martedì 30 settembre 2014

Criticare la critica

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A proposito di qualche testo: Anselm Jappe, Jaime Semprun, Robert Kurz
di François Bochet

Per Bordiga, nel socialismo il valore non esisterà più - così come non esisterà la moneta, il salariato, l'impresa, il mercato -, laddove c'è valore, come in Unione Sovietica, non ci può essere socialismo. Anselm Jappe - già autore di un "Guy Debord", apparso nel 2001 - ha scritto un libro ambizioso ed interessante, "Le avventure della merce. Per una nuova critica del valore", Denoêl, 2003; dove fa una distinzione fra un Marx essoterico partigiano dei Lumi e di una società industriale diretta dal proletariato - un Marx che si interessa ai problemi contingenti, politici, alla lotta di classe e al movimento del proletariato, quello del Manifesto e della Critica al Programma di Gotha - ed un Marx esoterico, quello del Contributo alla Critica dell'Economia politica, dei Grundrisse, dell'Urtext, del VI capitolo inedito del Capitale e dei quattro libri dello stesso Capitale, un Marx che si pone il problema del capitale, della sua definizione, della sua origine, del suo divenire e del suo superamento nel comunismo e nella comunità. Scrive Jappe (pag.11) che il pensiero di Marx è servito a modernizzare il capitale - cosa innegabile - e che i marxisti tradizionali si sono posti solo il problema della ripartizione del denaro, della merce e del valore senza metterli in discussione in quanto tali. Per Jappe il movimento rivoluzionario avrebbe perciò accettato valore, salario, merci, denaro, lavoro, feticismo, ecc. - cosa che è insieme falsa e vera - e lui, Jappe, si propone di "ricostruire la critica marxiana del valore in modo abbastanza (?) preciso" (pagina 15). Rimprovera giustamente a Rubel di avere edulcorato il linguaggio hegeliano di Marx, nella sua edizione delle opere di quest'autore, e di avere chiamato opere "economiche" delle opere "anti-economiche" (molto tempo fa, Paul Mattick aveva fatto la stessa critica al "Trattato di economia marxista" di Ernest Mandel). Jappe afferma - insieme al collettivo tedesco riunito attorno alla rivista Krisis ed al suo principale teorico, Robert Kurz, cui egli è legato - la scomparsa del proletariato ; cosa che non gli viene perdonata dai teorici del proletariato rivoluzionario.
Ma - ed è questo il punto - egli cita come precursori del suo lavoro (a pagina 20), Lukacs e la sua "Storia e coscienza di classe", gli Studi sulla teoria del valore di I. Roubin, così come i lavori di Adorno, di Hans-Jurgen Krahl, di Lucio Colletti, di Rosdolsky, di Perlman e del trotskista J.-M. Vincent. Lungi da noi l'idea di negare l'importanza di tutti questi teorici - anche se associare dei teorici notevoli all'infelice Colletti, o anche a Vincent, ci pare curioso, una sorta di confusionismo, confusionismo interessato per parlare come l'Internazionale Situazionista - ma un'osservazione si impone immediatamente:
delle due l'una, o Anselm Jappe è un ignorante, ed ignora Amadeo Bordiga, Jacques Camatte ed i loro lavori (per non parlare di riviste come Le mouvement communiste, Négation o Théorie Communiste, all'inizio degli anni settanta del secolo scorso; Jappe cita la rivista  Socialisme ou Barbarie, la quale non ha mai sviluppato una critica del valore, non più dell'Internazionale Situazionista - al contrario di quel che pretende Jappe - che ha criticato, al seguito di Lukacs, solo la merce), cosa che facciamo fatica a credere, oppure allora è in mala fede - per non dire peggio - e vuole nascondere ai suoi lettori alcune opere per delle ragioni che possiamo facilmente immaginare. In ogni caso prende in giro tutti. Eliminando quei teorici, evidentemente diventa facile per Jappe sfilare, mostrando la nullità pretenziosa e crassa di un Pierre Bourdieu, della costellazione di Attac, o di un Antonio Negri. Aggiungiamo che se Bordiga ha sempre messo al primo posto, dopo la seconda guerra mondiale, nella sua definizione di comunismo, la soppressione del valore, del denaro, della merce e dello scambio, non è affatto la stessa cosa della corrente consiliarista - chiamata così per semplificare - della sinistra tedesco-olandese. (E qui almento Debord ed i situazionisti fecero opera salutare reclamando, seppure in modo molto ambiguo, la soppressione della merce; non parlarono però affatto di valore). Da qui lo scandalo e la sorpresa che, nel 1972, provoca il testo di Jean Barrot, alias Gilles Dauvé, "Contributo alla critica dell'ultra-sinistra. Leninismo e ultra-sinistra", e l'ostracismo di cui fu vittima il suo autore da parte di quegli ambienti consiliaristi che non potevano tollerare quella critica, e soprattutto il tentativo di Dauvé di integrare elementi della teoria di Bordiga, il quale era stato ridotto assai rapidamente, da quelle correnti consiliariste, ad un teorico ultra-leninista. Serge Bricianer, per esempio, uno dei rappresentati di quest'ambito consiliarista, curatore di un'antologia assai interessante di scritti di Pannekoek (Pannekoek ed i consigli operai), nella sua introduzione alla "Risposta a Lenin" di Gorter difende, così come faceva il GIK olandese, non già "l'abolizione del lavoro salariato e del denaro", ma "la messa in atto di modalità di ripartizione non più fissate arbitrariamente, e sulle quali i lavoratori non possono niente, ma che al contrario vengano determinate da essi e con l'aiuto di appropriati strumenti contabili". Il valore dunque sussiste, bello e buono, e si crede di comprendere che la sua soppressione darebbe luogo alla creazione di un regime come quello dei Khmer Rossi in Cambogia.
Jappe ha il merito di ricordare l'opera di Alfred Sohn-Rethel, il cui libro "Lavoro intellettuale e lavoro manuale" è apparso a Francoforte nel 1970, per il quale le forme di pensiero astratto sono, per semplificare, dei prodotti della forma valore (o, più esattamente, c'è una corrispondenza fra le due cose), e dunque le categorie del pensiero occidentale non sono né universali né a-storiche (cosa che già aveva cominciato ad affermare Lukacs, in Storia e coscienza di classe), solo il valore e lo scambio (che non sono possibili se non attraverso un enorme processo di astrazione, per cui bisogna prima fare astrazione delle qualità per poi poter comparare due oggetti a priori totalmente differenti, e quindi quantificarli per trovare una misura comune) possono a loro volta consentire l'astrazione, ma allora si pongono ulteriori problemi che Sohn-Rethel non ha affrontato (senza contare che 1. per lui l'alienazione proviene dallo scambio di merci, la produzione rimane neutra, e che 2. la separazione fra lavoro intellettuale e lavoro manuale non ha, nella definizione di capitale, quel posto centrale accordatogli da Sohn-Rethel): si potrebbe conquistare l'astrazione (senza cui ogni riflessione appare impossibile) senza passare per la deviazione del valore, si può trovare un modo di vita ed una rappresentazione, una volta abolita la divisione fra lavoro manuale e lavoro intellettuale, che impedisca all'astrazione di rendersi autonoma e di ritorcersi contro la vita? Come abbiamo detto, Lukacs aveva affrontato questo problema in Storia e coscienza di classe - Lukacs, dopo la sua rottura con lo stalinismo, continuerà ad affermare che il valore è ancora in vigore sotto il socialismo, in particolare in uno dei suoi ultimi scritti, "Il processo di democratizzazione" - e Adorno riprenderà tale intuizione, allora che si lega a Sohn-Rethel. E' certo che il valore ed il capitale sono delle forme a priori del pensiero umano nelle quali siamo ingabbiati, in quanto specie e in quanto individualità, più terribilmente che nelle caverne di Platone, da delle forme che ci hanno modellato, degli schermi che ci impediscono di prendere contatto con la realtà naturale, intermediari obbligati e deformanti, comunità terapeutiche contro-natura e dispotiche.
Per finire, diremo che Jappe - così come fa l'antologia di Marx realizzata da Robert Kurz (Leggere Marx, 2002) - allontana la questione dell'accettazione da parte di Marx dei principi fondamentali della "erranza", la quale si esaspera, ma non comincia col capitalismo e la rivoluzione industriale: l'esigenza dello sviluppo infinito delle forze produttive, la volontà di dominare la natura, di separarsene, la scienza, l'abbandonarsi al divenire e la distruzione dei limiti, ecc.. Se si vuol fare un bilancio dell'opera di Marx, la quale ha un'immensa importanza in ogni caso, bisogna affrontarla nella sua totalità, non certo ridurla, ma nemmeno occultare le sue dimensioni mondane (nel senso di "facente parte di quel mondo"), non inventarsi un Marx fantasmatico che non è mai esistito.

