ad un fronte di terzi partiti ed associazioni: una - come è stata battezzata - "democrazia partecipativa". Chiedono di essere correttamente rappresentati nel regime. Nonostante ciò, quando le istituzioni smettono di funzionare per eccesso di un indebitamento, frutto della corruzione o di una semplice prolungata cattiva gestione, si produce quella disaffezione circostanziale che, isolando la classe politica - la quale, non dimentichiamolo, include la burocrazia operaia - obbliga la burocrazia ad indurirsi, avvicinandola al fascismo, a causa del timore di una vera opposizione "antisistema". Però il suo istinto di sopravvivenza la porta a cercare di placare il malcontento, non limitandosi alla legislazione punitiva ed alla polizia antisommossa e a far di tutta l'erba un fascio, ma anche facendo uso di altri strumenti: i partiti ed i sindacati alternativi,le coalizioni elettorali, le piattaforme civiche, i movimenti sociali e di quartiere. Così si va a dormire presso un'assemblea di "indignados" e ci si sveglia votando la Sinistra unita o i Verdi. Nel frattempo, la classe politica, il vero Partito dello Stato, salva il suo modus vivendi o, come lo chiamano loro, "la governabilità", grazie ad una complicazione transitoria della mappa politica, e grazie ad una porta dischiusa alla partecipazione "trasversale".

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La partitocrazia si è consolidata grazie all'appoggio delle classi medie, alle quali piace auto-denominarsi "cittadini", ma non corrisponde al governo di tale classe; è, al contrario, il governo assoluto del capitale globalizzato. Essendo troppo frammentate, le classi medie sono incapaci di una politica autonoma e, tanto in epoca di bonaccia quanto in epoca di crisi, si accomodano alla politica liberista fatta dai dirigenti dell'alta borghesia esecutiva. Hanno però da dire qualcosa quando i loro interessi vengono gettati a mare. La protesta cittadina è il loro modo di manifestare insoddisfazione per i politici ed il parlamento. Che nessuno si aspetti però che le risapute rivendicazioni "democratiche" si trasformino in rivendicazioni socialiste. Tantomeno nessuno si aspetti di trovare nelle proposte ecologiste una difesa del territorio. Non si chiedono altro che riforme; ma la partitocrazia non può riformarsi, può solo essere abbattuta, e questo è precisamente ciò che le classi medie non osano fare. Non è nella loro natura. Se si concentrano forze storiche sufficienti a distruggerla - ovvero se la crisi sociale si approfondisce fino alla rottura - una parte della classe media le seguirà, mentre l'altra abbraccerà la dittatura o il fascismo; e poi il comunismo o il socialismo rivoluzionario ce lo giocheremo a doppio o niente. Purtroppo, come dimostra l'assenza di meccanismi popolari di auto-organizzazione, queste forze non esistono. Qualsiasi seria analisi della partitocrazia deve tener conto delle relazioni fra le classi dominanti, inclusa la classe politica, le classi medie e i movimenti contrari al sistema. La classe dirigente deve assicurare il collegamento con le classi medie per mezzo del Partito di Stato, neutralizzando qualsiasi opposizione che si formi direttamente come contestazione sociale. Se questo non avvenisse e le proteste dovessero in rivolte, la classe dominante abbandonerebbe i metodi pacifici e conservatori a favore di tattiche proprie della guerra civile, mettendo a tacere i lamenti cittadinisti e trasformando la classe politica in partito unificato dell'ordine. Quando la classe dominante entra in conflitto con la democrazia parlamentare formale, cerca di uscirne mediante leggi di eccezioni e stato di emergenza, come è sempre avvenuto finora. E' questa la vera funzione della classe politica e della burocrazia operaia nei momenti di crisi acuta. La classe politica - o Partito dello Stato - esiste per rendere non necessario il sempre troppo rischioso ricorso al golpe militare o al fascismo, perché essa basta e avanza come gendarme del capitale mondiale che mantiene le minime apparenze di legittimità parlamentare. Serve ripetere che le classi medie non costituiscono esattamente una classe, ma un aggregato variopinto di frammenti sociali, malleabile e versatile, ragion per cui sono condannate a rimanere fino alla fine uno strumento del capitalismo. Non possono sfuggire all'alleanza d'emergenza con la classe dominante, dal momento che necessitano di una "direzione" e non c'è un altra classe in grado di dargliela. D'altra parte, le classi medie temono più l'anarchia popolare, la violenza delle masse, l'anticapitalismo, lo smantellamento dello Stato, piuttosto che le tasse, i tagli e le privatizzazioni. Sono arrabbiate con i politici, con il parlamento e col governo, però tuttavia credono nei giudici, nella stampa, nei funzionari, nelle ONG, nella sanità e nella pubblica istruzione, nella scienza e nel progresso. Sono sedute su delle sedie instabili, però davanti ad un'alternativa troppo radicale si afferrano ai topos cittadinisti dell'ordine, piuttosto che avventurarsi sulla strada incerta della rivoluzione sociale. Non sarà così in tutti i casi, però è così per la maggioranza dei casi. Almeno all'inizio, quando la classe dominante ed il sistema partitocratico hanno il controllo. Il suo ruolo storico è subalterno, non è mai determinante. Abbiamo preso atto della possibilità che dalla completa decomposizione del capitalismo possa emergere una classe "pericolosa" disposta a cambiare la società da cima a fondo e ad eliminare il regime politico imperante. Questa classe negativa dovrà combattere tanto l'ideologia cittadinista quanto la politica professionale mistificatrice dei partiti. Se questo arriverà a succedere, la questione della classe media si risolverà da sola.

- Miguel Amorós -

domenica 27 aprile 2014

Internauti!!!

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Sul Web 2.0 sei più forte di "Super Mario"
di  Lucie Heymé

Oramai, possiamo viaggiare nel cyberspazio e sulle autostrade del "web2.0", ed essere attivi, contribuire, condividere e collaborare sotto varie forme. La promessa di una vita 2.0, fra blog, forum o social network avrebbe spianato il cammino verso il giardino dell'Eden, oramai accessibile a tutti. Seducente, sulla carta, ma la realtà non è sempre un Gioco di Ruolo:

5% contro il 95%

A guardare meglio e più da vicino questa "libera offerta", si constata che sugli attuali 2.484.915.152 internauti (il 35% della popolazione mondiale) (1), solo l'1% produce dei contenuti sotto varie forme, il 4% partecipa e posta un commento su un qualche articolo ... Quanto al rimanente 95% (vale a dire ancora 2.360.670.000 internauti), be', loro "consumano". C'è di che scoraggiare più di un blogger o più di un animatore di forum, i quali, in media consacrano 2 ore al giorno per i loro blog, fino ad arrivare a 10 ore al giorno, per alcuni stakanovisti. (2)

Ma cosa farebbero, se sapessero che una grande maggioranza di quelli che accedono agli articoli non leggono mai i commenti, o peggio, che alcuni commentatori non leggono affatto gli interventi degli altri. I commenti del "2.0" non toccano perciò che una infinitesima parte degli internauti e non hanno dunque nessuna possibilità di avere un impatto sulle opinioni. Allora, a cosa serve se il solo interesse dei commentatori è solo quello di dare l'opportunità ad un numero molto piccolo di lettori, i quali finiscono per conoscersi e riconoscersi, di discutere fra di loro, come avviene in un club privato?

Nell'antica Roma, il Foro, decorato dalle statue dei personaggi di rilievo. conosceva una vivace affluenza. Gli abitanti ci andavano per celebrare delle cerimonie, per assistere a dei sacrifici, girellavano, compravano diverse cose nei negozi, si ritrovavano per discutere. Senza dubbio, è stato per sottolineare l'analogia che, in informatica, ne è stato ripreso il nome per designare "uno spazio virtuale che permette di discutere liberamente a più soggetti diversi". Gli uomini delle città del XXI secolo possono così, a loro volta, dibattervi. Ma, contrariamente che a Roma, le discussioni non avvengono in diretta, faccia a faccia, da umano a umano. Nicknames ed Avatar, come altrettanti "doppi", agiscono o parlano in vece di "colui che vuole condividere". I videogiochi on-line ed i forum, così come i social network, si risolvono allora in una pratica schizofrenica nella quale la distanza di scambio si apparenta ad un modello di immersione "immaginario" in cui l'utilizzatore oscilla fra il mondo reale (ciò che si vuole realmente dire) e l'universo virtuale (quello che viene prodotto per mezzo dell'universo elettronico). Il videogiocatore ed il membro del forum si trovano in qualche modo in una doppia posizione dove "io" può anche "essere un altro", dove "io scrivo" ciò che la mia "signature" ed il mio Avatar vogliono "dire", dove il simulato prende l'aspetto del reale per "renderlo più vero del naturale".

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Al momento di integrarsi in un gioco on-line, bisogna scegliere il proprio personaggio e la sua rappresentazione. Naturalmente, si può riprendere il proprio nome e mettere una foto di sé stessi, di quando si era bambini, oppure sulla spiaggia. Ci si può anche rifare un'identità, in funzione del personaggio che si vuole incarnare. Quest'inizio di schizofrenia è di già un atto ludico che ricorda il "allora si racconta che ...", il quale punteggiava le nostre storie di quando s'era bambini. Se uno legge di identità come "Bakou", "Ranch Poukan", "Altermondium", "béri-béri" o "révolt36", può immaginare la ginnastica intellettuale che ha portato alla creazione di simili ombre cinesi; così, allo stesso modo, per le immagini provenienti da ogni sorta di pantheon.
Per coloro che hanno la creatività bloccata, la Rete propone dei generatori di nomi di "eroi" (http://www.gunof.net/), oppure di anagrammi. Ugualmente, vengono proposti generatori di Avatar.

