martedì 11 novembre 2014

canta la tua canzone

BELAFONTE

Harry Belafonte non si arrende
di Elfi Reiter

Era amico di Martin Luther King, di John e Robert Kennedy, aveva combattuto per la liberazione di Nelson Mandela, aveva studiato teatro con Marlon Brando, Tony Curtis e Walter Matthau alla scuola fondata dal regista tedesco Erwin Piscator a New York. Aveva poi suonato e cantato con Charlie Parker, Max Roach e Miles Davis: Harry Belafonte, cantante e attore nero ma, innanzitutto come dice lui stesso, «un attivista diventato artista per far sentire la sua voce in nome di tanti e tante altre».
A lui è dedicato uno dei Tributi nell’ambito della 49esima Viennale (sempre diretta da Hans Hurch, è in corso nella capitale austriaca dallo scorso 20 ottobre e andrà avanti fino al 2 novembre), comprende cinque titoli della sua ampia filmografia: tre girati negli anni cinquanta (Carmen Jones di Otto Preminger, Odds against tomorrow di Robert Wise, The world, the flesh and the devil di Ranald MacDougall), Uptown Saturday firmato dal suo grande amico Sidney Poitiers nel 1974 e Kansas City di Robert Altman, realizzato nel 1996.
Se qui si apprezzano le sue qualità come attore, nel documentario Sing your song da lui ideato e prodotto «per mantenere viva una memoria per gli studenti di oggi e domani», si segue la sua vita tra interviste, brani di film, esibizioni canore e soprattutto attraverso il suo impegno sul piano umanitario. La regia (e il montaggio) è di Susanne Rostock, il cui nome è noto per lavori dal forte afflato politico. Qui la biografia di Belafonte si intreccia con cinquant’anni di storia, da lui vissuta spesso in prima linea per lottare per i diritti dei neri (era assieme a King alla storica marcia a Washington, così come non si tirò indietro quando solo il fatto di raccogliere firme per il diritto al voto ai black american poteva mettere a repentaglio la propria vita). Ha contribuito a combattere la fame nel mondo (sua e di Quincy Jones l’idea di We are the world e il coro di all star del pop rock, nel 1985), denunciando ultimamente i troppi giovani neri dietro le sbarre negli Usa, come se fosse una nuova forma di schiavitù.
Sempre contro ogni forma di violenza, Belafonte affronta nel corso dell’incontro gli eventi recenti della primavera araba, dove studenti e lavoratori hanno combattuto senza armi finché i primi spari della polizia hanno segnato l’inizio della dura repressione dello stato. Sembra che la storia si ripeta, pensando che all’epoca in cui lui e Luther King si conobbero, avevano rispettivamente ventisei e ventiquattro anni.
Belafonte, 84 anni portati con eleganza e grande sense of humour, è voce narrante del «suo» film ma non si stanca di snocciolare in pubblico aneddoti sulla sua vita avventurosa e gli esordi teatrali, quando per sbarcare il lunario si spendeva in mille lavoretti e uno di questi - un appartamento pulito con molta dedizione – gli procurò due biglietti per l’American Negro Theater. Una folgorazione, uno spazio da lui stesso definito «luogo della verità sociale». Riconobbe immediatamente la sua vera vocazione.
Una gavetta fatta di mansioni come «uomo di fatica», finché arrivarono i primi piccoli ruoli. E proprio durante una delle serate al Negro Teatre fece amicizia con Paul Robeson, allora grande icona dell’impegno culturale e socio-politico. «Gli artisti - ripete più volte Belafonte a Vienna - sono i portatori della verità», perché sono coloro che fanno arrivare al pubblico attraverso la loro arte molti messaggi. Lo fanno cantando, dipingendo, scrivendo poesie o girando film». «Il mondo è un palcoscenico e noi tutti siamo attori che vi si muovono», sottolinea la voce di Banana boat, che nel ’56 risuonava in tutti i juke box e ancora oggi viene campionata da pop star come Jason Derulo.
Per lui tutto ciò che fa è sempre nella prospettiva dell’impegno politico-sociale, che si trovi su un palco vero, su un set o nella realtà quotidiana, avendo appreso che la forma di espressione artistica non è solo entertainment ma uno sguardo sul mondo per trasmettere qualcosa al pubblico. Sing your song, canta la tua canzone appunto.
Ma il punto centrale per lui è e rimane il potere. «Come gestire «l’autorità» conquistata in anni di carriera? - si domanda - come investirla nella tua arte? Come riuscire a informare la gente grazie a questo «potere acquisito» senza però abusarne?». Harry Belafonte ha imparato altre lingue per entrare in contatto più diretto, ha rifiutato di aderire a qualsiasi partito politico, preferendo ai riflettori dello show biz la compagnia di personaggi dall’alta statura intellettuale. «È facile usare il potere a proprio vantaggio, a forgiare popoli interi usandolo come arma». Ricorda la sua prima volta a Berlino, nella città divisa, che aveva inizialmente rifiutato di visitare per il ricordo ancora fresco dell’olocausto. Ma il suo distributore, un uomo austriaco amante di musica classica, gli aveva fatto capire che stava punendo le persone sbagliate, perché quei giovani andavano aiutati a crescere. E davanti a quel pubblico pieno di aspettative, estremamente generoso nei suoi confronti, Belafonte intona brani di forte impatto sociale, un modo per incoraggiare l’ascoltatore e infondere ottimismo, nella vita, nei lavori, superando così le situazioni difficili.
Curiosa la lunga gestazione di Sing your song, la cui idea originaria nasce dopo la morte di Marlon Brando, un altro che si era fatto cassa di risonanza dei diritti dei derelitti, «di chi non ne aveva», dei nativi americani. Spendendosi spesso e volentieri anche a favore del movimento per il black power.
Un impegno importante che rischiava di essere dimenticato, così Belafonte ha deciso di incontrare via via personaggi che avevano conosciuto entrambi, sommando oltre settecento ore di girato, consegnandole poi a Susanne Rostock. È nata così la sequenza iniziale, un montaggio veloce di scontri, tra ieri e oggi, con la silhouette di Belafonte che si staglia nel mezzo del caos urlando: You really pissed me off!Un intento con cui questo guerriero delle arti per l’umanità si sveglia tutte le mattine: «non gliela darò mai vinta!»

Elfi Reiter - da “il manifesto”, del 26 ottobre 2011 -

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