The Public Enemy wiiliam wellman 1931

Nel "Manifesto contro il lavoro", il gruppo Krisis - Robert Kurz, Ernst Lohoff et Norbert Trenkle ed altri - intende riprendere la critica laddove, dicono, l'Internazionale Situazionista l'aveva lasciata - cosa questa che limita fortemente la loro teorizzazione. Per loro, e noi lo condividiamo, non c'è più una classe emancipatrice, la lotta di classe non permette di uscire dal capitalismo, è solo una lotta all'interno del capitale, della quale il proletariato è una componente fra le altre. Ma gli autori parlano ancora, se non di rivoluzione, quanto meno di emancipazione sociale e lanciano degli appelli ai proletari (per esempio alla fine del libro). Allora? Criticano il lavoro, ma ci preoccupa la loro rivendicazione di un'estensione massiccia del tempo libero, rivendicazione aberrante - parola d'ordine pubblicitaria dell'industria dell'intrattenimento - perché non si tratta più di rivendicare il lavoro o il non-lavoro ma di considerare l'attività in maniera del tutto differente; così come ci preoccupa lo slogan inquietante "Prendiamoci quello di cui abbiamo bisogno!" (pag.95), e poi, che cosa può significare quell'appello ad "organizzare il legame sociale stesso" e a trovare delle "nuove forme di movimento sociale" (pag.106)?!
Ne "Il fantasma della teoria" (apparso sulla rivista di Jean-Marc Mandosio, "Nouvelles de nulle part" n°4, settembre 2003), Jaime Semprun, a sua volta, fa qualche osservazione critica al libro di Anselm Jappe. Comincia col domandarsi, anche lui, se una teoria rivoluzionaria sia ancora possibile, e critica Lukacs - anche lui - per avere scritto in "Storia e coscienza di classe" che solo il proletariato poteva accedere alla conoscenza ed alla totalità, identificando in questo modo coscienza di classe e partito leninista. Ma che Lukacs avesse fatto quest'identificazione, era solo un fatto secondario, la follia risiede assai più fondamentalmente nella sua teologia proletaria e rivoluzionaria (il proletariato come messia soggetto-oggetto della storia). Fondamentalmente, anche Semprun rimprovera a Jappe di non rimettere in causa lo sviluppo industriale, scientifico e tecnologico, di restare fedele all'escatologia marxista fondata sullo sviluppo delle forze produttive e sulla credenza mistica nel sorgere miracoloso di una società altra a partire dalla "lunga agonia della società delle merci", dalla devastazione rivoluzionaria in atto. Un emergere che lo stesso Jappe non osa più chiamare veramente rivoluzione. Come il gruppo Krisis (vedi a pag.39 della stessa rivista, le "Note sul Manifesto contro il lavoro del gruppo Krisis" dello stesso Semprun), Jappe parla effettivamente di produzione senza evocare la natura di quello che viene prodotto - e l'importante non è solo come si produce ma anche ciò che si produce - parla come se ci fosse ancora, anche se ammette la scomparsa del proletariato, un'umanità che non sarebbe stata desustanzializzata, che non sarebbe imprigionata in queste categorie a priori che ha pur tuttavia messo in evidenza.
In breve, come dice Semprun in altri termini, Jappe non sembra comprendere il carattere catastrofico della situazione attuale e l'urgenza di un cambiamento di prospettiva totale e radicale. Scrive Semprun: "Quando la nave cola a picco, non è più tempo di dissertare sapientemente sulla teoria della navigazione: bisogna imparare velocemente a costruire una zattera", così raccomanda di coltivare l'orto e afferma che "un buon manuale di orticoltura (...) sarebbe senza dubbio più utile, per attraversare i cataclismi che arrivano, piuttosto che degli scritti teorici nei quali si persiste a speculare imperturbabilmente, come se stessimo bene all'asciutto, sul perché e sul come del naufragio della società industriale".
Noi siamo del tutto convinti circa l'utilità di coltivare il proprio orto - cosa che va di pari passo con la fuga dalle città, non sempre facile, con il rifiuto della dipendenza, con la terapeutica, con l'inizio della riconquista della salute, dell'habitat, ecc. - e dunque di un buon manuale (citiamo, ad esempio, "La Guida del giardino biologico" di Jean-Paul Thorez), ma non pensiamo affatto - malgrado la presenza dei cataclismi - che lo studio teorico sia inutile, al contrario è più che mai indispensabile; dobbiamo fare soprattutto il bilancio dell'attività teorica e pratica dei rivoluzionari, e studiare il loro contributo alla costruzione del terribile mondo nel quale siamo imprigionati e dove difficilmente riusciamo a trovare l'aria per respirare.

lunedì 29 settembre 2014

La domenica dello zio Tom

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Per qualche strana e perversa ragione, i marxisti non riescono a smettere di proporsi come manager del capitalismo, migliori degli stessi capitalisti. Un impulso malato che ha infettato praticamente la quasi totalità della sinistra che si è messa alla ricerca di una "strategia di sviluppo economico praticabile" basato sulla schiavitù salariale, e non certo alla sua abolizione: come se Frederick Douglas, nel XIX secolo, si fosse messo ad esigere - anziché l'abolizione della schiavitù - che gli schiavi potessero avere la domenica libera, come mezzo praticabile per stimolare lo sviluppo economico degli Stati Uniti!
Richard D. Wolff, economista di solito un po' confuso legato al movimento "occupy", ha proposto, con un intervento su "Truthou", una riduzione della settimana lavorativa senza alcuna riduzione dei salari. L'idea - che poteva essere interessante e a cui poteva essere data larga diffusione, grazie alla "celebrità marxista" di Wolff - è stata quasi subito storpiata ed inquinata da tutta una serie di proposte capitaliste che parlano di "comprimere" la settimana lavorativa in meno giorni di lavoro. Wolff, nella sua proposta, sostiene la necessità di una riduzione del totale di ore lavorate a settimana, da 40 a, diciamo, 32, 24, o perfino 16 ore. Diversamente, i capitalisti sono venuti fuori con una serie di proposte che parlano della loro "riduzione della settimana lavorativa", in cui il numero di giorni lavorati si ridurrebbe da, diciamo 5 giorni, a 4, o perfino a 3 giorni la settimana. Ma, come sempre, bisogna leggere la clausola scritta a lettere minuscole in fondo al contratto. Non c'è riduzione delle ore lavorate, c'è solo un cambiamento nel mondo in cui queste ore vengono lavorate.
In una prima proposta, si lavorano lo stesso numero di ore in meno giorni; nella seconda, le ore lavorate sono 80 "spalmate" su due settimane, in turni sfalsati per ottenere un giorno libero extra, ogni due settimane; poi c'è la terza variante - che qui è già passata, ma senza la riduzione delle ore lavorate - in cui si lavora meno ore la settimana, però nell'arco di una vita lavorativa più lunga, che arriva fino a 70 anni di età per chi lavora.
Per quella strane e perversa ragione di cui si diceva sopra, Wolff prende sul serio le proposte capitalistiche e le tratta come se fossero delle alternative reali al fine di ridurre le ore di lavoro, senza che a questo corrisponda una diminuzione dei salari.
Ma la riduzione dell'orario di lavoro, ben prima di cominciare a ridurre i salari, deve ridurre i profitti. Questo perché i profitti provengono dal plusvalore, ed il plusvalore viene creato per mezzo dell'estensione della durata del tempo di lavoro oltre il periodo necessario al lavoratore a riprodurre il valore del suo salario. Quindi una riduzione delle ore di lavoro porta i salari ad essere una parte relativamente maggiore del prodotto sociale. Vale a dire, i salari reali crescono, e i profitti reali crollano. Da economista, Wolff dovrebbe sapere che una riduzione del lavoro costringe anche i prezzi a scendere. Lavorare meno porta a guadagnare meno, a livello nominale; ma porta anche a spendere meno, e costringe i capitalisti a diminuire i prezzi. Ossia, se riduci le ore di lavoro, fai scendere i prezzi nominali e, di conseguenza, i profitti.
Come le ore di lavoro tendono a zero, i salari tendono a zero. Quindi i prezzi tendono a zero e i profitti tendono a zero.
Se questo non fosse vero, l'abolizione del lavoro salariato non porterebbe all'abolizione del capitale. Inoltre, se la riduzione dell'orario di lavoro non avesse funzionato in questo modo, non sarebbe stata esercitata alcuna forza che avrebbe costretto il capitale ad aggiungere macchinari per compensare le ore lavorative ridotte.
La pressione che porta ad introdurre sempre più tecnologia, e sempre migliore, si rivela critica per l'impatto economico della riduzione delle ore di lavoro, perché "accelera" l'impulso allo sviluppo del capitalismo e quindi il suo collasso finale.
Wolff invece arriva a vedere solo il risultato immediato della diminuzione delle ore di lavoro: la diminuzione dei salari. Non riesce ad andare oltre, per vedere il seguito: l'impatto di questa diminuzione sui profitti e l'impatto sulla produzione capitalista.

domenica 28 settembre 2014

Fermare il futuro

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Guida pratico-utopica all'imminente collasso
di David Graeber