- Lucie Heymé -

(1) - Numero di Internauti nel 2014 :
- 81% in America del Nord (86% in Canada, 80% in USA)
- 78% in Europa dell’Ovest (83% in Francia)
- 18% in Africa
- 12% in Asia del Sud

(2) Inchiesta sui Bloggers francofoni nel 2007

fonte: AUTREFUTUR.NET

sabato 26 aprile 2014

Il costo del gratuito

astronauti

Neanche l'Universo parallelo sfugge all'economia
di Robert Kurz

L'era della simulazione - definita culturalmente ed ideologicamente come "postmoderna", ed economicamente come "neoliberista" - sta andando verso una fine vergognosa. Il comportamento ludico in rapporto al mondo si schianta conto la dura realtà materiale. E' a livello di capitale fittizio che il crollo finanziario globale ci ha fatto scomodamente ricordare la realtà rimossa della valorizzazione sostanziale del capitale. Al contrario, l'universo tecnologico parallelo del "virtuale", la variegata Second Life di Internet, sembra condurre una gioiosa esistenza. Su 7 miliardi di persone che abitano il pianeta, appena 1,6 miliardi sono utilizzatori della Rete; ed il gruppo più numeroso di essi (298 milioni) si trova in Cina, ma rappresenta solo il 22% della popolazione locale, Ora, nello spazio pubblico globale, il dibattito su Intenet occupa uno spazio sproporzionato, come se la vita reale della stragrande maggioranza della popolazione mondiale non contasse poi così tanto. Tuttavia con lo scoppio della bolla di Internet all'inizio dell'anno 2000, le illusioni sulla vita autonoma di una Net Economy virtuale sono abbondantemente crollate. In realtà, l'universo tecnologico parallelo rimane intimamente legato alla congiuntura della bolle finanziarie, che lo stanno disintegrando. E' solo in tal modo che si è potuto sviluppare, presso gli "utilizzatori", la mentalità menzognera del "free", come se nel bel mezzo del capitalismo, si potesse avere uno spazio di gratuità. Da parte della sinistra, questo si è tradotto in slogan quali "il download è il comunismo". Stampa, case editrici e settori librari ne sono stati vittime. Ma indipendentemente dalla desertificazione culturale, che si accompagna alla marea dell'insulso gossip dei blogger, la fuga nella Rete ha il suo prezzo. Infatti, la pretesa gratuità del contenuto nello spazio virtuale funziona sull'espansione della pubblicità. I canali privati, con le loro orribili interruzioni pubblicitarie dei programmi, sono dei dilettanti rispetto all'offerta su Internet. Anche su alcuni siti alternativi di sinistra, bisogna cliccare sulla pubblicità delle automobili, su quella dei cosmetici, dell'allungamento del pene e altri oscuri articoli commerciali. Ma questo degrado dei contenuti non mostra solamente la capitolazione nei confronti della costituzione capitalista. Su Internet, niente viene prodotto, ma è fatto tutto oggetto di pubblicità. I fornitori di accesso ad un simile universo parallelo, anche loro, dipendono interamente dalla pubblicità. Quando crolla la vendita dei prodotti per i quali si fa pubblicità, i budget pubblicitari dedicati ad Internet, vengono anch'essi rivisti al ribasso.
La navigazione gratuita richiede una vasta gamma di infrastrutture, che implicano un elevato consumo di energia, e la maggior parte dei paesi non ha i mezzi finanziari per istallarle. Ed è questo il motivo per cui l'espansione della rete ha dei limiti - è probabile che il suo apogeo sia già trascorso. Ma è proprio nei centri capitalisti che il fallimento (ancora latente) delle finanze pubbliche, conseguente alla gestione della crisi, metta in discussione a medio termine l'offerta generalizzata di infrastrutture. Tale offerta può essere elargita, nello stesso modo in cui viene elargita la pubblica sanità - e la cosa vale a maggior ragione per i settori privatizzati. Il "free" rischia di costare molto più caro allorché la connessione non è possibile se non con dei costi elevati. Anche la "Second Life" non è affatto arbitraria, aperta, contingente, ambivalente, ecc., ma anch'essa appartiene anima e corpo al sistema chiuso della logica della valorizzazione. Gli "utilizzatori" impareranno ben presto che è sempre nel mondo materiale del capitalismo che vivono. E questo può solo essere abolito del tutto - o per niente.

- Robert Kurz - su Neues Deutschland del 14 agosto 2009 -

Il diavolo nell’orologio

tempo

Se smetti l'orologio a lancette e ti cingi di un precisissimo cronometro al quarzo perderai di vista le ore e guarderai ai minuti e ai secondi.
La cosa non è solo una banale notazione. Qualcosa è cambiato nella concezione del tempo e non soltanto per l'introduzione dei cronometri da polso. Già all'epoca della prima rivoluzione industriale vi era, nella misura del tempo, uno stretto rapporto tra società e fabbrica. Comparivano allora nei taschini dei borghesi gli orologi, e nel contempo si educavano gli operai alla nascente disciplina di fabbrica mediante la regolamentazione del tempo.
Oggi l'informatica cambia non solo i modi del lavorare, ma anche la concezione del tempo entro cui il lavoro si svolge. Ecco dunque una storia da fare: quella del tempo. La misura precisa del tempo, è il risultato della civiltà mercantile e urbana. «Il campanile - scrive Camporesi - simbolo del rapporto fra l'alto e il basso, fra il vertice e l'orizzontale, punto di sorveglianza e di controllo del lavoro servile, apre una dimensione nuova fra il tempo e la torre, fra il piano e gli strumenti di scansione del tempo-preghiera e del tempo-lavoro». La storia del tempo è dunque intrecciata a quella del lavoro e alle sue forme di dominio.
La sua nozione pessimistica, trasmessaci dal Rinascimento e dal Barocco (il tempo «annienta tutto ciò che esiste»), non è estranea a questa visione moderna del tempo. Nel «tempo del mercante» il giorno subisce una accelerazione, diviene calcolabile. Le ore vengono divise fra ore del giorno e ore della notte, e subentra la paura della morte, come effetto di questa materializzazione del computo delle ore. Il tempo non è più di Dio, e, come scrive Leon Battista Alberti, tre cose appartengono all'uomo: l'anima, il corpo e il tempo. Già nella seconda metà del '300 si parla di «perdita di tempo» e del dovere «di conservare il tempo». Esso è come il talento della parabola evangelica che può andare perso: il tempo è denaro.
Agli albori della rivoluzione industriale i puritani diffondono questa nozione, e R. Baxter nel suo Direttorio Cristiano (1673), un libro diretto a mercanti e commercianti, parla del tempo come moneta. Esistono manuali che incitano i borghesi ad alzarsi presto, a vestirsi in fretta e a usare in ogni dettaglio bene il proprio tempo. L'appello alla disciplina del tempo, insieme alla continenza, alla probità economica e sessuale, si dirige principalmente verso la borghesia, il tesaurizzatore del tempo è — scrive Marx — il «martire del valore di scambio, come santo asceta sulla sommità della colonna metallica... Egli va in estasi pel valore di scambio e perciò non scambia nulla... Nella sua immaginaria smania di piacere illimitato egli rinuncia a tutti i piaceri. Siccome egli vuole soddisfare tutti i bisogni sociali, soddisfa a mala pena il naturale bisogno corporale» (Per la critica dell'economia politica). Questo ritratto corrisponde perfettamente a quello del “borghese anale” di Freud, per cui esiste uno stretto rapporto tra denaro, tempo e merda. Trattenere è infatti il suo Vangelo.
Ma lo spirito capitalista si estende anche al lavoro operaio. E se è anche vero che la determinazione del tempo come denaro precede l'uso generalizzato degli orologi, è l'orologio del padrone che controlla il tempo operaio. Si irreggimenta la settimana lavorativa, imponendo la fine di ritmi irregolari di lavoro e contemporaneamente si impone il lavoro di fabbrica. Attorno al 1770 un tale Wedgwood inventa persino il sistema del cartellino orario.
La borghesia che ha sperimentato su di sé le tecniche di disciplina, le estende al nascente proletariato. Sono le tecniche di individualizzazione, frutto della moderna ragione, attraverso cui la legge del valore tende a produrre ad assoggettare i corpi borghesi ed operai. Il tempo del mercante è divenuto il tempo della produzione. Nella fabbrica si introducono le multe, gli informatori, i campanelli e i tempisti. La prima generazione dei lavoratori di fabbrica è dedicata all'importanza del tempo, la seconda si impegna nella battaglia delle dieci ore, la terza, che ha imparato, a proprie spese, che il tempo è denaro, combatte contro lo straordinario (E. P. Thompson). Il tempo è in rapporto con i gesti, è un tempo meccanico. Del resto la prima macchina è costituita dall'insieme degli operai, dal loro lavorare insieme nella fabbrica. Marx ci spiega che la distinzione tra plus valore assoluto, quello ottenuto dall'allungamento del tempo del pluslavoro (aumento della durata del lavoro) o dall'aumento dell'intensità del lavoro, e plusvalore relativo, quello ottenuto mediante la diminuzione del tempo di lavoro necessario mediante l'aumento della produttività, poggia sulla concezione del tempo. La lotta operaia contro l'allungamento del tempo imporrà l'aumento della produttività. Il capitale affianca perciò alla «macchina operaia» le macchine capitaliste. La resistenza ad esse è già iniziata.
Nel 1826 ad Accrington in Inghilterra, durante una rivolta operaia, la prima cosa che viene distrutta nella fabbrica — ed è una donna a farlo — è l'orologio. Ma il tempo della produzione si estende ovunque, dalla fabbrica alla città, e — come ricorda Walter Benjamin — durante la Comune di Parigi alla sera del primo giorno di battaglia in molti luoghi della città, e indipendentemente, si sparò contro gli orologi delle torri.
Il Capitale, attraverso le macchine, «prolunga la giornata aldilà di ogni limite naturale» (Marx). Con l'epoca imperialista si ha ulteriore punto di svolta; infatti non solo il tempo è denaro ma anche il denaro è tempo. Siamo nell'epoca dell'apertura mondiale del mercati, e il consumo inizia ad acquistare un peso preponderante. C'è un romanzo — come suggerisce in un suo saggio Beniamino Placido  — che schematizza questa formula: Il viaggio intorno al mondo in 80 giorni di Jules Verne. Il protagonista Phileas Fogg, moderno borghese, in lotta contro il tempo per scommessa, acquista tempo attraverso il denaro per giungere prima al traguardo.
Il denaro accumulato compra il tempo, e quest'ultimo, entità astratta, si può proprio acquistare: «il denaro diviene misura del tempo. Borges ha raffigurato il rapporto fra denaro e tempo in un suo racconto, Lo Zahir. All'autore è capitata tra le mani una moneta argentina da venti centesimi, lo Zahir appunto: «insonne, invasato, quasi felice, pensai che nulla è meno materiale del denaro, giacché qualsiasi moneta (una moneta da venti centesimi, ad esempio) è, a rigore, un repertorio di futuri possibili. Il denaro è un ente astratto, ripetei, è tempo futuro. Può essere un pomeriggio in campagna, può essere musica di Brahms, può essere carte geografiche, può essere gioco di scacchi, può essere caffè, può essere le parole di Epitteto, che insegnano il disprezzo dell'oro; è un Proteo più versatile di quello dell'isola di Pharos. È tempo imprevedibile, tempo di Bergson, non tempo rigido dell'islam o del Portico. I deterministi negano che ci sia al mondo un solo fatto possibile, id est un fatto che sia potuto accadere; una moneta simboleggia il libero arbitrio». E il tempo è una mercé, dunque può essere scambiato, sottoposto com'è all'equivalenza generale della forma di denaro. Col taylorismo e il fordismo il cronometro diviene lo strumento principale di produzione e si incorporano quantità sempre più piccole di tempo di lavoro in quantità sempre più grandi di prodotto.
Il tempo si rapporta ai movimenti, i minuti ai centimetri, è l'inizio di una scienza del ritmo; si riunificano così spazio e tempo, e il lavoro diviene pura ripetizione di movimenti ideali in tempi ideali. Non si sorveglia più, ma si modella il corpo operaio attraverso le lancette, il tempo è interiorizzato. Esso diviene ossessivo, e il cronometro, «strumento politico di dominio sul lavoro» (Coriant), segmentando sempre più precisamente unità sempre più piccole, annulla il tempo. Il lavoro è ripetizione infinita, ripetitività senza progressione. Con un paradosso si può dire che il cronometro rintroduce nella fabbrica, che è il cuore della modernità, il tempo ossessivo tipico delle forme arcaiche di civiltà. Alla catena, in una coazione a ripetere, il tempo produce il corpo operaio e insieme è prodotto come mercé. Le macchine, hanno modificato la concezione del tempo, e non esiste un tempo sottratto al dominio del capitale. Chi ha più denaro può acquistare più tempo libero, che è il surrogato moderno del piacere. Il tempo del capitale si estende ovunque tanto che il tempo di non lavoro alimenta esso stesso il suo processo di ampliamento.


