sabato 27 dicembre 2014

A qualsiasi prezzo

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“Il lavoro deve regnare su tutto, solo l'ozioso sarà schiavo, il lavoro deve regnare sul mondo, perché il mondo esiste solo grazie a lui."  - Friedrich Stampfer, L'onore del lavoro, 1903 -

Il movimento operaio classico, che raggiunse il suo apice solo dopo la sconfitta delle antiche rivolte sociali, smise di lottare contro il lavoro e le sue scandalose esigenze, ma praticamente sviluppò una sovraidentificazione in quello che gli appariva come ineluttabile. Aspirava soltanto a dei “diritti” e a dei miglioramenti nel quadro della società del lavoro, di cui aveva già largamente interiorizzato i vincoli. Invece di criticare radicalmente la trasformazione di energia umana in denaro, in quanto irrazionale fine in sé, esso stesso adottò in prima persona il “punto di vista del lavoro” e concepì la valorizzazione come un fatto positivo.
Così il movimento dei lavoratori ereditò a modo suo la tradizione dell’ assolutismo, del protestantesimo e dell’illuminismo. L’infelicità del lavoro venne mutata in falso orgoglio del lavoro, che ridefinì la riduzione dell'individuo a materiale umano dell'idolo moderno, facendola diventare un “diritto dell'uomo”. Gli iloti addomesticati dal lavoro invertirono per così dire i ruoli ideologici, e diedero prova di zelo missionario, reclamando da una parte il “diritto al lavoro” e, dall’altra, il “dovere di lavorare per tutti”. La borghesia non venne più combattuta in quanto "funzionaria" della società del lavoro, ma venne, al contrario, trattata da “parassita” proprio in nome del lavoro. Tutti i membri della società, senza eccezione alcuna, dovevano essere arruolati a forza negli “eserciti del lavoro”.
Il movimento dei lavoratori divenne così un acceleratore della società del lavoro capitalistica. Nell'evoluzione del lavoro, fu lui ad imporre, contro gli ottusi "funzionari" borghesi del XIX e dell'inizio del XX secolo, le ultime tappe dell'oggettivazione; così come un secolo prima la borghesia aveva avuto la successione dell'assolutismo. La cosa fu resa possibile unicamente perché, nel corso della deificazione del lavoro, i partiti operai ed i sindacati si riferivano in maniera positiva all'apparato statale e alle istituzioni dell'amministrazione repressiva del lavoro, che essi non volevano affatto sopprimere bensì occupare in una sorta di "marcia attraverso le istituzioni". Così, essi proseguirono, come precedentemente aveva fatto la borghesia, la tradizione burocratica della gestione degli uomini nella società del lavoro cominciata a partire dall'assolutismo.
Ma l’ideologia di una generalizzazione sociale del lavoro necessitava però anche di un nuovo rapporto politico. Nella società del lavoro, che si era ancora imposta solo a metà, bisognava rimpiazzare l'ordine corporativo ed i suoi differenti "diritti" politici (il diritto di voto censitario, ad esempio) con l'ordine democratico generale dello "Stato del lavoro". Per far questo, bisognava regolare, secondo i precetti dello "Stato sociale", le differenze di regime nel funzionamento della macchina della valorizzazione, affinché questa determinasse immediatamente l'intera vita sociale. Anche in questo, è il movimento operaio che viene a fornire il paradigma. Con il nome di "socialdemocrazia", esso diventa il grande "movimento di cittadini" della storia, movimento che tuttavia non potava rivelarsi altro che una trappola per gli stessi che lo avevano fondato. Poiché, in democrazia, tutto è materia di negoziazione, salvo i vincoli della società del lavoro, i quali vengono presupposti come postulati. Sono discutibili solamente le modalità e le forme di sviluppo di tali vincoli. La scelta può avvenire solo fra Dash e Dixan, fra la peste ed il colera, fra la volgarità e la stupidità, fra il PD e Forza Italia.
La democrazia della società del lavoro è il più perverso sistema di dominio della storia: un sistema di auto-oppressione. Ecco perché questa democrazia non organizza mai la libera autodeterminazione dei componenti della società riguardo le risorse comuni, ma unicamente la forma giuridica delle monadi del lavoro, socialmente separate le une dalle altre, che devono concorrere per poter vendere la loro pelle sul mercato del lavoro. La democrazia è l'opposto della libertà.
E' per questo che gli uomini del lavoro democratico si dividono necessariamente in amministratori ed amministrati, in datori di lavori e dipendenti, in élite funzionali e risorse umane. I partiti politici, soprattutto i partiti operai, riflettono fedelmente questo rapporto nelle loro strutture.
Il fatto che ci siano leader e militanti, personalità ed attivisti, clan e simpatizzanti testimonia un rapporto che non ha niente a che vedere con un dibattito aperto e con un processo di decisione comune. Che le stesse élite non possano essere altro che funzionari assoggettati all'idolo Lavoro ed ai suoi ciechi decreti, fa parte integrante della logica di questo sistema.
Al più tardi a partire dal nazismo, tutti i partiti sono allo stesso tempo partiti dei lavoratori e partiti del capitale. Nelle società "in via di sviluppo" dell'Est e del Sud del mondo, il movimento operaio si è trasformato in partito-Stato incaricato di realizzare, per mezzo del terrore, la modernizzazione tardiva del paese; ad Ovest, in un sistema di "partiti popolari" dotati di programmi intercambiabili e di figure rappresentative mediatiche. La lotta di classe è finita perché è finita la società del lavoro. Nella misura in cui il sistema deperisce, le classi si rivelano per essere delle categorie socio-funzionali di un sistema feticistico comune. Quando la socialdemocrazia, i Verdi e i vecchi comunisti si mettono in mostra nella gestione della crisi e sviluppano i più abietti programmi repressivi, dimostrano di essere i degni eredi di un movimento operaio che ha sempre voluto solo il lavoro, a qualsiasi prezzo.

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- Estratto da: Krisis - Manifesto contro il Lavoro - 1999 -

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