In cosa consiste una rivoluzione? Si è sempre intesa la rivoluzione come la presa del potere da parte delle forze popolari, con l'obiettivo di trasformare la natura stessa del sistema politico, sociale ed economico del paese dove la rivoluzione ha luogo, di solito mossa dal sogno visionario di una società giusta. Al giorno d'oggi, viviamo in un'epoca in cui, se un esercito ribelle entra in una città distruggendola, o se un sollevamento di massa rovescia un dittatore, è abbastanza improbabile che questi ideali si realizzino. Quando avviene una trasformazione sociale profonda come, per esempio, l'ascesa del femminismo, è più probabile che questa si manifesti in maniera del tutto diversa. Non è che ci sia carenza di sogni rivoluzionari, ma i rivoluzionari contemporanei raramente credono che la strada per arrivarci sia quella di un moderno equivalente della presa della Bastiglia.
In momenti come questo, generalmente conviene tornare alla storia che già conosciamo e chiederci: il nostro concetto di rivoluzione è stato qualche volta aderente alla realtà? La persona che ha saputo meglio formulare questa domanda, a mio avviso, è lo storico Immanuel Wallerstein. Wallerstein argomenta che nel corso dell'ultimo quarto del millennio, le rivoluzioni abbiano più mio o meno consistito, soprattutto, in trasformazioni globali del senso comune politico.
Egli osserva che già all'epoca della Rivoluzione francese avevamo un mercato unico mondiale ed un crescente sistema politico unico globale, dominato dagli enormi imperi coloniali. Di conseguenza, la presa della Bastiglia, a Parigi, poté avere ripercussioni in Danimarca, o perfino in Egitto, tanto profonde quanto in Francia, e in alcuni casi anche di più. Per questo motivo, parla di "Rivoluzione Mondiale del 1789", seguita dalla "Rivoluzione Mondiale del 1848", durante la quale scoppiarono, quasi simultaneamente, rivolte in 50 paesi, dalla Valacchia al Brasile. Però, i rivoluzionari non presero il potere in nessuno di questi paesi, ma in seguito, le istituzioni ispirate alla Rivoluzione francese - in special modo i sistemi universali di educazione primaria - vennero adottati in quasi tutto il mondo. Allo stesso modo, la Rivoluzione russa del 1917 fu una rivoluzione mondiale e, in ultima istanza, tanto responsabile del New Deal statunitense e degli Stati europei, quanto del comunismo sovietico. L'ultimo episodio di questa serie, si è realizzato con la rivoluzione mondiale del 1968, che in maniera simile a quella del 1848, ha fatto irruzione praticamente a livello mondiale, dalla Cina al Messico e, anche se non ha preso il potere in nessun luogo, ha molto cambiato le cose. Era, questa, una rivoluzione contro le burocrazie statali e per l'inseparabilità della liberazione politica dalla liberazione personale, la cui eredità più duratura probabilmente è stata quella del moderno femminismo.
Le rivoluzioni sono, quindi, fenomeni planetari. Ma c'è di più. Quello che ottengono, in realtà, è trasformare l'accezione del senso fondamentale della politica. Dopo una rivoluzione, le idee che in precedenza erano considerate selvaggiamente radicali, diventano ben presto parte accettabile del dibattito. Prima della Rivoluzione francese, concetti quali la bontà del cambiamento, e che la politica del governo sia il modo migliore per realizzarlo, oppure che i governi derivano la loro autorità da un'entità chiamata "il popolo", facevano parte della tematica di agitatori e demagoghi o, nel migliore dei casi, di un pugno di intellettuali liberi pensatori che trascorrevano le giornate discutendo nei caffè. Una generazione dopo, anche il più stantìo fro magistrati, dei preti, o dei presidi di scuola si trovarono obbligati a difendere, a voce, queste idee. Non molto più tardi, si arrivò alla situazione in cui ci troviamo oggi: sono diventati senso comune, alla base stessa del dialogo politico.
La maggioranza delle rivoluzioni precedenti al 1968, avevano introdotto solo rifiniture pratiche, come l'estensione del diritto di voto, l'educazione primaria universale e lo stato sociale. Al contrario, la rivoluzione mondiale del 1968 è stata, nel sua versione cinese, una rivolta di studenti ed altri gruppi di giovani che appoggiavano l'appello di Mao per una rivoluzione culturale; o a Berkley e New York, segnata da un'alleanza fra studenti, bohémien e ribelli culturali; o anche a Parigi, dove si formò una coalizione di studenti e di lavoratori,e fu una ribellione contro la burocrazia, il conformismo, e contro tutte le idee di assoggettamento dell'immaginazione umana, un progetto che aveva in animo di rivoluzionare non solo la vita economica e politica, ma ogni aspetto della vita umana. Per questo, nella maggioranza dei casi, i ribelli non cercarono di prendere il controllo dell'apparato statale, dato che vedevano l'apparato in sé come la radice del problema.
Oggi, va di moda valutare i movimenti sociali della fine degli anni '60 come un vergognoso fallimento. E? un argomento convincente. Non c'è dubbio che, nella sfera politica, la destra sia stata la principale beneficiaria dell'estesa trasformazione del senso comune politico, in cui si dà priorità agli ideali di libertà, di immaginazione e di desiderio dell'individuo, si disprezza assolutamente la burocrazia e si sospetta della gestione governativa. Innanzitutto, i movimenti degli anni '60 hanno permesso la ripresa massiccia delle dottrine del libero mercato, che erano state praticamente abbandonate a partire dal XIX secolo. Non è un caso che la generazione degli adolescenti che diede impulso alla rivoluzione culturale in Cina sia stata la stessa che, due decenni più tardi, ha presieduto all'introduzione del capitalismo. A partire dagli anni '80, "libertà" è diventata sinonimo di "mercato" e "mercato" ha assunto un significato identico a "capitalismo", curiosamente, anche in luoghi come la Cina, dove si erano sviluppati in mille anni sistemi di mercato molto sofisticati che, tuttavia, avevano scarse relazioni con il capitalismo.
Non c'è limite ai paradossi. Anche questa nuova ideologia di libero mercato che si è presentata, soprattutto, come un rifiuto della burocrazia, in pratica è stata direttamente responsabile del primo sistema di amministrazione che opera su scala globale, con i suoi interminabili strati di organi burocratici pubblici e privati: FMI, Banca Mondiale, WTO, organizzazioni commerciali, istituzioni finanziarie, corporazioni trans-nazionali e ONG. Questo è proprio il sistema che ha imposto l'ideologia del libero mercato e che ha aperto le porte ad un saccheggio finanziario a livello globale, tutto sotto l'attenta tutela dell'apparato militare statunitense. Non c'è da stupirsi che il primo tentativo di ricreare un movimento rivoluzionario mondiale, il movimento per la giustizia globale, che raggiunse il suo apice fra il 1993 ed il 2003, sia stato, in effetti, una ribellione contro l'egemonia di questo stesso sistema di burocrazia globale.
Ciò nonostante, quando gli storici del futuro guarderanno indietro, credo che arriveranno alla conclusione che l'eredità delle rivoluzioni della fine degli anni sessanta sia stata più profonda di quanto possiamo immaginare e che il trionfo dei mercati capitalistici - con tutto il loro dispiegarsi globale di amministratori e sicari - che tanto importante e definitivo ci è parso, dopo il collasso dell'Unione Sovietica nel 1991, sia stato molto più superficiale di quanto pensiamo.
Per fare un esempio ovvio, si sente spesso dire che le proteste contro la guerra della fine degli anni sessanta e dell'inizio dei settanta, si siano rivelati un fallimento a causa della loro incapacità di accelerare in maniera apprezzabile la ritirata degli Stati Uniti dall'Indocina. Ma da allora in poi, gli organismi che controllavano la politica estera statunitense, terrorizzati davanti alla prospettiva di affrontare un rifiuto popolare simile - o anche peggio, un rifiuto in seno al proprio apparato militare, che aveva subito una vera e propria crisi all'inizio degli anni settanta - per quasi trent'anni evitarono di inviare forze di terra statunitensi in qualsiasi conflitto su larga scala. C'è voluto l'11 settembre, un attacco con migliaia di vittime civili in territorio statunitense, per superare completamente la famosa "sindrome del Vietnam" e anche così i promotori della guerra hanno dovuto fare uno sforzo quasi ossessivo per assicurare che questa guerra fosse "a prova di proteste". C'è stata una propaganda incessante, a cui si sono aggiunti i media della comunicazione, mentre gruppi di esperti facevano previsioni esatte sul numero di basi militari (ad esempio, su quante morti di soldati statunitensi sarebbero state necessarie per far salire l'opposizione di massa) e le regole d'ingaggio venivano disegnate attentamente per non superare una tale cifra.
Il problema fu così che queste regole di ingaggio, il cui fine era quello di minimizzare il numero di morti e feriti fra gli effettivi statunitensi, ebbero come conseguenza inevitabile il fatto che migliaia di donne, di bambini e di anziani finirono per essere "danni collaterali", cosa che provocò un odio intenso nei confronti delle forze occupanti, sia in Iraq che in Afghanistan e, di conseguenza, impedì che gli Stati Uniti potessero raggiungere i loro obiettivi militari. E la cosa sorprendente è che i pianificatori della guerra sembravano essere pienamente coscienti di questo fatto. Solo che non aveva importanza. Prevenire qualsiasi opposizione efficace sul territorio nazionale era, per loro, assai più importante che vincere la guerra stessa. Era come se le forze nordamericane in Iraq fossero state alla fine sconfitte dal fantasma di Abbie Hoffman!
E' chiaro che se il movimento contro la guerra degli anni '60 continua a tenere ammanettati i pianificatori militari statunitensi del 2012, difficilmente può essere considerato un fallimento. Ma da tutto questo nasce una domanda: Cosa avviene quando creare questo senso di fallimento, di inutilità assoluta di qualsiasi azione politica contro il sistema, diventa l'obiettivo principale di coloro che detengono il potere?
La cosa mi venne in mente la prima volta mentre partecipavo alle proteste contro il Fondo Monetario Internazionale, a Washington, nel 2002. L'11 settembre era ancora molto recente ed eravamo relativamente pochi ed inefficaci a fronte di una presenza schiacciante della polizia. Non avevamo la sensazione di essere capaci di sabotare gli incontri. La maggioranza di noi era arrivata lì quasi depressa. Ma il giorno dopo, parlando con alcune persone che conoscevo e con alcuni che partecipavano al vertice, scoprii che eravamo riusciti ad ostacolarlo. I fatto era che la polizia aveva imposto delle misure di sicurezza talmente restrittive che si erano dovuti annullare la metà degli eventi, e la maggior parte di quelli che si erano tenuti, si erano svolti su Internet. Cioè, il governo aveva deciso che mandare a casa i manifestanti con la sensazione di una sconfitta, era più importante che portare a termine un vertice del FMI. Se era così, è evidente che attribuivano uno straordinario protagonismo ai manifestanti.
E' possibile che quest'approccio preventivo nei confronti dei movimenti sociali, la pianificazione delle guerre e dei vertici commerciali nelle quali la priorità maggiore diventa lo smantellare qualsiasi opposizione efficace, rispetto a vincere la guerra o a svolgere il vertice, sia sintomatica di un principio ancor più generale? Potrebbe essere che gli attuali dirigenti del sistema, molti dei quali erano giovani impressionabili quando presenziavano alle agitazioni della fine degli anni sessanta, siano ossessionati, coscientemente o meno (e sospetto si tratti della prima), dalla possibilità che i movimenti sociali rivoluzionari tornino a mettere in discussione il senso comune prevalente?
Questo spiegherebbe molte cose. Gli ultimi 30 anni si sono fatti conoscere in tutto il pianeta come l'età del neoliberismo, un'epoca caratterizzata dalla reintroduzione di una fede abbandonata fin dal XIX secolo, per cui i concetti di libero mercato e di libertà umana vengono ad essere praticamente intercambiabili. I neoliberismo ha sempre sofferto di una contraddizione interna. Da una parte, dichiara che gli imperativi economici devono avere priorità su qualsiasi altra considerazione. La politica serve solo a creare condizioni favorevoli alla crescita economica, permettendo che la mano invisibile dei mercati compia la sua magia. Qualsiasi altro sogno o ideale di uguaglianza o di sicurezza dev'essere sacrificato davanti all'obiettivo primario: la produttività economica. Tuttavia, il rendimento economico mondiale degli ultimi trent'anni è stato, senza dubbio, mediocre. Ad eccezione di alcuni paesi, specialmente la Cina (che, significativamente, ha ignorato la maggior parte dei dettami neoliberisti), gli indici di crescita sono rimasti molto al di sotto dei livelli visti nel capitalismo "classico" degli anni cinquanta, sessanta, e anche settanta, con la loro maggior gestione governativa e il loro stato sociale. Si può dire, perciò, che il progetto neoliberista era già un fallimento colossale secondo i suoi stessi standard, anche prima del collasso del 2008.