- Marco Belpoliti - da “il manifesto”, 26 marzo 1981 -

venerdì 25 aprile 2014

Barricate

Picelli1

Guido Picelli, le battaglie del Che di Parma
di Giancarlo Bocchi

Nell'estate del 1922 ha trentatré anni. È alto, occhi cerulei, luminosi e magnetici, baffi "all'americana". Veste quasi sempre di scuro, portamento elegante, modi garbati. Da ragazzo Guido Picelli non pensava alla rivoluzione, inseguiva sogni d'artista: recitava sui palcoscenici di provincia, girava l'Italia, a fianco di Ermete Zacconi partecipò a uno dei primi film del cinema muto italiano. Ora invece si ritrova capopopolo, uno poco incline ai dibattiti teorici ma che sa combattere con coraggio. Per il pane, il lavoro, la giustizia sociale. E che da tempo ha in testa una parola sola, "unità": "La salvezza del proletariato sta solamente nella valorizzazione delle sue forze effettive, nell'unità" scrive.
Quando arriva il momento di mettere in pratica le sue convinzioni Picelli è pronto. Mussolini ha appena inviato diecimila fascisti alla volta della sua città, Parma, con l'ordine di "metterla a ferro e fuoco". In poco tempo Picelli fa il miracolo. Coalizza forze da sempre antagoniste  -  socialisti, comunisti, anarchici, popolari e repubblicani  -  in un fronte unico, gli "Arditi del popolo". La battaglia durerà cinque giorni, dall'1 al 6 agosto, sarà il più importante episodio di opposizione armata al fascismo prima della Resistenza, dimostrerà che il fascismo si poteva fermare militarmente.
Picelli era un pacifista convinto. Allo scoppio della Grande guerra si arruola come volontario nella Croce Rossa, meritando due medaglie al valore. Ma è proprio l'aver assistito all'"inutile massacro del proletariato" che lo spinge a fare il corso ufficiali all'Accademia di Modena: vuole imparare a combattere per una società più giusta. Tornato a Parma fonda "Le Guardie rosse", una formazione di autodifesa proletaria. Nel 1920 viene imprigionato per aver impedito la partenza di un treno militare, ma nella primavera del 1921 è il popolo a tirarlo fuori di galera: con ventimila preferenze è eletto deputato per il Partito socialista (che poi abbandonerà) e esce dal carcere. Sulla scheda di accettazione, alla voce "impieghi all'epoca dell'elezione", scrive beffardo: "Carcerato".
La notte del primo agosto 1922 le forze squadriste si sono raggruppate alla Stazione di Parma. I carabinieri e le guardie regie sono state ritirate dalle due caserme dell'Oltretorrente, una sorta di via libera ai fascisti. All'alba Picelli decide di mobilitare i suoi. Comandante della spedizione punitiva fascista, almeno diecimila uomini armati con mitragliatrici, bombe e fucili, è Italo Balbo. Picelli può contare su trecento "Arditi", fucili modello 1891, moschetti, pistole. Ma dalla sua parte ha anche, come ricorderà nei suoi scritti, "la popolazione operaia scesa per le strade, impetuosa come le acque di un fiume che straripi, con picconi, badili, spranghe ed ogni sorta di arnesi". Come un Che Guevara d'altri tempi e latitudini, mette in atto un piano di guerriglia urbana mai attuato prima. Fortifica l'Oltretorrente, e i rioni Naviglio e Saffi, con tre-quattro linee di barricate per ogni strada, intervallate da reticolati percorsi da corrente elettrica e da sbarramenti per le autoblindo protetti da mine. Ottavio Pastore, inviato per “L'Ordine Nuovo” di Gramsci, scrive: "Le donne avevano preparato l'acqua e l'olio bollente... perfino delle boccette di vetriolo".
I fascisti attaccano in forze, vengono respinti. Nel rione Naviglio difeso dal vice di Picelli, l'anarchico Antonio Cieri, gli scontri più duri. Colpito da un cecchino cade il più giovane degli Arditi, la vedetta Gino Gazzola, quattordici anni. Anche i comunisti si sono schierati con gli Arditi, ignorando i diktat di Bordiga. E nell'Oltretorrente muore, in mano il suo fuciletto da caccia, Ulisse Corazza, consigliere comunale per il Partito Popolare. Costretti alla fuga, i fascisti non cantano più "Quando in un cantone ci sta un certo Picelli, lo manderemo in Russia, a colpi di bastone". Muti, impauriti. Hanno avuto 39 morti e 150 feriti. Sono allo sbando. "Se Picelli dovesse vincere  -  annotava Balbo nel suo diario  -  i sovversivi di tutta Italia rialzerebbero la testa. Sarebbe dimostrato che armando e organizzando le squadre rosse si neutralizza ogni offensiva fascista".
Il quinto giorno Picelli ha vinto e entra nella leggenda, ma capisce che non c'è tempo per festeggiare. Il nodo politico-militare dell'estate-autunno del 1922 è cruciale. La battaglia da difensiva deve diventare offensiva. Dalle colonne del suo giornale, “L'Ardito del popolo”, lancia appelli all'unità delle forze antifasciste: "Tutti in piedi come un sol uomo, pronti alla riscossa!". Gira il Nord per costituire "l'Esercito rosso", ma il suo piano trova una forte opposizione nei partiti della sinistra. Dopo che Mussolini diventa capo del governo, Picelli scioglie gli Arditi per fondare "I soldati del popolo", un'organizzazione segreta insurrezionale. Viene pedinato, spiato, arrestato. Nel 1923 i fascisti gli tendono un agguato a Parma. Sfugge anche a un complotto per eliminarlo. Il sicario pentito, Vincenzo Tonti, fa i nomi dei mandanti: il generale Agostini, il generale Sacco, il vicequestore Angelucci. E Italo Balbo. Nel 1924 viene rieletto deputato come indipendente nelle liste del Partito comunista: il Primo maggio entra in Parlamento. Lo fa a modo suo, issando sul pennone di Montecitorio una grande bandiera rossa.

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Si avvicina sempre di più a Gramsci. Viaggia per organizzare la struttura insurrezionale clandestina del Partito comunista. In un documento segreto del PCd'I viene indicato, insieme a Fortichiari dell'ufficio "I" del Partito, come responsabile delle questioni militari. L'8 novembre del 1926 viene arrestato insieme a tutti i maggiori leader antifascisti. Dopo cinque anni di confino e di galera nel 1932 fugge in Francia, poi in Belgio, infine Mosca. Qui le sue speranze si scontrano con la dura realtà: viene emarginato, perseguitato, processato in una "cista" sulla base di false e futili accuse. L'Nkvd, la polizia segreta, indaga su di lui e solo grazie all'intervento del potente Dimitri Manuilski, che conosce Picelli come grande combattente antifascista, accantona la pratica. Scampato al gulag Picelli parte alla volta della Spagna per combattere i franchisti. Abbandona i comunisti italiani ed entra in contatto con il Poum, il Partito comunista antistalinista spagnolo. A Barcellona Andreu Nin, leader del Poum ed ex segretario di Trotsky, gli propone il comando di un battaglione. Ma alla fine Picelli accetta, pur consapevole dei rischi di una vendetta stalinista, un comando delle Brigate internazionali.
Il primo gennaio è al comando del Battaglione Garibaldi. Attacca e conquista Mirabueno, la prima vittoria repubblicana sul Fronte di Madrid. La fine arriva pochi giorni dopo, il 5 gennaio 1937, sull'altura del San Cristobal. "La pallottola che l'ha fulminato, l'ha colpito alle spalle, all'altezza del cuore" scrive l'amico Braccialarghe che è andato a recuperare il corpo abbandonato sul posto. A Picelli vengono tributati tre funerali di Stato. A Madrid, Valencia e Barcellona. A quest'ultimo partecipano più di centomila persone. Sulla lapide, che due anni più tardi i franchisti faranno a pezzi insieme al corpo di Picelli, sta scritto: "All'eroe delle barricate di Parma". A un anno dalla sua morte alti ufficiali degli "Internazionali" propongono di conferire alla sua memoria "l'Ordine di Lenin", la più alta onorificenza sovietica. Alcuni funzionari comunisti italiani, però, stilano un rapporto segreto al Comintern sui contatti tra Picelli e il Poum che di fatto blocca tutto. Non sarà l'ultimo tentativo di far cadere nell'oblio la vita straordinaria del "Che" Guevara italiano.

- Giancarlo Bocchi - da “la Repubblica” – edizione di Parma, 22 luglio 2012

giovedì 24 aprile 2014

Deviazioni

bau bimbo

Baudrillard, détournement per eccesso
di Anselm Jappe

Se dovessimo stabilire una classifica dei concetti che vengono attualmente utilizzati nella maniera più superficiale, "società dello spettacolo" si troverebbe sicuramente ai primi posti. Chiunque sia desideroso di far sapere che non si lascia punto ingannare dai media, farà cadere questo termine al giro di una frase, forse senza nemmeno sapere che si tratta del titolo del libro fondamentale di Guy Debord, apparso nel 1967. Però, se esiste un termine in grado di gareggiare con "società dello spettacolo", nel discorso vagamente critico intorno ai danni dei mezzi di comunicazione di massa, questo sarà probabilmente il "simulacro" di Jean Baudrillard, o qualcun altro dei suoi termini. In effetti, questi due autori si trovano spesso associati, in quanto sono stati quelli che hanno emesso le diagnosi più impietose circa l'impatto dei mass media sulla società contemporanea. E, per di più, Baudrillard viene spesso visto come un continuatore di Debord, o Debord come un predecessore di Baudrillard. I concetti centrali di Baudrillard (il "simulacro", la "simulazione", la "iperrealtà", e poco importo al grande pubblico che Baudrillard non li abbia mai usati allo stesso tempo) appaiono come una radicalizzazione del concetto di "società dello spettacolo", o come una sua ripresa più adatta al mondo postmoderno e meno ingombra di terminologia marxista. L'editore inglese "Verso" ha pubblicato "La trasparenza del male"(1990) di Baudrillard in una collana di libri dedicata al "pensiero radicale", insieme ad Adorno, Benjamin, Lukacs, Althusser, Lenin e, per l'appunto, Debord.
Che cos'è questa pretesa continuità? Si può dire, al di là del giudizio che si vuol dare su ciascuno di questi pensatori, che le loro teorie si situano sulla stessa linea? Biograficamente, il confronto è velocemente fatto. Baudrillard, che era anche più vecchio di due anni rispetto a Debord, non è mai stato situazionista ed ha cominciato la sua traiettoria di teorico nel 1968, quando "La società dello spettacolo" e quasi tutti i numeri della rivista "Internazionale Situazionista" erano già stati pubblicati. E' vero che Baudrillard era stato assistente di Henri Lefebvre, all'Università di Nanterre, il quale aveva conosciuto bene i situazionisti, ed aveva sicuramente sentito parlare di loro e forse ne aveva incrociato qualcuno. Sulla rivista "Internazionale Situazionista" e nelle Corrispondenza di Debord, si trova solo qualche riferimento fugace, e naturalmente sprezzante, a Baudrillard. Debord non lo ha più menzionato nei suoi scritti successivi, per lo meno non direttamente. Baudrillard, da parte sua, non ha mai rivendicato una filiazione situazionista, anche se ha detto di esserne stato ispirato.
I loro atteggiamenti, si sa bene, erano radicalmente diversi. Debord era discreto, fino al punto di non apparire quasi mai in pubblico, altero e serioso, mentre Baudrillard, per contestare le forme abituali della vita intellettuale, arrivava fino alla buffoneria - si ricordano le sue conferenze, adornato di lustrini - e faceva delle intere conferenze basandosi su giochi di parole, per esempio fra il "Dasein" di Heidegger e il "Design". Ci possiamo domandare, senza fargli torto, se si prendesse sempre sul serio e se non si facesse perfino gioco del suo pubblico - anche con buone ragioni, da patafisico qual era. Tuttavia, questo suo atteggiamento era altrettanto coerente con la sua teoria, quanto lo era il disprezzo di Debord, con la sua. Non ci rimane perciò che fare un confronto teorico. E' vero che anche questo viene reso difficile dal fatto che Baudrillard rimaneva spesso in una voluta ambiguità ed amava rispondere che non era stato ben capito e che bisogna prendere al "secondo grado" le sue affermazioni più controverse, per esempio quella sulla guerra del Golfo del 1991 che "non avrà mai luogo". Inoltre, è passato attraverso più fasi nella sua riflessione ed ha spesso criticato i concetti che lui stesso aveva prima adoperato, per rigettare qualche anno dopo i termini stessi della sua precedente critica, ecc., di modo che non si sapeva mai troppo bene dove ci si trovasse con lui. Qui, analizziamo soprattutto gli scritti degli anni 1980 e 1990.

bau tanti
Qualche similitudine fra Debord e Baudrillard non manca. Quest'ultimo ha ripreso, soprattutto all'inizio della sua carriera, una parte della critica situazionista dell'urbanistica. Ma è soprattutto il concetto di "spettacolo" a tornare frequentemente nelle sue opere, di solito sotto forma di riferimento fugace: "Se la nostra società non è più quella dello 'spettacolo', come si diceva nel 68, ma quella della cerimonia?"; a volte senza nominarlo direttamente: "Se non si trattasse più di opporre la verità all'illusione, ma di percepire l'illusione generalizzata come più vera del vero? ... E se tutto questo non fosse né entusiasmante né disperante, ma fatale?". In una frase quale: ""Se il pensiero non anticipa il suo detournement per mezzo della sua scrittura, sarà il mondo a farsene carico, con la volgarizzazione, lo spettacolo o la ripetizione", si trovano addirittura due concetti chiave dei situazionisti: "spettacolo" e "detournement", insieme alla volontà, tipicamente situazionista, di eludere il "recupero" da parte del "sistema". Ma, per quanto riguarda l'essenziale, tutto nelle loro teorie diverge ( e si potrebbe arrivare fino a vedere, in Debord, un platonico, e in Baudrillard un anti-platonico. Baudrillard stesso ha ben definito quello che li divideva. Ne "Il delitto perfetto"(1995), ha scritto: "La virtualità è cosa diversa dallo spettacolo, che lascia ancora spazio ad una coscienza critica e ad una demistificazione. L'astrazione dello "spettacolo", anche nei situazionisti, non è mai senz'appello. Mentre la realizzazione incondizionata, essa è sì senz'appello (...) Se possiamo affrontare l'irrealtà del mondo come spettacolo, siamo senza difesa dinanzi all'estrema realtà di questo mondo, davanti a questa perfezione virtuale. Siamo al di là di ogni alienazione". Il concetto di spettacolo proposto da Debord non è una critica dei soli media, ma è un'attualizzazione del concetto di "alienazione" così come è stato elaborato da  Hegel, Feuerbach e Marx. La citazione di Feurbach a proposito della preferenza scandalosa che l'epoca moderna accorda alla copia, a detrimento dell'originale, e che Debord ha posto come epigrafe della Società dello spettacolo, pertanto, contiene il nucleo della teoria di Debord. Il concetto di alienazione comporta quello di "autenticità" e, nella sua scia, quello di "originale", di "essenza, di "verità" e di "sostanza"; in Debord, lo spettacolo si associa costantemente alla "menzogna" e alla "ideologia materializzata". Al contrario, Baudrillard riassume così il suo percorso: "In un primo momento, la simulazione, il passaggio generalizzato al codice ed al valore-segno, viene descritto in termini critici, alla luce (o all'ombra) di una problematica di alienazione. E' ancora, attraverso degli argomenti semiologici, psicoanalitici e sociologici, la società dello spettacolo ad essere in causa, e la sua denuncia. Viene ancora ricercata la sovversione, nella trasgressione delle categorie dell'economia politica: valore d'uso, valore di scambio, utilità, equivalenza. I referenti di tale trasgressione sono la nozione di spesa, in Bataille, e quella di scambio-dono, in Marcel Mauss, il consumo ed il sacrificio, cioè a dire ancora una versione antropologica ed antieconomica, dove la critica marxiana del capitale e della merce si generalizza in una critica antropologica radicale dei postulati di Marx. Ne 'Lo scambio simbolico e la morte' questa critica va al di là dell'economia politica." In questo passaggio, si trovano pressoché tutti i concetti che Baudrillard ha voluto abbandonare. Ora, a quel tempo, non era certo il solo a voler prendere le distanze - o a voler superare - il pensiero critico che aveva preparato il maggio 1968. Quel che è invece assai singolare nel suo percorso, è l'essere riuscito a rappresentare questo abbandono come la radicalizzazione di una visione critica del nostro mondo, di modo che il pensiero critico e tutte le idee di sovversione, di disalienazione, di rivoluzione e di rovesciamento del mondo capovolto, appaiano esse stesse come naif e come ancora facenti parte dello stesso universo che pretendevano di rovesciare. In "Dimenticare Foucault" del 1977, Baudrillard rimprovera a Marx, come a Freud, a Deleuze, come a Foucault, di non aver avanzato altro che delle "critiche parziali". Anche se poi, più tardi, ha lasciato del tutto cadere il pensiero critico, come tale, si ha l'impressione che rimanga sempre in una prospettiva critica, almeno nel senso di fare delle rivelazioni terribili sulla situazione che viviamo, e di non farsi ingannare né dai suoi apologeti né dai suoi avversari dichiarati. Il suo rifiuto di continuare la tradizione dell'Illuminismo ne ha mantenuto, tuttavia, degli atteggiamenti tipici: la distruzione continua degli idoli e la pretesa di enunciare la grande Verità che la verità non esiste affatto, e di rivelare il vero senso della vana ricerca di senso.