Ma se facciamo orecchie da mercanti al discorso dei leader mondiali ed osserviamo il neoliberismo come progetto politico, improvvisamente, sembra essere stato quello più efficace. Può essere che i politici, i manager, i burocrati e le altre persone che si riuniscono regolarmente nei vertici di Davos o del G20 abbiano fallito miseramente nel creare un'economia capitalista mondiale capace di soddisfare le esigenze della maggioranza degli abitanti del mondo (e non parliamo di dare speranza, felicità, sicurezza o senso alla loro vita), però sono stati terribilmente abili nel convincere il mondo che il capitalismo - soprattutto il capitalismo finanziario semifeudale attuale - sia l'unico sistema economico praticabile. Visto da questa prospettiva, si tratta di un risultato impressionante!
Come ci sono riusciti? Il loro atteggiamento preventivo ne confronti dei movimenti sociali ha giocato un ruolo evidente in tutto ciò; non si può permettere, a nessuna condizione, che le alternative, né coloro che le propongono, vengano percepite come vincenti. Un simile atteggiamento potrebbe spiegare gli importi quasi inimmaginabili che sono stati investiti in "sistemi di sicurezza" di ogni tipo. Di fatto, gli Stati Uniti, che ora mancano di grandi rivali, hanno una spesa militare e di intelligence, maggiore di quella che avevano durante la Guerra Fredda. A questo bisogna aggiungere l'accumulo impressionante di agenzie private di sicurezza e di intelligence, così come la militarizzazione della polizia, oltre a guardie e mercenari. In ultimo, non bisogna dimenticare la glorificazione delle forze di polizia fatto dagli organi di propaganda, incluso un enorme conglomerato mediatico che non esisteva prima degli anni sessanta. In generale, questi sistemi, più che dedicarsi ad attaccare direttamente i dissidenti, contribuiscono a creare una situazione onnipresente di paura, di conformismo patriottardo, di insicurezza vitale e di pura disperazione, che riduce qualsiasi concetto di cambiare il mondo ad una fantasia apparente e inutile. Ma questi sistemi di sicurezza sono anche estremamente costosi. Alcuni economisti stimano che il 25% della produzione nordamericana è dedicata a "lavori di vigilanza", quali difendere proprietà, supervisionare il lavoro ed altri tipi di attività che hanno il fine di tenere a bada i compatrioti. La maggior parte di quest'apparato di sicurezza è, in definitiva, un onere economico.
Di fatto, molte delle innovazioni economiche degli ultimi trent'anni hanno reso più in senso politico che economicamente. La sostituzione dell'impiego a vita, garantito, con un modello di contrattazione precaria non ha creato una forza lavoro più efficiente, però è stato straordinariamente efficace nel distruggere sindacati e nello spoliticizzare il movimento operaio in generale. Si può dire lo stesso dell'aumento esponenziale della giornata lavorativa. Nessuno che deve lavorare sessanta ore alla settimana ha tempo per l'attività politica.
Rispetto alla scelta fra l'accettare il capitalismo come unico sistema economico possibile e trasformare il capitalismo in un sistema economico più praticabile, il neoliberismo opta sempre per la prima opzione. Il risultato finale si manifesta in una campagna implacabile contro l'immaginazione umana. O per essere più precisi, l'immaginazione, il desiderio, la creatività individuale e tutto quello che si pretendeva di liberare nel corso dell'ultima grande rivoluzione mondiale dev'essere strettamente confinato dentro i parametri del consumismo o, al massimo, alla realtà virtuale di Internet, essendo totalmente bandito d qualsiasi altro ambito. Stiamo parlando dell'assassinio dei sogni, dell'imposizione dei meccanismi della disperazione, volti a calpestare qualsiasi speranza di un futuro alternativo. Ma come risultato dell'aver messo tutti gli sforzi dentro lo stesso paniere politico, siamo arrivati alla strana situazione per cui assistiamo al sistema capitalista che si sbriciola sotto i nostri occhi, proprio nel momento in cui si è concluso che non esiste alternativa possibile.
Normalmente, quando si mette in discussione la fede generalizzata nel fatto che il sistema economico e politico attuale sia l'unico praticabile, la prima reazione suole essere quella di esigere un minuzioso contro-progetto architettonico circa il funzionamento del sistema alternativo con grande ricchezza di dettagli a proposito della natura dei suoi strumenti finanziari, fonti di energia e politiche di mantenimento del sistema fognario. Poi, probabilmente verrà richiesto un programma dettagliato che possa descrivere come attuare in pratica un tale sistema. Visto sotto una prospettiva storica, tutto questo è ridicolo. Quando mai si è prodotto un cambiamento sociale seguendo un disegno predeterminato? Sarebbe come se credessimo che, nella Firenze del Rinascimento, una piccola cerchia di visionari abbia concepito qualcosa chiamato "capitalismo" ed abbia pianificato, nel dettaglio, il funzionamento del mercato borsistico e le fabbriche per poi elaborare un programma per mezzo del quale realizzare tale visione. Di fatto, l'idea è tanto assurda che ci si potrebbe chiedere come si possa arrivare alla conclusione immaginaria per cui ogni cambiamento comincerebbe in questo modo.
Questo non significa che le visioni utopiche, o i progetti, siano sbagliati, ma solo che devono mantenersi sul loro terreno. Il teorico Michael Albert ha proposto un piano dettagliato circa il come funzionerebbe un'economia moderna senza denaro, partendo da una base democratica e partecipativa. Mi sembra un risultato importante, non perché io creda che questo modello esatto venga istituito così come egli lo descrive, ma perché rende impossibile dire che un progetto del genere risulti inconcepibile. In alcuni casi, questi modelli sono soltanto degli esperimenti intellettuali. In realtà, non possiamo concepire i problemi che sorgeranno quando cominceremo a costruire una società libera. Può essere che gli ostacoli che ora ci sembrano insormontabili, si riducano a niente, mentre quegli altri che pensiamo non si possano verificare, si rivelino come problemi diabolici. Il numero di fattori imprevedibili è infinito.
Quello più evidente è la tecnologia. E' questo il motivo per cui sarebbe assurdo immaginare un gruppo di attivisti nell'Italia del Rinascimento che progetta un modello di mercato borsistico o un contesto industriale. Quello che ha finito per accadere è basato su una serie di tecnologie che non avrebbero mai potuto essere anticipate ma che, in parte, sono poi emerse solo perché la società incominciò a muoversi in una determinata direzione. Forse per questo, molte delle visioni più convincenti di una società anarchica sono state modellate da scrittori di fantascienza, fra i quali, Ursula K. Le Guin, Starhawk, Kim Stanley Robinson. In un mondo fittizio, almeno si ammette che l'aspetto tecnologico è pura speculazione.
Personalmente, sono meno interessato a determinare il tipo di sistema economico ideale per una società libera, che a creare i mezzi necessari attraverso i quali le persone possano prendere tali decisioni da sole. Esattamente, come si manifesterebbe una rivoluzione del senso comune? Non lo so, ma mi vengono in mente diverse idee convenzionali che, senza dubbio, bisogna rivalutare se pretendiamo realmente di creare un qualche tipo di società libera praticabile. Una di esse è la natura del denaro e del debito, che ho analizzato in dettaglio in un recente libro. Arrivando anche a proporre un giubileo del debito, un annullamento generale, in parte per illustrare il fatto che il denaro non è altro che un prodotto umano, una serie di promesse che, data la loro natura, possono sempre essere rinegoziate.
Ugualmente, credo che anche il concetto di lavoro debba essere riconsiderato. Sottomettersi alla disciplina lavorativa - la supervisione, il controllo, e perfino l'auto-controllo del lavoratore autonomo con ambizioni - non fa di noi delle persone migliori. In realtà, è probabile che faccia di noi delle "persone peggiori" sotto degli aspetti realmente importanti. Sottomettervisi è una sfortuna che, nel migliore dei casi, è occasionalmente necessaria. Ma solo quando rifiutiamo l'idea che il lavoro sia una virtù in sé, possiamo domandarci quali virtù avrebbe. La risposta è evidente: il lavoro è virtuoso quando serve ad aiutare il prossimo. Ripensare la definizione della produttività renderebbe più facile ridefinire il concetto stesso di lavoro, dato che, tra le altre cose, lo sviluppo tecnologico non dovrebbe essere diretto solo verso la creazione di un maggior numero di prodotti di consumo e verso una mano d'opera sempre più disciplinata, ma ad eliminare del tutto tali forme di lavoro.
Quello che si vorrebbe sono dei lavori che possono essere realizzati solo dagli esseri umani, quei lavori di assistenza e cura che sono stati colpiti in special modo dalla crisi e che hanno originato il movimento Occupy Wall Street. Cosa accadrebbe se smettessimo di comportarci come se il modello primario di lavoro fosse solo lavorare in una fabbrica, in un campo di grano o in un cubicolo in un'officina e, invece, partissimo dal modello di una madre, un'insegnante o un'infermiera? Potremmo essere obbligati a concludere che l'autentico scopo della vita umana non è contribuire a qualcosa chiamata "economia" (un concetto che neppure esisteva fino a trecento anni fa), ma il fatto che siamo tutti, e sempre siamo stati, progetti di creazione reciproca.
Per ora, la necessità più urgente sarebbe, probabilmente, quella di rallentare la macchina produttiva. Può sembrare strano, dato che la nostra reazione automatica ad una crisi è supporre che la soluzione sia che tutti si lavori di più, ma questo è precisamente il tipo di reazione che provoca il problema. Ma considerando com'è il mondo, la conclusione è ovvia. Sembra che ci troviamo di fronte a dei problemi insolubili. Da una parte, siamo stati testimoni di una serie interminabili di crisi del debito globale, la cui gravità è sempre aumentata a partire dagli anni settanta e che ha fatto sì che la quantità accumulata del debito, sia sovrano che municipale, aziendale o personale, risulti evidentemente insostenibile. Dall'altra parte, stiamo soffrendo una crisi ecologica, un processo implacabile di cambiamento climatico che minaccia il pianeta con inondazioni, siccità, caos, carestie e guerre. In un primo momento, può sembrare che le due cose non siano in relazione ma, al fondo, sono la stessa cosa. Cos'è il debito, se non la promessa di una produttività futura? Quando diciamo che il livello di debito globale è in aumento, stiamo dicendo che come collettivo, gli esseri umani promettono di produrre nel futuro una quantità ancor maggiore di beni e di servizi, rispetto a quanta ne produciamo oggi. Ma anche i livelli attuali sono chiaramente insostenibili. E' esattamente per questo che si sta distruggendo il pianeta ad una velocità sempre maggiore.
Perfino i leader mondiali cominciano a concludere, a malincuore, che un qualche tipo di cancellazione massiccia del debito, un qualche tipo di giubileo, sia inevitabile. Il vero conflitto politico si sviluppa intorno a come questo avverrà. Non sarebbe più logico risolvere entrambi i problemi in una volta? Perché non realizzare un taglio, il più grande possibile, del debito mondiale, seguito da una massiccia riduzione dell'orario di lavoro fino a, per esempio, una giornata lavorativa di quattro ore o un periodo di ferie garantite di cinque mesi? Dal momento che la popolazione non passerebbe tutte le sue nuove ore libere a braccia incrociate, una tale misura non solo salverebbe il pianeta, ma comincerebbe anche a cambiare le nostre concezioni di base a proposito di quel che significa un lavoro che crea valore.
Occupy ha fatto bene a non fare richieste specifiche, ma se io dovessi farne una, sarebbe questa. In fin dei conti, sarebbe un attacco ai precetti più radicati dell'ideologia dominante. La moralità del debito e la moralità del lavoro sono le due armi ideologiche più potenti che i dirigenti del sistema attuale maneggino. Per questo si aggrappano ad esse, anche mentre distruggono tutto il resto. E' anche il motivo per cui la cancellazione del debito sarebbe la richiesta rivoluzionaria perfetta.
Può darsi che tutto questo appaia molto distante. In questi momento, abbiamo come l'impressione che il nostro pianeta attenda una serie di catastrofi senza precedenti, e non quel tipo di trasformazioni morali e politiche che aprirebbero la strada verso un mondo diverso. Ma l'unica possibilità che noi abbiamo per evitare tali catastrofi, è quella di cambiare il nostro solito modo di pensare. Se gli eventi del 2011 hanno evidenziato qualcosa, è che l'epoca delle rivoluzioni non è finita. L'immaginazione umana si rifiuta ostinatamente di morire. E la storia ci dimostra che, quanto una significativa quantità di persone si libera simultaneamente dei limiti imposti alla loro immaginazione collettiva, perfino i presupposti che ci sono stati inculcati, circa quel che è e che non è politicamente possibile, possono crollare dalla notte al mattino.