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La bestia nera di Baudrillard - come di Deleuze e dei numerosi altri rappresentanti di quello che molto inopportunamente è stato chiamato il "pensiero del 68" - è sempre stata la "dialettica": "Si apprezza la radicalità di quei movimenti [i situazionisti] e la loro negazione del sistema. Allo stesso tempo, i situazionisti stanno ancora dentro una forma di dialettica, parossistica certo, ma comunque di dialettica. Un'utopia quasi idealista. Ma essi cercano ancora di affrontare il sistema, di attaccarlo alle spalle, di situarsi all'esterno. Il concetto di rivoluzione esiste ancora (...) A poco a poco, l'alienazione per mezzo dello "spettacolo" e la sua denuncia sono divenuti una vulgata, volgare da un certo punto di vista. E' questa una delle ragioni per cui credo che oggi vada superata questo concetto di spettacolo. Inoltre, mi sono del tutto allontanato da quei trucchi situazionisti."
Così, il passaggio dalla critica della "società dello spettacolo" all'analisi della "società dei simulacri - titolo di un libro pubblicato nel 1979 da Mario Perniola, autore dapprima influenzato dai situazionisti, e poi da Baudrillard - sembra un approfondimento, e non un abbandono. Il rapporto di Baudrillard con Debord può allora essere descritto come un "detournement per eccesso" - è questa la definizione che dà lo stesso Baudrillard della sua "strategia", che vuole come oposta alla dialettica. Se avessimo rimproverato a Baudrillard d'avere abbandonato i concetti di verità, autenticità, alienazione e disalienazione cari a Debord, egli avrebbe ammesso di averlo fatto volentieri. E se avessimo criticato Debord per essere rimasto aggrappato a questi stessi concetti nell'epoca in cui quasi tutti i pensatori hanno voluto sbarazzarsene, egli ne avrebbe ugualmente convenuto. Infine, non si può nemmeno obiettare a Baudrillard di essere un falso erede di Debord, visto che non ha mai stabilito questa filiazione. Bisogna perciò domandarsi, piuttosto, perché si sia potuto credere - soprattutto nel mondo anglosassone - a tale filiazione, e che cosa ci possa insegnare questo errore a proposito del passaggio da un'epoca all'altra.
Il "nuovo spirito del capitalismo", messo in campo dopo il 1968, aveva bisogno di disinnescare gli aspetti più radicali della critica sociale apparsa negli anni sessanta, salvaguardandone però i suoi aspetti "modernizzatori". Baudrillard è servito - che lui lo abbia voluto o meno - ad un bisogno sociale ben preciso della sua epoca: fornire un'apparenza di pensiero radicale che offrisse soprattutto la convinzione che "non si lasciasse ingannare", d'aver capito il gioco, di non farsi imbrogliare, di non "credere", ma che non portasse ad alcuna conseguenza, nel suo essere apertamente nichilista e senza apertura verso una pratica possibile. Il reale non contiene più il germe del suo superamento: Baudrillard lo ripete per tutta la sua opera. Questo pensiero permette perciò ai suoi consumatori una reale carriera nella società dei media e del consumo, o per lo meno un'integrazione in essa, insieme ad un sentimento di superiorità intellettuale sugli abbrutiti che consumano e guardano i media prendendoli al "primo grado". Le teorie del simulacro, della simulazione, del virtuale e dell'iperrealtà non sono solo dei modi intellettuali, ma una "riflesso" fedele della realtà materiale banale che questo genere di teorie credono di aver evacuato. La ragione del successo di Baudrillard risiede giustamente nella sua abilità a mantenere sempre un atteggiamento mediamente critico, mediamente ammirativo di quello che descrive. Una frase tipica come :"Non siamo più alienati nel cuore di una realtà conflittuale, ma siamo espulsi da una realtà definitiva e non contraddittoria. Espropriati dei nostri desideri attraverso la loro stessa realizzazione", esprime una giusta constatazione - e di un genere che spesso era sfuggito alla critica marxista tradizionale, nel caso presente l'integrazione dei "desideri" dentro il "nuovo spirito del capitalismo" - e allo stesso tempo proclama l'impossibilità di opporsi a questa situazione deplorevole a causa della scomparsa di tutto quello che poteva costituire un "di fuori", o una "contraddizione interna". Per Baudrillard, non esiste alcuna "vita reale" che possa permettere di denunciare lo spettacolo come pura illusione e, di conseguenza, di combatterlo: "Denunciando la loro spettralità [quella delle tecniche virtuali], comprese quelle dei media, si lascia intendere che ci sarebbe da qualche parte una forma originale dell'esistenza vissuta. Mentre invece il tasso di realtà si abbassa di giorno in giorno, e lo stesso medium trapassa mella vita, divenuta rituale ordinario della trasparenza."