- David Graeber - 2013 -

fonte: The Baffler

sabato 27 settembre 2014

Matematicamente

Godel

Kurt Gödel, viene ricordato per molte cose, sia nell'ambito della matematica che fuori di esso, comprese le sue cosiddette "9 prove dell'esistenza di Dio". Meno conosciuta è la leggenda che vuole avesse trovato una strana clausola nella Costituzione degli Stati Uniti d'America, la quale proverebbe che gli Stati Uniti potrebbero diventare, del tutto legalmente, una dittatura; la leggenda continua dicendo che egli avrebbe esposto la sua teoria, raccontandola ai funzionari dell'Ufficio Immigrazione.
Kurt Gödel era nato in Austria nel 1906, e se con lui fosse nato un genio filosofico o un pazzo eccentrico, oppure, ancora, un politico ingenuo e sincero è ancora argomento di dibattito, insieme al fatto se non fosse poi semplicemente diventato tutte queste cose insieme. Quello che invece è fuori discussione attiene al fatto che quando i nazisti si presero l'Austria non aveva ancora dimostrato alcuna delle suddette qualità. Fatto sta che nell'epoca di cui sopra Gödel, insieme a molte altre menti straordinariamente intelligenti, se la svignò in America. Alcuni di loro vennero accolti assai meglio di altri. Per esempio, Albert Einstein non ebbe problemi ad entrare, ma la cittadinanza di Gödel alla fine del 1940 era ancora in discussione.
Per ottenere la cittadinanza, Gödel aveva dovuto superare diversi test, sottoporsi ad un'intervista, ed avere un paio di persone che garantissero per lui. Una di queste persone era Albert Einstein, così Gödel poté ottenere la cittadinanza. Dopo che questa venne confermata, Einstein raccontò di come era andata l'intervista di Gödel. Il funzionario che conduceva il colloquio aveva fatto cenno a quanto fosse meraviglioso che gli Stati Uniti non erano, e non sarebbero mai stati, una dittatura. Gödel, ovviamente compiaciuto del fatto che fosse stato introdotto quell'argomento, rispose che in realtà era perfettamente possibile, per gli Stati Uniti, diventare una dittatura. Infatti, disse, egli aveva scoperto una lacuna nella Costituzione che rendeva tutta la cosa assai probabile.
Fu a questo punto che arrivò Einstein. Gödel non intendeva essere cinico; quello che voleva era abbracciare con tutto il cuore il suo nuovo paese, e provare ad indicare qualcosa che avrebbe potuto causare problemi a quel paese. Egli non sapeva che quel genere di cose potevano essere dette solo quando si fosse asciugato l'inchiostro del certificato di cittadinanza e fosse stato pronunciato il giuramento. Ma divenne un cittadino americano, comunque, nonostante il suo tentativo di mostrare come il documento centrale del governo americano fosse in realtà una strada verso la dittatura.
La storia ha guadagnato lo status di leggenda metropolitana. Né Einstein né Gödel hanno mai rivelato quale fosse il problema con la Costituzione, o come esso potesse venire sfruttato logicamente. Generalmente, si pensa che si riferisse all'Articolo V, ed al potere di emendare la Costituzione, che potrebbe risultare nello smantellamento legale della Costituzione stessa. Lo stesso Articolo V può essere emendato al fine di rendere più facili le modifiche, e da lì potrebbero provenire tutti gli altri cambiamenti alla Costituzione.
A questa storia, c'è un appendice che racconta di quando Gödel disse della lacuna a Leo Slizard (fisico e scrittore di fantascienza): Slizard rispose che Gödel non avrebbe dovuto preoccuparsi; chiunque fosse stato abbastanza intelligente da capire come riuscire a farlo, non sarebbe mai arrivato abbastanza lontano nella politica americana, per avere la possibilità di farlo, e chiunque fosse stato senza scrupoli e spietato abbastanza per farlo, non avrebbe mai ottenuto il supporto popolare necessario.

venerdì 26 settembre 2014

Portbou, 26 settembre 1940. Oggi.

benjbrectt

Epitaffio. Per il suicidio del profugo W. B.

Ho saputo che hai alzato la mano contro te stesso
prevenendo il macellaio.
Esule da otto anni, osservando l’ascesa del nemico,
spinto alla fine ad un’invalicabile frontiera
hai valicato, dicono, una frontiera valicabile.

Imperi crollano. I capibanda
incedono in veste di uomini di stato. I popoli
non si vedono più sotto le armature.

Cosi il futuro è nelle tenebre, e le forze del bene
sono deboli. Tutto questo hai veduto
quando hai distrutto il torturabile corpo.

- Bertolt Brecht -

giovedì 25 settembre 2014

Il cattivo comportamento della scrittura

leguin350

Intervista di Michael Cunningham a Ursula K. Le Guin, su genere, generi, regole e narrativa
apparsa su Electric Literature, il 7 agosto 2014

Michael Cunningham: Gli scrittori, più o meno per definizione, si trovano sempre a scrivere dentro un periodo storico, anche se il periodo acquisisce un nome solo più tardi. Non credo che i vittoriani pensassero a sé stessi come vittoriani. Ok, i modernisti pensavano a sé stessi come modernisti, ma comunque ... A volte mi chiedo in che periodo ci troviamo, nel 2014. Per quanto mi riguarda, "post-modernismo non lo trovo molto soddisfacente.
Anche se non ho un nome con cui chiamarlo - confido che la storia glielo darà - ritengo che l'aspetto più importante di questo periodo sia quello che io chiamo "ampliamento".
Ampliamento nel senso di una convinzione collettiva molto più grande circa chi abbia il diritto di raccontare storie, quali storie valgono la pena di essere raccontate, e chi, fra i narratori, debba essere preso sul serio. Penso ad "ampliamento" non solo nei termini di razza e genere, ma anche nei termini di quello che per molto tempo è stata etichettata come "narrativa di genere".
Ritengo che alcuni dei più innovativi, profondi, e meravigliosi romanzi scritti oggi si trovi accantonato negli scaffali della sezione fantascienza delle librerie. Quella sezione probabilmente continere libri più affascinanti di quella nella sezione della ... come chiamarla? ... narrativa principale ...
Potresti parlare di questo? Della rottura delle barriere fra i libri "di genere" ed i libri che generalmente si trovano impilati sui tavoli, appena entri, di Barnes & Noble? Questo è particolarmente importante per me, che da sempre provo a portare i lettori ad avventurarsi nella narrativa di genere, ed ancora incontro un sorprendente grado di resistenza. La frase, "Io non leggo fantascienza" viene pronunciata da un sorprendente numero di beneducate ed erudite bocche.

Ursula K. Le Guin: Beh, hai detto molte cose che avrei detto anch'io, e sono felice di sentirle dire da uno scrittore la cui fama non si lega ad un "genere" ma a quella che ancora chiamiamo letteratura.
E, naturalmente, è questo il problema che persiste: il mantenimento di una divisione arbitraria fra "letteratura" e "genere", il rifiuto di ammettere che ogni opera di narrativa appartiene ad un genere, o a più generi.
Ci sono molte differenze reali fra fantascienza e narrativa realistica, fra horror e fantasy, fra storia d'amore e mystery. Differenze nello scriverli, nel leggerli, nel criticarli. Vive les differences! Sono quello che dà a ciascun genere il suo particolare aroma e sapore, il suo particolare interesse per il lettore - e per lo scrittore.
Ma quando le caratteristiche di un genere vengono controllate, sistematizzate ed enfatizzate dagli editori, o dai critici, allora diventano limitazioni, piuttosto che possibilità. Smerciabilità, ripetitività, prevedibilità si sostituiscono alla qualità. La forma letteraria degenera in una formula. Scrittori pagati un tanto a rigo nella catena di montaggio della fabbrica delle stronzate. Hollywood divora e rigurgita le stronzate, e ben presto il genere viene giudicato secondo il suo minimo comune denominatore... E allora abbiamo la situazione che si è verificata dal 1940 fino alla fine del secolo: "il genere" usato non come descrizione utile, ma come giudizio negativo, come un rifiuto.
"I generi" venivano tutti ignorati e solo la narrativa realistica era considerata letteratura, nella mente degli uomini che controllavano la critica e l'insegnamento. Il realismo è certamente un genere letterario enorme e meravigliosamente capiente, e ha dominato la narrativa sin dal 1800, e anche prima. Ma il dominio non è sinonimo di superiorità. Il fantasy è altrettanto immenso del realismo, e molto più vecchio - sostanzialmente coevo alla stessa letteratura. Eppure il fantasy è stato relegato all'asilo per 50 o 60 anni.
Di questi tempi, mi piace ricordare Edmund Wilson, il re dei bigotti realisti, che gridava "Ooh, quei terribili Orchi!" e credo che egli abbia fatto di questo un punto critico arguto e convincente.
Come puoi vedere, porto un po' di risentimento, e qualche cicatrice, proveniente dagli anni del bigottismo anti-genere. La mia narrativa, che va liberamente in giro fra realismo, realismo magico, fantascienza, fantasy di vario genere, finzione storica, narrativa per adolescenti, parabola, ed altri sottogeneri, fino al punto che molta di essa è ingenerificabile, tutta insieme è stata gettata nel cestino della fantascienza oppure etichettata come sotto-letteratura per bambini.
E le etichette rimangono attaccate. Come hai detto, un bel po' di persone hanno ancora pregiudizi sul genere. Incontro ancora matrone che mi dicono gentilmente che il loro bambini amano i miei libri ma che loro naturalmente non li hanno letti, e persone che sono sicure che io sappia che loro non leggono quella robaccia che parla di astronavi. No, no, loro leggono Letteratura - realismo. Come Cinquanta sfumature di grigio.
Ma le pareti che io ho martellato così a lungo sono crollate. Sono macerie. Mi piace il tuo termine, "ampliamento", riferito a quello che sta succedendo. Sono d'accordo sul fatto che "postmoderno" sia una parola veramente floscia. Ma credo davvero di non volere un'etichetta per il posto nuovo in cui ci troviamo. Le etichette diventano gabbie. Mi piace vedere persone come  Michael Chabon e Kij Johnson e David Mitchell e Jo Walton — e soprattutto, il vecchio José Saramago! - danzare in giro per paesaggi letterari, usando liberamente frammenti di genere per costruire le loro meravigliose storie, trovando forme inclassificabili per una narrativa irresistibile. E vedere la reputazione letteraria di grandi non-realisti come Jorge Luis Borges ed Italo Calvino, conservarsi o crescere - insieme allo status dell'Autore dell'Orribile Orco, e di alcuni oscuri scrittori di quella robaccia che parla di astronavi, come il mio ex-compagno di classe a Berkley, Philip K. Dick. Vive la Révolution!

Michael Cunningham: E' stato scritto a proposito dell'opera di Samuel R. Delany che, "Immaginando un nuovo genere e l'orientamento sessuale che ne risulta, la storia ci permette di riflettere sul mondo reale, pur mantenendo una distanza straniante".
La storia in questione era, "Sì, e Gomorra", ma si potrebbe dire lo stesso di altri lavori di Delany, e certamente anche di alcuni dei tuoi, soprattutto de "La mano sinistra delle tenebre".
Non c'è bisogno di focalizzarsi sui vantaggi di rivendicare un diritto, nella narrativa, per re-immaginare i generi, anche se questo sarebbe certamente interessante. Potresti anche parlare, se vuoi, delle libertà che si offrono quando uno scrittore si libera da quello che suppongo si possa chiamare il mondo "naturale" - cioè, dal pianeta Terra, dai suoi abitanti e dalle sue convenzioni.

Ursula K. Le Guin: Penso che Delany utilizzasse il concetto, molto utile, di Darko Suvin di "straniamento cognitivo" per compiere quello che forse è il gesto caratteristico della fantascienza: Dare al lettore un nuovo posto dal quale guardare al vecchio mondo. O, come ha detto Suvin, uno specchio nel quale puoi vedere la tua nuca. Stendhal, cupo realista, si vantava del fatto che i suoi romanzi fossero "uno specchio sul lato della strada" che riflettevano la realtà. Ma un tale specchio non può mostrati il mondo, o te stesso, da un punto di vista dal quale non hai mai guardato prima, come fa la fantascienza.
La cosa da ricordare, per quanto esotica o futuristica o aliena sembri la fantascienza, e che tu in realtà stai guardando al tuo mondo e a te stesso. La fantascienza seria considera il mondo reale e l'essere umano tanto quanto lo considera la narrativa realista. Dopo tutto, l'immaginazione può solo prendere parti della realtà e ricombinarli insieme. Non siamo Dio, la nostra parola non è il mondo. Ma le nostre menti possono imparare un bel po' sul mondo, giocando con esso, e l'immaginazione trova un campo di gioco infinito nella narrativa.
Nel corso degli anni '60 divenne importante per molti di noi, soprattutto donne e gay, cercare un'idea migliore su che cosa consistesse esattamente il "genere". "Lui Tarzan, Io Jane", non sembrava più essere abbastanza adeguato. Lo specchio della fantascienza si presentava a me ( Theodore Sturgeon, e Samuel R. Delaney, Vonda McIntyre, Joanna Russ, e molti altri ) come un ottimo modo per ottenere un differente punto di vista. Lo straniamento cognitivo poteva aiutare a sviluppare nuove cognizioni, una comprensione più ampia.
E questo, come hai detto, offre ad uno scritto una libertà desiderabile. Per me, però, non si tratta di una liberazione o di una fuga dal nostro mondo. Il nostro mondo è tutto quello che ho per farci le mie storie, la mia gente è la sola gente che conosco. Ma costruendo mondi e genti, posso ricombinare e giocare con quello che abbiamo e siamo, posso domandare cosa accadrebbe se fosse così anziché cosà - Cosa accadrebbe se nessuno avesse un genere fisso, come sul pianeta Gethen? Cosa accadrebbe se i matrimoni, anziché di una coppia e due persone, consistessero di quattro persone e di quattro coppie omo ed eterosessuali, come sul pianeta O? Se nessuno, in un mondo, avesse mai mosso guerra, come differirebbero in quel mondo le persone e la vita quotidiana, rispetto alla nostra, e in quali maniere?
In tal senso, molta della mia fantascienza è antropologica. Mio padre era un etnologo, che ha imparato dagli indiani della California che la California potrebbe essere abitata in una maniera molto diversa da come noi l'abitiamo - molti modi differenti. Io spedisco persone immaginarie su pianeti immaginari per imparare altri modi in cui noi potremmo abitare il nostro, di pianeta. Sento una certa urgenza nel dovere ottenere una tale informazione, dal momento che noi stiamo abitando il nostro pianeta in una maniera sempre più distruttiva ed insensata.

Michael Cunningham: Sei ancora interessata alle distinzioni fra fantascienza, narrativa speculativa e fantasy? Ho letto interviste, in passato, nelle quali discutevi di queste cose, e mi piacerebbe avere un tuo commento circa il tuo pensiero attuale in quest'area, a meno che tu non sia più particolarmente interessata a questo.

Ursula K. Le Guin: E infatti è così, Michael. Mi sono sentita obbligata per così tanti anni a protestare, a sproloquiare intorno a queste distinzioni - quelle autentiche ed utili - che venivano equivocate come giudizi di valore. Ora la sentenziosità è venuta meno, e questo è grande. Non devo più preoccuparmi, non devo sproloquiare. Meno male!