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L'accoglienza assai favorevole che gli stessi media ed il mondo intellettuale hanno riservato al pensiero di Baudrillard, malgrado il suo carattere apparentemente poco consensuale, si spiega perciò a partire dalla funzione che gli si è voluto attribuire: parlare il linguaggio della critica radicale in un modo che sembri estremo ed audace, ma che veicoli dei contenuti del tutto opposti. La nostra epoca preferisce la copia all'originale, dice Feuerbach nella citazione già menzionata che ne fa Debord, e questo è vero anche per quel che concerne la stessa critica radicale. Passare dall'affermazione di Debord, per cui lo spettacolo è il trionfo dell'apparenza e della visione e dove l'immagine sostituisce la realtà, all'affermazione che tutto non è altro che spettacolo e questo è ancora più totalitario, in quanto ha spinto i suoi crimini fino all'"assassinio" della realtà stessa, sembra terribilmente lucido e disillusivo, e fa passare dei polemici come i situazionisti per dei timidi ingenuamente ottimisti. Così, avendo tutta l'aria di andare un po' più lontano dell'analisi di Debord e di seguire la rapida evoluzione della "società dello spettacolo", l'interpretazione di Baudrillard procede verso una specie di esagerazione parodistica che è il contrario delle intenzioni situazioniste. Per Debord, la realtà ed il valore d'uso costituiscono sempre il limite contro il quale vanno a sbattere i deliri dello spettacolo; arrivare a dire che la realtà ed il valore d'uso non esistono più, non è un passo in avanti sulla stessa strada, ma una "deviazione" per eccesso.
Per Debord, lo spettacolo al primo grado, ovvero i massa media, non è che un effetto della struttura spettacolare di tutta la società delle merci in un momento dato del suo sviluppo. Baudrillard, al contrario, non tenta più di ricondurre a dei fattoti storici identificabili, i fenomeni che descrive. Per lui, il valore d'uso non è più il limite del valore di scambio. La riduzione della merce a puro segno, operata da Baudrillard nei suoi primi scritti dove ha voluto "superare" Marx, costituisce la base delle sue teorie future. La critica della produzione in nome del consumo esprime alla fine il sogno di un consumo senza i limiti che la produzione s'impone, e dunque un capitalismo che può andare oltre qualsiasi sostanza: questo dispone necessariamente di una quantità determinata ed è, conseguentemente, esauribile, costituendo così un limite allo sviluppo della società delle merci che si vuole infinita.
La pretesa scomparsa della realtà, presentata come una rivelazione terrificante, è in verità quanto di più rassicurante possa esserci in un'epoca di crisi. Perché il termine "simulazione" si è talmente diffuso? Una delle esperienze fondamentali degli anni 1980 e 1990, è stata l'espansione inedita del capitale finanziario, quello che Marx chiamava il "capitale fittizio". La sostanza reale del valore, dunque la forza lavoro impiegata secondo gli standard di produttività del mercato mondiale e che riproduce in tal modo il capitale investito, aveva invece la tendenza a ridursi. La rapida successione di boom e di crack, a partire dal 1987, ne è stato il segnale più evidente. La deriva finanziaria del capitalismo ha influenzato profondamente la psicologia collettiva e le forme di vita di quest'epoca: soprattutto negli strati sociali legati alle nuove tecnologie e ai mestieri per così dire "creativi" - ed è dunque in tali strati che si può collocare la maggioranza dei lettori di Baudrillard - si era sparsa un'euforia che tuttavia non riusciva a farci dimenticare che essa si fondava su delle bolle speculative e sulla simulazione, e che si viveva tutti i giorni sull'orlo dell'abisso. La "de-realizzazione" così spesso evocata nel pensiero post-moderno aveva quindi una base ben "reale". Tutti i discorsi sulla virtualizzazione non servivano a dimostrare che si potesse continuare a camminare nel vuoto. Se il carattere tautologico dello spettacolo, denunciato da Debord, esprime l'aspetto automatico dell'economia delle merci, la quale, sottratta ad ogni controllo, va alla sua folle deriva e ci dà effettivamente molto da temere. Al contrario, i segni non rimandano che ad altri segni, e questi ad altri segni ancora; se non c'è mai l'originale della copia infedele, se non c'è un valore reale che deve sostenere la montagna di capitale fittizio, allora non c'è alcun rischio di poter essere recuperati dalla realtà. Si può perfino dare un giudizio morale radicalmente negativo di questo stato di cose, ma tutto questo resta impotente, dal momento che nessuna contraddizione nella sfera della produzione riuscirà più a scuotere questo mondo autistico.
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Tuttavia, è nella produzione, e nella trasformazione continua del lavoro in capitale e del capitale in lavoro, su larga scala, che si trova questa "realtà" che ci ha portato alla crisi economica, ecologica ed energetica permanente. Il sistema si mantiene in vita solo grazie ad una simulazione perpetua. I discorsi sofistici sulla scomparsa della realtà, alla fine rimandano al vecchio sogno, della società delle merci, di riuscire a liberarsi completamente dal valore d'uso e del limite che questo rappresenta per la crescita illimitata del valore. E' la speranza - molto attuale - che il capitale finanziario possa continuare a crescere, anche se è scomparsa quasi tutta la sua base nella valorizzazione reale. Qui, non si tratta più di decidere se una tale scomparsa del valore d'uso, proclamata sia da Baudrillard che dai postmoderni, sia positiva o meno: una tale scomparsa è semplicemente del tutto impossibile. Evidentemente, c'è un legame fra la diminuzione della "sostanza del valore" - il lavoro "produttivo" in senso capitalista, quindi il lavoro che produce capitale - negli ultimi quarant'anni, e la negazione del concetto di "sostanza" nel pensiero postmoderno e decostruttivista. Inoltre, questo parallelismo fra la simulazione postmoderna e la simulazione economica è stato tracciato in modo significativo dallo stesso Baudrillard quando, nel 1976, ha paragonato l'evanescenza del soggetto, divenuto "fluttuante", in riferimento all'abolizione del sistema monetario aureo, avvenuto essenzialmente nel 1973. Naturalmente, egli vede solo una tappa nel processo di "virtualizzazione" che potrebbe continuare per sempre, e non il segnale di un'erosione progressiva della società delle merci che incontra, prima o poi, i suoi propri limiti. Nella stessa opera, afferma che "è l'altra strada del valore quella che conta, quella della relatività totale, della commutazione generale, combinatoria, della simulazione. Simulazione, nel senso che tutti i segni si scambiano oramai fra di loro, e senza scambiarsi più con li reale": nessun termine ha un valore intrinseco, ma il valore è il risultato della sua relazione con gli altri termini. Questa affermazione è meno originale di quanto Baudrillard sembra credere. Si trova in linea con la teoria economica dominante da lungo tempo nella scienza borghese: la teoria "marginalista" sostiene che il valore non è una sostanza, creata dall'attività umana, e limitato, ma è una semplice convenzione sociale che fa sì che tutto possa avere un "valore" e che ciascun valore è determinato solamente dagli altri valori. Inoltre, la maggior parte dei marxisti hanno da tempo accettato, e quasi senza accorgersene, tale approccio relativistico che elimina, soprattutto, ogni possibilità di pensare la crisi strutturale del sistema delle merci. Il paradosso - probabilmente intenzionale - di Baudrillard risiede nel fatto che l'abbandono di una prospettiva critica non gli impedisce di conservare uno sguardo, a volte molto acuto, su ciò che descrive - uno sguardo che è difficile non definire "critico"- insieme ad una certa tonalità nostalgica. E' tale combinazione, fra una descrizione spesso considerata come "apocalittica" e l'asserzione che il movimento storico stesso ha sperperato qualsiasi possibilità di influenzare il corso degli eventi, che gli ha valso la qualifica di "nichilista". Baudrillard ha il merito di aver parlato di una "mutazione profonda ed originale delle forme di percezione del piacere", che i sociologhi "materialisti" hanno spesso negato. Già nel 1987, si trovano delle parole assai forti sulla "scomparsa dell'Altro" a causa della comunicazione; sulla "disincarnazione" legata al narcisismo; sull'annullamento dello spazio, che rende le persone prive di quella che una volta era l'immaginazione contadina; sulla vita dentro una bolla asettica; e sull'handicap come immagine della disumanizzazione futura. Egli rideva della presunta scoperta di un "gene dell'angoscia" - diventata oggi moneta corrente della superstizione scientifica - e si domandava giustamente se saremmo nati sempre con un ombelico quando la fecondazione artificiale ci avrà fatto tornare alla condizione di un Adamo non nato da donna. Quando scrive: "E se oggi possiamo fabbricare un clone di un attore famoso, da far recitare al suo posto, al posto di quello che è diventato da molto tempo, senza saperlo, la sua propria replica, il suo proprio clone prima che lo clonassero", parla con accenti debordiani. La sua denuncia dell'arte contemporanea, espressa nel 1996, avrebbe potuto essere di Debord, mentre il suo insistere su "la trasparenza e l'oscenità dell'universo della comunicazione che sorpassa, di gran lunga, trasparenza e oscenità, ancora relative, dell'universo delle merci" sembra perfino più prossimo alla realtà dell'insistere di Debord sul "segreto". Baudrillard ha ben descritto come l'odio vuoto, "disincarnato", come lo chiama lui, ha cominciato a sostituire le rivendicazioni sociali tradizionali. Il suo sguardo sulle "realtà virtuali", ben prima della nascita di Internet, è essenzialmente critico. Infine, non vede affatto il mondo come dominato da un capitalismo in buona salute, e pronostica un'implosione, piuttosto che un'esplosione. Lega la scomparsa della realtà al divenire superfluo della forza lavoro, cosa che apre dei percorsi di riflessione molto interessanti. E quando non spinge la sua descrizione della scomparsa di ogni realtà a dei livelli che si situano tra il parossistico ed il parodico, si può anche leggere una presa di coscienza della crisi assai reale della società capitalista, nonché dei tentativi tradizionali di spiegarla: secondo lui, il sistema "ha perduto tutti i suoi nemici, ma soprattutto le sue finalità (...) Se il sistema rimuove le avversità, finirà per rimanere alle prese con sé stesso. Non potrà altro che auto-divorarsi. (...) Il sistema è diversamente catastrofico rispetto agli anni '60. Il sistema ha evoluto molto più velocemente del pensiero critico. Noi, poveri intellettuali, siamo stati ripresi. Constato che se certe forme di critica permangono, sono senza effetto. La critica si è integrata al sistema."
Possiamo solo deplorare il fatto che, Baudrillard, invece di approfondire simili intuizioni, abbia preferito seguire la propria inclinazione al paradosso e al funambolismo, sprofondando in un manierismo di stile e di contenuto che, spesso, infastidisce. Tuttavia, per non aver giocato al grande pensatore che annuncia delle rivoluzioni senza precedenti, né aver cercato una brillante carriera universitaria, né essere stato il militante di tutte le buone cause, ed aver ancor meno voluto le due cose insieme, ed essersi relegato al ruolo di "predicatore apocalittico" senza mitigare la negatività delle sue analisi, si è distinto favorevolmente dalla grande maggioranza dei suoi colleghi.
Appare piuttosto come il bambino malizioso che semina confusione fra gli adulti seri e convinti delle loro transazioni. In tal senso, un lettore di Debord può conservare di Baudrillard, malgrado tutti i disaccordi, un ricordo migliore rispetto a quello di altri pensatori della nostra epoca.

- Anselm Jappe - "Revue Ligne" n°31, febbraio 2010 -

fonte: Critique Radicale de la Valeur

mercoledì 23 aprile 2014

Deflazione

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Deflazione ed inflazione
di Robert Kurz

Anche se di recente, l'inflazione sembrava essere fuori controllo, ora questo fantasma è stato esorcizzato, nonostante il tasso del 2,6% (in Germania), per il 2008, sia stato il più alto degli ultimi 14 anni. Adesso, al contrario, la minaccia è la deflazione, la crollo dei prezzi a causa di una diminuzione delle vendite. Le paure per l'inflazione e quelle per la deflazione si susseguono ad un ritmo sempre più veloce, ad intervalli sempre più brevi. L'aumento o la diminuzione dei prezzi è semplicemente un segnale esterno. Un movimento dei prezzi in entrambe le direzioni, è causato anche dall'oscillazione abituale nel rapporto fra offerta e domanda. Le modalità dell'inflazione della deflazione si differenziano secondo due aspetti. Da una parte, non si tratta di una variazione di prezzi, nel corso di un periodo di tempo, in uno o più settori dati, bensì di una variazione globale simultanea. Da un'altra parte, la dimensione delle oscillazioni, verso l'alto o verso il basso, vanno anche oltre un mero cambiamento della situazione del mercato.
In effetti, l'inflazione e la deflazione sono solamente manifestazioni distinte di una svalorizzazione del capitale totale, o delle sue diverse fasi. In questo modo, dall'inizio della terza rivoluzione industriale (la microelettronica) la forza lavoro, in quanto parte integrante del capitale, si è svalorizzata in tutto il mondo, portando ad una deflazione graduale dei salari reali. Tale situazione può verificarsi solo come vantaggio per la valorizzazione del capitale a partire da un punto di vista imprenditoriale medio. Per l'insieme del sistema, tuttavia, la caduta dei salari è fatale, in quanto elimina il potere di acquisto. Parallelamente, la simulazione del potere di acquisto per mezzo delle bolle finanziarie ha portato, da un altro lato, ad un'inflazione dei titoli di credito, senza più alcuna copertura reale. L'unica conseguenza non poteva essere altro che uno shock deflazionistico che portasse alla svalutazione di questo capitale monetario fittizio, in cui sono stati bruciati miglia di milioni di dollari e di euro. Con il sempre crescente aumento della produttività, la deflazione dei salari e delle rendite di proprietà ci hanno mostrato l'esistenza di un enorme eccesso di produzione mondiale di beni, di cui prima c'erano solo indizi. Il risultato è stato la rapida svalutazione del capitale reale, del capitale produttivo (ripartizione dei macchinari, chiusura delle fabbriche), del capitale-merce (deprezzamento e distruzione dei prodotti non vendibili). Riduzione drastica, sconti rischiosi e crediti gratuiti ai clienti per mezzo della deflazione dei prezzi della merce (per esempio, nell'industria automobilistica) sono solo tentativi temporanei di rimandare questo tipo di svalutazione.
Ora che gli Stati si stanno muovendo direttamente, stampando cartamoneta per assorbire il disastro della deflazione, si prepara una nuova grande esplosione inflattiva, che andrà a svalorizzare radicalmente il denaro in generale, in quanto "mezzo per vivere" capitalista universale. La causa profonda di questo è che la terza rivoluzione industriale ha svalorizzato, in una misura che non ha precedenti, la "sostanza lavoro" in tutte le fasi del "valore". Pertanto, il capitale mondiale marcia verso una situazione in cui inflazione e deflazione non smetteranno di darsi il cambio, se non quando tutte le forme di valore si svalorizzeranno ugualmente e simultaneamente: forza lavoro, capitale industriale, capitale-merce, capitale di credito e denaro, come mezzo generale.
L'umanità affronta la questione se rinunciare a vivere volontariamente, a causa della mancanza di possibilità di valorizzazione, oppure se mettere fine al "modo di produzione basato sul valore" (Marx).

- Robert Kurz - Pubblicato su Neues Deutschland, il 02/01/2009 -

martedì 22 aprile 2014

comete

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Gustav Landauer, rivoluzionario romantico
di Michael Löwy

Il socialista libertario Gustav Landauer è un personaggio singolare nel panorama del pensiero rivoluzionario moderno: e rari sono quelli che hanno espresso quanto lui, in tutta la sua forza sovversiva, la dimensione romantica della rivoluzione.
Che cos'è il romanticismo? Contrariamente alla doxa corrente, non può essere ridotto ad una scuola letteraria del XIX secolo, oppure ad una reazione tradizionalista contro la Rivoluzione francese - due proposizioni che possono essere ritrovati in un numero incalcolabile di opere scritte da eminenti specialisti della storia letteraria e della storia delle idee politiche. Si tratta piuttosto di una forma di sensibilità che irriga tutti i campi della cultura, di una visione del mondo che si estende dalla seconda metà del XVIII secolo fino ai nostri giorni, una cometa, il cui "nucleo" incandescente è la rivolta contro la civilizzazione industriale/capitalista moderna, in nome di alcuni valori sociali o culturali del passato. Nostalgico di un paradiso perduto - reale o immaginario - il romanticismo si oppone, con l'energia melanconica della disperazione, allo spirito quantificante dell'universo borghese, alla reificazione della merce, alla piattezza utilitarista e, soprattutto, al disincantamento del mondo. Quest'idealizzazione del passato porta sovente a delle posizioni tradizionaliste, conservatrici, persino reazionarie; ma questo non è sempre il caso. Esiste anche, nella storia del romanticismo, una corrente rivoluzionaria, che non comporta affatto un ritorno al passato, ma una deviazione, per mezzo del passato, verso un nuovo avvenire. Nel romanticismo rivoluzionario, cui appartengono a pieno titolo sia Jean-Jacques Rousseau che William Blake, William Morris e Gustav Landauer, la nostalgia delle epoche pre-capitaliste viene investito nella speranza utopica di una società libera ed egualitaria.

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Nato il 7 aprile 1870 in una famiglia borghese ebrea nel sud-ovest della Germania, scrittore, filosofo, critico letterario, amico di Martin Buber e di Kropotkin, redattore della rivista libertaria Der Sozialist (1909-1915), Gustav Landauer è stato un anarchico militante. Nell'aprile del 1919, diverrà commissario del popolo alla Cultura nel corso dell'effimera Repubblica dei Consigli di Baviera, e verrà assassinato dall'esercito il 2 maggio del 1919, dopo la sconfitta della rivoluzione, a Monaco. La sua opera, profondamente originale, è stata definita da alcuni moderni ricercatori come "un messianismo ebraico a carattere anarchico". Landauer è innanzitutto un romantico rivoluzionario ed è a partire da questa premessa che si può spiegare tanto il suo messianismo quanto la sua utopia libertaria. In realtà, il romanticismo rivoluzionario si manifesta nella sua visione del mondo in modo pressoché "ideal-tipico": difficilmente si può immaginare un altro autore in cui passato ed avvenire, conservatorismo e rivoluzione, siano così strettamente intrecciati, e così intimamente articolati. Se esiste un modello compiuto del pensiero restauratore/utopico nell'universo culturale del XX secolo, è nell'opera di Landauer che lo si può trovare.
La sua opera è sorprendente, tanto per la sua ricchezza quanto per la sua unità spirituale. Oltre "La Rivoluzione", pubblicato nel 1907 in una collezione di monografie sociologiche edite da Martini Buber, i suoi scritti principali sono "L'appello al Socialismo", del 1911 (un'opera di filosofia sociale libertaria), uno studio su Shakespeare in due volumi, che è diventato un classico della critica letteraria tedesca, una raccolta di articoli contro la guerra, e due raccolte di articoli letterari e politici pubblicati sempre da Buber dopo la morte del suo amico: "L'Uomo in divenire" e "Inizio". A questi ci sarebbe da aggiungere anche un romanzo, "Il predicatore di morte" (1893), una raccolta di racconti, "Il potere ed i poteri" (1903), un'opera filosofica, "Scetticismo e Mistica" (1903), una collezione di lettere sulla Rivoluzione francese, diverse traduzioni (Maestro Eckhardt, Etienne de la Boétie, Proudhon, Kropotkin) e due volumi di corrispondenze.
In un articolo autobiografico, scritto nel 1913, Landauer descrive l'atmosfera della sua giovinezza come una rivolta contro l'ambiente familiare, come lo "scontro incessante di una nostalgia romantica contro le strette barriere del filisteismo". Cosa significa per lui il romanticismo? Fra le sue carte, presso l'Archivio Landauer di Gerusalemme. c'è una nota che spiega le sue idee circa questo soggetto: il romanticismo non va compreso né come "reazione politica (Chateaubriand)" o "medievalismo tedesco-patriottico", né come "scuola letteraria". Quello che hanno in comune il Romanticismo, Goethe, Schiller, Kant, Fichte e la Rivoluzione francese, è il fatto che sono tutti degli anti-filistei - termine, "filisteo", che, nel linguaggio culturale del XIX secolo, designa la ristrettezza, la meschinità e la volgarità borghese. Oltre ai poeti romantici - soprattutto Hölderlin, che egli paragona, in una conferenza del 1916, ai profeti biblici! - è a Nietzsche che più frequentemente si richiama nei suoi scritti. Ma, contrariamente all'autore di Zarathustra e alla maggior parte degli altri critici romantici della civiltà moderna, il suo orientamento è fin dall'inizio socialista e libertario. Questo perché si identifica con Rousseau, Tolstoj e Strindbergh, nei quali ritrova la fusione armoniosa tra "rivoluzione e romanticismo, purezza e fermentazione, santità e follia ..."

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La filosofia romantica della storia di Landauer viene espressa nl modo più sorprendente nel saggio "La Rivoluzione" (1907). E' un'opera affascinante, anche se il suo argomentare è a volte confuso ed il suo progetto rivoluzionario rimane troppo vago. Contrariamente ai socialisti della II Internazionale, Landauer non crede affatto al progresso economico, o meglio, piuttosto, ritiene che nel quadro del capitalismo i progressi tecnici si ritorcano contro gli sfruttati. A suo parere "tutti i progressi economici e tecnici, con l'ampiezza che hanno raggiunto, sono stati integrati in un sistema di disorganizzazione sociale che fa sì che ciascun miglioramento dei mezzi dei lavori e ciascuna facilitazione del lavoro aggravi la situazione di coloro che lavorano". Ma la sua principale critica al "progresso", alla modernità e all'era industriale, è che essi hanno portato al dominio assoluto del "vero Anticristo", del "nemico mortale di quello che era stato il vero cristianesimo o lo spirito della vita": lo Stato moderno. Landauer appartiene - come William Morris, Ernst Bloch ed altri - ad una corrente all'interno del romanticismo che si potrebbe definire come gotico-rivoluzionaria, nella misura in cui è affascinata dalla cultura e dalla società (cattolica) medievale, dove impianta una parte del suo progetto socialista. In contraddizione totale con la dottrina del progresso, dominante in seno al movimento operaio e socialista della sua epoca, per il quale il Medioevo non è altro che un'epoca di superstizione ed oscurantismo, egli considera l'universo medievale cristiano come una "summa culturale", un periodo di sviluppo e di pienezza, grazie all'esistenza di una società fondata sul principio della stratificazione: un insieme formato da molteplici strutture sociali indipendenti - gilde, corporazioni, leghe, confraternite, cooperative, chiese, parrocchie - che si associano liberamente. In questo quadro - un po' idealizzato, va detto - della società medievale, uno dei tratti più importanti, per il filosofo libertario, è stata l'assenza di uno Stato onnipotente, il cui posto era occupato dalla società, da una "società di società". Non nega, certamente, gli aspetti oscurantisti, ma si sforza di relativizzarli: "Se mi si obietta che c'è stata anche questa e quella forma di feudalesimo, di clericalismo, d'inquisizione, qui e là, io non posso rispondere altro che lo so bene, eppure ..." L'essenziale ai suoi occhi era l'alto grado di civilizzazione del mondo gotico, grazie alla diversità delle sue strutture e alla sua unità: un solo spirito abitava gli individui ed assegnava loro degli scopi supremi.
Invece, tutta l'era moderna che si apre con il XVI secolo è, ai suoi occhi, "un periodo di decadenza e quindi di transizione", un periodo di "rottura di quel fascino unificante che riempie la vita sociale", in breve, un'epoca in cui sparisce lo spirito a vantaggio dell'autorità e dello Stato. In questo passaggio nefasto, egli attribuisce un ruolo chiave a Martin Lutero, che considera come uno dei responsabili principali della "separazione della vita dalla fede, e della sostituzione dello spirito con la violenza organizzata"; non gli perdona di aver preso le parti dei signori contro i contadini insorti e di aver consacrato "il principio del cesarismo", l'autorità intoccabile dei principi. Detto tra parentesi, questa viva antipatia per il fondatore della Riforma era condivisa da molti socialisti tedeschi contemporanei, da Karl Kautsky ad Ernst Bloch.
In questo lungo tragitto che va dal declino dello spirito comune cristiano (medievale) allo sviluppo del nuovo spirito comune dell'avvenire socialista, le rivoluzioni sono il solo momento di autenticità, il solo vero "bagno di spirito": "Senza questa rigenerazione temporanea, non potremmo continuare a vivere, saremmo condannati a soccombere." Il precursore delle rivoluzioni anti-autoritarie, secondo Landauer, è Petr Chelcicky, profeta hussita del XIV secolo, "un anarchico cristiano in anticipo sui suoi tempi", che aveva individuato nella Chiesa e nello Stato "i nemici mortali di tutta la vita cristiana". La prima, e la più importante, rivoluzione moderna è la guerra dei contadini di Thomas Münzer e degli anabattisti, i quali "avevano tentato un'ultima volta, e per molto tempo, di cambiare la vita, tutta la vita", e di "stabilire quel che era esistito all'epoca dello spirito". La lotta lotta è proseguita con i monarcomachi cristiani e tutti i movimenti anticentralisti che testimoniano gli "sforzi della tradizione per ripristinare le vecchie istituzioni delle federazioni degli ordini e dei parlamenti ..." Nondimeno, Landauer diffida di quello che definisce "le rivoluzioni di Stato", che comprendono la rivoluzione inglese - per la quale nutre solo disprezzo - quella americana e quella francese. Quest'ultima, ai suoi occhi, ha il solo merito di essere stata portatrice del principio di fraternità: "Ci sono parole che basta andare a cercare nella sfera in cui sono nate, per lavarle dalla polvere e dagli insulti dettati dalla frivolezza e dalla ristrettezza mentale. Dalla Rivoluzione francese prendiamo quella di "fraternità" ed è da essa che proviene la gioia che appartiene a quella rivoluzione, gli uomini sentivano allora di avere dei fratelli e, non dimentichiamolo, delle sorelle". Se tutte queste rivoluzioni hanno finito per impantanarsi, ciò non è dovuto solo all'ambizione ed allo spirito di parte dei capi, o all'accerchiamento della Repubblica da parte dei suoi nemici, ma al fatto che non è possibile "risolvere i problemi sociali con gli strumenti di una rivoluzione politica."
Che ne avviene allora dell'utopia? "La Rivoluzione" è uno dei primi libri, in lingua tedesca, che restituisce, all'inizio del XX secolo, il suo senso positivo al concetto d'utopia - dopo il celebre "Socialismo utopistico e Socialismo scientifico" di Friedrich Engels, nel 1880 - e di farne il vettore principale di un pensiero politico rivoluzionario. Landauer non definisce chiaramente ciò che intende per utopia, ma la descrive come "un principio sorto in epoca lontana, che attraversa i secoli a grandi passi per poi immergersi nel futuro". Mentre gli approcci usuali concepiscono le utopie come delle immagini di un avvenire desiderabile, l'autore de La Rivoluzione mette in luce, grazie alla sua sensibilità romantica, la dialettica tra il passato ed il futuro che le dà dorma: tutte le utopie nascondono in sé "il ricordo entusiasta di tutte le utopie precedentemente conosciute". Come si formano le utopie? Attraverso "una combinazione degli sforzi e delle tendenze della volontà individuale, sempre eterogenee ed isolate, ma che, in un momento di crisi che cristallizza entusiasmo ed ebbrezza, sembrano rassomigliarsi in tutto" nella prospettiva di creare una vita sociale senza ingiustizia, opponendosi alla "topia", cioè a dire al vasto conglomerato di vita sociale in uno stato di relativa stabilità. Quanto alla rivoluzione, essa non è altro che "il percorso che procede da un'utopia all'altra", da una stabilità relativa ad un'altra stabilità relativa - una proposizione che si avvicina pericolosamente ad una concezione ciclica della storia, ispirata dall'Eterno Ritorno di Nietschze, dove ciascun'utopia diventa "topia" a sua volta. Cosa ne rimane del socialismo in una tale prospettiva circolare? Landauer sembra suggerire che non si tratta di una rivoluzione politica, ma di una rivoluzione sociale - una sorta di rigenerazione sociale e spirituale radicale - che attende l'avvento del socialismo libertario. Nonostante qualche imprecisione concettuale e teorica, questo studio pionieristico va ad esercitare una profonda influenza sul rinnovamento delle riflessioni sull'utopia all'inizio del XX secolo, in particolare nei lavori di Ernst Bloch e di Karl Mannheim.