Michael Cunningham: Tengo un corso universitario che si chiama "Leggere narrativa per mestiere", e il tuo racconto, “The Ones Who Walk Away From Omelas” è stato fin dall'inizio nel programma. Io e i miei studenti, abbiamo discusso di quel racconto all'inizio del semestre, durante una riunione di classe che io chiamo "Le Regole".
Ricordo loro per tutto il semestre che non ci sono regole, al più ci sono pochi principi generali che sembrano funzionare, per gli scrittori di narrativa, qualche volta. E, ok, qualche volta funzionano più spesso di quanto non funzionino.
La tua storia viene offerta a loro come un esempio di quanto lontano si possa spingere uno scrittore rispetto ai principi generali, e produrre ancora una notevole, coinvolgente, commovente storia.
Spero che non ti dispiaccia  se ti dico che la tua “The Ones Who Walk” è una dello poche storie che riscuote sempre un grande successo, con ogni studente, ogni semestre.
Discutiamo molti aspetti di quella storia, con in primo piano il suo disprezzo per quello che suppongo di poter chiamare "buon comportamento della scrittura". Tu ti rivolgi direttamente al lettore. Ricordi al lettore che la storia è un'invenzione, e che lo scrittore di solito prova ad immaginare cosa potrebbe essere più efficace rispetto al lettore, anche se si "suppone" che questo sforzo venga celato. Rifuggi dai personaggi centrali. E la storia presenta un vero e proprio dilemma morale, uno di quelli più o meno insolubile, in un ambito nel quale gli scrittori si "suppone" che rimangano almeno in apparenza neutrali, filosoficamente e politicamente. O, piuttosto che essere sovversivi filosofici e politici; nascondere il pensiero sotto i personaggi e gli eventi.
Vuoi parlare di questo racconto? SU come ci sei arrivata, come lo hai sviluppato, se hai avuto dubbi circa la sua eterodossia dopo averlo finito?

Ursula K. Le Guin: Onestamente, l'ortodossia non mi riguarda. Seguo solo le regole che mi portano dove voglio andare. Se non c'è alcuna regola, me ne faccio una mia (e mi ci attengo scrupolosamente).
I due libri per i quali mi sono davvero preoccupata di essere andata troppo lontano rispetto alle aspettative dei critici e dei lettori sono stati: La mano sinistra delle Tenebre (era totalmente sbagliato, mi ha preso la mano fin dall'inizio) e Lavinia (in parte era giusto, ahimè, però sembra che stia trovando i suoi lettori), Ma non ricordo preoccupazioni circa Omelas.
Mentre lo scrivevo mi divertivo moltissimo a sfidare tutte le convenzioni, a ballare una danza metanarrativa sulla tomba dello Scrittore che si Auto-Nasconde.
L'ho spedito alla mia agente, Virginia Kidd, che avrebbe potuto vendere Il Capitale ad un Tea Party del Congresso in Texas. Lo ha venduto bene e da allora è stato costantemente ristampato. Insegnanti di tutti i campi - letteratura, filosofia, sociologia, economia - lo uso come stimolo per la discussione. Esso pone una questione morale spaventosa (che si sono posti sia William James che Dostoevskij, e che è direttamente pertinente alla nostra società) che non offre una soluzione diretta. Questa cosa fa arrabbiare molti studenti e li rende infelici e insoddisfatti, per cui se ne lamentano, allora gli altri studenti vogliono spiegare loro ...
"Il buon comportamento della scrittura" è una bella frase. Mi fa pensare a quando ero una matricola al Radcliffe College (ora sussunto ad Harvard) nel 1947. Il preside del College informò paternamente noi ragazze che eravamo lì per imparare a vivere con raffinata eleganza.
Già. Uhuhu. Un mucchio di pazze, sgraziate, appassionate, adolescenti intellettuali di sesso femminile fameliche di imparare ogni cosa che Harvard ci avrebbe insegnato - ed eravamo lì per imparare a comportarci bene? Come delle signore? Come apparecchiare una bella tavola e come versare il tè?
Fortunatamente, Harvard ci ha dato una superba formazione, facendo sì che almeno qualcuna di noi cominciasse ad imparare come e quando rovesciare il tavolo e la teiera. E perché.

Michael Cunningham: C'è qualche domanda che vorresti il tuo intervistatore ti facesse, e ancora non ha fatto?

Ursula K. Le Guin: Non ricordo che qualcuno mi abbia mai chiesto qualcosa circa l'importanza relativa degli esseri umani e degli esseri non-umani nella mia narrativa e nella mia poesia. Ad esempio, il posto piuttosto grande che animali ed alberi occupano nei miei scritti. I romanzi spesso consistono di relazioni umane, ma io spesso estendo queste relazioni fino ad includere altre creature, comprese foreste, dragoni e topi. Nella mia poesia c'è un sacco di geologia - rocce. Mi sembra di muovermi facilmente fuori da un universo umano-centrico. Forse mi diverto ad evadere? Non lo so ...

fonte: Electric Lit

mercoledì 24 settembre 2014

Consultori filosofici e Dentisti dello spirito

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Gli intellettuali dopo la lotta di classe
Dalla deconcettualizzazione alla disaccademizzazione della teoria
di Robert Kurz