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L'appello al socialismo del 1911, sviluppa e concretizza i temi delineati ne "La Rivoluzione". Landauer attacca direttamente la filosofia del progresso comune ai liberali ed ai marxisti della II Internazionale: "Nessun progresso, nessuna tecnica, nessun virtuosismo ci porterà salvezza e felicità." Rifiutando "la fede nell'evoluzione progressista (Fortschrittentwicklung)" dei marxisti tedeschi, ci offre la sua propria visione del cambiamento storico: "Per noi la storia umana non consiste affatto di processi anonimi, e non è solo un accumulo di innumerevoli piccoli avvenimenti ... Laddove per l'umanità è avvenuto qualcosa di alto e grandioso, sconvolgente ed innovativo, sono stati l'impossibile e l'incredibile ... che hanno fatto la differenza." Il momento privilegiato di quest'irruzione del nuovo è appunto la rivoluzione, quando "l'incredibile, il miracolo si muove verso il regno del possibile." E' dunque a giusto titolo che Karl Mannheim vede nell'anarchismo radicale, e ed in particolare nel pensiero di Gustav Landauer, l'erede del millenarismo anabattista e perfino "la forma moderna relativamente più pura della coscienza chiliasta". Si tratta di una forma di pensiero che rifiuta ogni concetto di evoluzione, ogni rappresentazione di progresso: nel quadro di una "differenziazione qualitativa dei tempi" la rivoluzione viene perseguita come un'irruzione (Durchbruch), un istante improvviso, un vivere adesso (Jetzt-Erleben). Quest'analisi è tanto più impressionante, quando si applica non solo a Landauer, ma anche, con qualche sfumatura, a Martin Buber, a Walter Benjamin (ricordando il suo concetto messianico di Jetztzeit) e a molti altri pensatori ebrei tedeschi.
Così come per i romantici "classici", la Comunità medievale occupa un posto d'onore nella problematica restauratrice di Landauer. Ritorna, ne "L'Appello per il socialismo", sulle virtù spirituali del Medioevo cristiano - nella sua dimensione "cattolica" universale, e non "tedesco-patriottica" - quest'epoca di "altezza eclatante", dove "lo spirito dà un senso alla vita, una sacralizzazione ed una benedizione". Egli vede nei comuni e nelle associazioni medievali, l'espressione di una vita sociale autentica e ricca di spiritualità, che si oppone allo Stato moderno, "questa forma suprema di non-spirito" e rimprovera al marxismo di negare affinità tra il socialismo dell'avvenire ed alcune strutture sociali del passato, come le repubbliche urbane del Medioevo, i mercati rurali e le comunità agrarie russe. Tuttavia, Landauer non ha niente del passatista; non sogna affatto, come Novalis ed altri romantici conservatori, di restaurare la cristianità medievale. Anarchico convinto, si richiama all'eredità di La Boétie, Proudhon, Kropotkin, Bakunin e Tolstoj, per opporre allo Stato centralizzato la rigenerazione della società attraverso la costituzione di una nuova rete di strutture autonome, ispirate alle comunità pre-capitalistiche. Non si tratta di tornare al passato medievale, ma di dare forma nuova all'antico e di creare una cultura con i mezzi della civilizzazione. Concretamente, questo significa che le forme comunitarie del passato, che si sono preservate nel corso dei secoli di decadenza sociale, devono diventare "le gemme ed i cristalli della vita della cultura socialista a venire". Le comuni rurali, con le loro vestigia dell'antica proprietà comunale e le loro autonomie dallo Stato, saranno il sostegno alla ricostruzione della società; i militanti socialisti s'istalleranno nei villaggi, per aiutare a resuscitare lo spirito del XV e del XVI secolo - lo spirito dei contadini eretici e rivoltosi del passato - ed a ristabilire l'unità (spezzata dal capitalismo) fra agricoltura, industria ed artigianato, fra lavoro manuale e lavoro spirituale, tra insegnamento ed apprendistato. In un saggio su Walt Whitman, Landauer paragona il poeta americano a Proudhon, sottolineando come entrambi uniscano "spirito conservatore e spirito rivoluzionario, individualismo e socialismo". Questa definizione si applica rigorosamente alla sua visione sociale del mondo, dove la dialettica utopica lega insieme tradizione ancestrale e speranza per l'avvenire, conservazione romantica e rivoluzione libertaria. Come osserva Martin Buber, nel suo "Utopia e socialismo", al capitolo "Landauer": "Ciò che ha in testa, è proprio un conservatorismo rivoluzionario: una scelta rivoluzionaria degli elementi dell'essere sociale che meritano di essere conservati e che sono validi per una nuova costruzione."
Avversario risoluto della guerra del 1914, Landauer reagisce con una speranza appassionata alla Rivoluzione d'Ottobre del 1917, in Russia, che considera come un avvenimento di un'importanza primordiale, ivi compreso per l'avvenire degli ebrei. In una lettera a Buber del 5 febbraio 1918, soiega la sua posizione; contrariamente al suo amico che continua a volgere lo sguardo verso la Palestina, scrive: "Il mio cuore non è mai stato attratto da quei paesi, e non penso che debbano essere necessariamente la condizione geografica di una comunità ebraica. Il vero evento, per noi importante e che può essere decisivo, è la liberazione della Russia (...) in questo momento mi sembra preferibile - malgrado tutto - che Bronstein non sia professore all'Università di Jaffa (in Palestina), ma che sia Trotsky in Russia". Quando scoppia la rivoluzione in Germania (novembre 1918) saluta con entusiasmo "lo Spirito della Rivoluzione" di cui paragona l'azione a quella dei profeti biblici. Nel gennaio del 1919, scrive una nuova prefazione alla riedizione de "L'appello al socialismo", dove il suo messianismo si manifesta in tutta la sua drammatica intensità, sia apocalittico-religiosa che utopico-rivoluzionaria: "Il Caos è qui ... Gli spiriti si risvegliano ... perché dalla Rivoluzione ci viene la Religione - una Religione dell'azione, della vita, dell'amore, che rende felici, che porta la redenzione e pervade tutto." A suoi occhi, i consigli operai che si sviluppano in Europa sono "dei partiti organizzati del popolo che si auto-gestiscono ed è probabile che saranno considerati come una nuova forma delle comunità autonome del Medioevo". Ciò permette di comprendere perché si impegni nell'effimera Repubblica dei Consigli operai di Baviera (aprile 1919), dove sarà - pur solamente per pochi giorni - il commissario del popolo alla pubblica istruzione. Quando la Repubblica dei Consigli cadrà, verrà imprigionato ed assassinato dalle guardie bianche. In un articolo scritto a caldo, Martin Buber gli rende l'ultimo omaggio: "Landauer è caduto come un profeta ed un martire della comunità umana a venire."

- Michael Löwy -

fonte: Tumultes