La formulazione di teorie che abbiano pretesa esplicativa è passata di moda. Chiunque osi esprimere un pensiero concatenato, una teoria critica della società o una riflessione minimamente al di sopra del livello banale dell'attuale democrazia di mercato, diventa oggetto di sospetto. L'apparato teorico-concettuale viene visto come un'impertinenza: si potrebbe quasi parlare di una deconcettualizzazione delle scienze sociali ed umane. La presunta rinascita del pensiero cinico appartiene alla fenomenologia di un'epoca che vive la teoria vigente della fine della storia. Il "grugnire e scoreggiare collettivo nei seminari"(Sloterdijk) può essere valutato, non come un nuovo fiorire della filosofia, ma piuttosto come sintomo di una sua capitolazione senza condizioni. E' naturale che tali tendenze penetrino, poco a poco, nella pratica accademica quotidiana, il cui sospirare oramai senza speranza potrebbe quasi suscitare compassione. Con empiti di relativizzazione, con masochistica umiltà, si ritratta qualsiasi concetto, appena proclamato. La preoccupazione continua per le "differenze", esacerbata al punto di trasformarsi in dipendenza, sembra dissolvere gli oggetti storici e sociali, rendendoli irriconoscibili. Non si tratta, sicuramente, della critica del concetto svolta da Adorno nella sua "Dialettica negativa". Questa meritava il nome di critica eroica, poiché conservava ancora la dignità di un pensiero concettuale ed era indissolubilmente legata, di conseguenza, ad una critica fondamentale, pur senza speranza, della società. In tal senso, la nuova a-concettualità di oggi non può in nessun modo riferirsi ad Adorno, dovendo, al contrario, trattarlo come il più morto dei cani. La bandiera adorniana, per così dire, è stata oramai ammainata e i nuovi filosofi della a-concettualità si limitano ad innalzare bandiera bianca, sperando di essere confortati da quello che prima era oggetto di critica. Di conseguenza, una nuova a-concettualità non significa nient'altro che il desiderio di degradare la storia e la filosofia ad oggetti di uso capitalista. Col passare dei giorni, vediamo sempre più yuppie filosofici che sembrano dare le carte. Anche in questo senso, di certo, la filosofia continua ad essere "il suo tempo concepito nel pensiero" (Hegel), poiché gli yuppies filosofici corrispondo ai loro simili sociali. Il "denaro dello spirito" si trova nella stessa situazione in cui si trova il dollaro: ridotto a pura massa di manovra nelle mani degli speculatori, una sovrastruttura di credito paralizzata sull'orlo del collasso. In un'economia-casinò globale, lo spirito si converte in filosofia-casinò, ad uso domestico, della macchina autonomizzata del denaro. Non è un caso che anche il lifting "etico" della faccia dell'economia di mercato riceva il nome di "filosofia", così come i cosmetici di Jil Sander, o come quando viene posta in vendita una nuova concezione amministrativa o il profilo di una corporazione. C'è dell'ironia in questo modo in cui viene abbattuto il vecchio muro che separava la filosofia e la "vita", lo spirito e la società: si rivela qui l'impulso universale, essenziale al capitalismo, di vendere tutto il vendibile. Tuttavia, gli yuppies dello spirito dicono più di quanto si immagini - o di quanto vogliono dire - sull'attuale quadro della realtà sociale. Quando, per esempio, Odo Marquardt raccomanda, in modo seducente, la sua merce filosofica agli amministratori e alla classe politica, come "istanza compensativa competente", esprimendo con questa indicazione il fatto che anche lui tiene una famiglia da sfamare, sta facendo una semi-involontaria critica sociale. E se il filosofo alla moda, Gerd Gerken, si presenta al pubblico con la massima: "per avere successo, devi credere in qualcosa, non importa cosa", quest'affermazione potrebbe essere percepita come un sonoro schiaffo, anche se non pianificato, in faccia all'arbitrarietà e alla completa mancanza di contenuto, che nemmeno la stesso Adorno sarebbe stato in grado di far meglio. Così, può valere la pena di notare che, a partire dal modo involontariamente ironico attraverso il quale si fa coincidere filosofia e "vita", si potrebbe mettere in atto, rispetto ai suoi protagonisti, il passaggio ad una nuova distanza ironica, tanto nei confronti della filosofia quanto nei confronti della "vita" capitalistica. Però, per far questo sarebbero necessari nuovi concetti o, per lo meno, un nuovo modo di approcciare quelli vecchi. Insomma, sarebbe necessaria una nuova teoria che reagisse ai cambiamenti sociali e che formulasse una critica della società rapportata al nuovo terreno storico. Tuttavia, molto poco si è fatto in tal senso. La supposta sconfitta della vecchia critica e la nuova a-concettualità vanno affrontate, una volta per tutte, nei loro molteplici aspetti. Sulla stampa in generale, rispetto a quello che domina il mondo intellettuale anglo-americano, il dibattito teorico approfondito ha ceduto il passo ad un genere degradato di letteratura specializzata; niente più che una massa informe riunita sotto la categoria di "non-fiction", paragonabile alla divisione che viene fatta nell'universo delle merci, fra cibo e non-cibo.
Il giornalismo politico-sociologico sembra decadere allo stesso ritmo di quello economico: si vedano, invece della critica, le "guide finanziarie", guide di aiuto capitalistiche al posto dell'economia politica. Nel migliore dei casi, entra in scena, in luogo di una riflessione a proposito della totalità sociale (identificata, ora, in maniera tanto falsa quanto dilagante, come "totalitarismo"), il recitativo monotono di un unico e bramoso pensiero: si tratta della "discriminazione economica delle donne" (Renate Schubert) oppure; "lo Stato tutelare" (Rolf Schubert). Questo tipo di valutazione unidimensionale si limita, in gran parte, ad una critica triste, che obbedisce ai nuovi imperativi del pensiero isolato e dell'immediatezza fattibile. Certo che esisteva anche negli anni '60 e '70, questo genere operoso della letteratura della banalità; anche se prima non aveva l'accompagnamento musicale che oggi gli dà tono. Questi rigogliosi e malrifiniti composti sensazionalisti hanno raggiunto il loro apice con quei prodotti kitsch, in particolare dopo Gorbaciov, che hanno accompagnato la caduta del socialismo di Stato con il fascino oscuro dello "Io c'ero", oppure "Adesso posso parlare", fino al più miserevole dei trionfi:"Anch'io sono stato una vittima della Stasi". Ma forse bisogna stendere un velo di indulgenza su questo tipo di giornalismo; forse riflette una mancanza, un'incapacità ad assimilare criticamente gli avvenimenti storici. Anche perché, ben presto, è diventato monotono.
Alla stampa manca semplicemente, in senso lato, il rinforzo teorico da parte della sfera logistica intellettuale che finora sembrava avesse la competenza in tal senso, e che ora produce solo ruminanti angosciati e pavoni venali. Ora, una volta che il "concetto di lavoro" è stato trascinato nella sfera negativa e che non è più possibile resistere alla pressione della presunta "società mondiale post-storica e senza alternativa" (Lutz Niethammer) del denaro totale, il giornalismo diviene sempre più angosciato. La macchina dei concetti del pensiero occidentale perde la sua forza materiale e sembra cadere a pezzi prima della rottamazione. La critica si trasforma in critica della critica. Non è solo a partire da Sloterdijk che possono venire scritte 800 pagine di "teoria con la T maiuscola" proprio per contrapporsi alla "Teoria". Queste teorie-antiteoriche sembrano solo riprendere e dare continuità alla traccia affermativa dello strutturalismo e della teoria sistemica. Ciò nonostante, esse talvolta segnalano - così come il surfismo universale dei filosofi in voga e i campioni dell'etica - una trasformazione sociale non ancora maturata. Ma, in quale direzione?
Il mondo scientifico non sembra essere più in grado di ritrovare la forza necessaria per dare una risposta ad una simile situazione. Se la vita accademica non si era ancora del tutto irrigidita in un "paesaggio culturale pietrificato" (Enzensberger), molto prima dell'estinzione del movimento del '68 aveva già insabbiato, davanti al dilemma teorico, l'impulso della ricerca propriamente accademica. La letteratura sensazionalista della stampa corrisponde alla ritirata accademica in direzione dell'archeologia storico-culturale. Se l'impresa alquanto ingenua della "storia orale" è servita frequentemente ai fini dell'assistenza degli anziani e per costruire un collezione di oggetti di devozione del movimento operaio e socialista, il boom allargato della storia culturale ora fruga nelle tasche dei giubbotti e nelle latrine della storia.
In Francia, soprattutto, questi sforzi producono notevoli risultati. Come nella "Storia dell'infanzia" o nella "Storia della morte", di de Philippe Ariès, nei lavori sul Medioevo, di Jacques Le Goff o di Georges Duby; come nella "Storia della vita privata", pubblica congiuntamente dagli ultimi due, o nella grande trilogia storico-sociale su "Le origini dell'economia di mercato", di Fernad Braudel: in tutti questi libri viene riunita una quantità monumentale di informazioni, che formano un insieme di indubbio significato storico. Tuttavia, queste opere mancano di una sintesi di tale materiale nella prospettiva di una storia critica della socializzazione occidentale; manca una visione d'insieme capace di indirizzare una rinnovata valutazione storica ed orientare una nuova agenda di questioni. Insomma, manca l'orizzonte teorico di una critica radicale della società, che permetta di ordinare i risultati della ricerca storico-culturale. Potrà sembrare sfrontato e arrogante, ma da questo punto di vista anche Foucault non può essere considerato, sempre e sotto tutti gli aspetti, un teorico nel senso rigoroso del termine. Le sue "archeologie" della sessualità, delle istituzioni e del sapere, sono anche lodevoli, soprattutto per il lavoro di estrazione mineraria, mentre la riflessione teorica propriamente detta, in fin dei conti, lascia perplessi. La tregua teorica è diventato un problema centrale, la demoralizzazione del pensiero minaccia di diventare paralisi.
Se la teoria, soprattutto nell'ambito accademico, osa entrare nella sfera pubblica solo in punta di piedi, questa lamentevole situazione forse è dovuta alla morte del marxismo. A quanto pare, il marxismo è stato determinante ai fini della formulazione teorica del XX secolo, di modo che ora sembra essere cessata con esso. Se nel marxismo, l'eredità della filosofia sembrava essere stata soppressa, di modo che ogni formulazione concettuale posteriore veniva ad essere definita a fronte di esso, sia per affinità che per rifiuto, con il declino dei concetti marxisti, decade anche la concettualità della teoria in quanto tale. Oggi, una tale istanza referenziale, positiva o negativa, sembra essere svanita senza aver lasciato traccia. Il movimento mondiale del '68 aveva portato il già senile marxismo del movimento operaio ad una prosperità talmente illusoria che, per qualche tempo, anche l'ultimo degli opportunisti della sociologia si è visto obbligato, quanto meno, a scrivere la sua tesi di dottorato sulla storia sociale delle guerre contadine o sulla lotta di classe nella Valacchia del XIV secolo. Tuttavia, parallelamente a questo tardivo e fantasmagorico risveglio, si preparava la sepoltura definitiva del corpo teorico marxista, già sventrato e imbalsamato dalla moda strutturalista (Althusser) e teorico-sistemica. Oggi, dopo il collasso catastrofico dell'ordine sociale eretto in suo nome, non rimane in piedi, per questo, nemmeno un mausoleo. Nell'autunno del 1989, il settimanale tedesco  Wirtschaftswoche era già in grado di presentare la quasi totalità dei marxisti restituiti alla vita accademica tedesca, come delinquenti pentiti che dovevano balbettare solennemente la propria ritrattazione. In Francia, l'enfatica transizione entusiasta verso la democrazia occidentale si era già conclusa precedentemente e, in mezzo al desert storm, si era finalmente verificata, fra le grida, la riunificazione del nucleo duro del '68, che ora si presentava come un illustre circolo di filosofi pro-bomba atomica in costume da guerra.
Ma forse l'ebreo-tedesco Karl Marx, abituato a simili problemi, questa volta era stato messo nella fossa con eccessiva precipitazione. Nel precipitoso funerale della teoria marxista, i pensatori della cautela, che forse avevano già troppo da "differenziare", non fecero alcun tentativo di differenziazione. Tuttavia, così come tutte le teorie dotate di una forza storica, anche la teoria di Marx non si esaurisce nella sua versione vincolata ad un'epoca; né tantomeno essa è quella totalità chiusa, immaginata tanto dai cercatori di citazioni quanto dai becchini precipitosi. Con la fine di un'epoca, sigillata dal crollo del socialismo di Stato, si estingueva soltanto il momento della teoria che si trovava legato a quel periodo, che non significa affatto che la teoria stessa sia in qualche modo esaurita.
Tantomeno si trattava semplicemente di una sconfitta. Un pensiero storicamente riflesso, che non si banalizza associando i predicati "giusto" o "sbagliato", "buono" o "cattivo", ai grandi movimenti sociali e alle formazioni politico-economiche, si avvicina più al problema chiedendo quale compito è stato portato a termine, dal punto di vista dello sviluppo storico, con una tale rottura epocale. Solo una messa in discussione di questo tipo ci può dare un'idea di quello che è avvenuto e che merita di essere messo all'ordine del giorno. Il concetto chiave al fine di una tale comprensione può essere quello che, sotto il nome di "modernizzazione", possiede già un discreto tempo di esistenza ambigua nella teoria. Questo termine ha meritato quasi sempre uno sguardo obliquo da parte dei marxisti; dato che sembrava che coprisse il "contenuto di classe" di tutto un interrogativo teorico. Il vero spartiacque doveva essere situato fra il capitalismo borghese e il socialismo operaio; in quanto "modernità" e "modernizzazione" erano concetti che sembravano voler annullare in modo meramente conciliatorio la "vera rottura fra le classi".
Appare, però, un quadro totalmente distinto quando capovolgiamo questa argomentazione alla luce dell'effettiva rottura epocale, la quale contraddice in modo evidente qualsiasi concezione del marxismo volgare. In questo caso, la "modernità" e la "modernizzazione" non verrebbero più visti come concetti di un'annacquata ideologia (piccolo-)borghese, ma come involucro borghese reale all'interno del quale si sviluppane le "lotte di classe". Inoltre, il carattere borghese sarebbe il carattere dell'epoca stessa, che include i presunti opposti del Capitale. Per dirla altrimenti: il Capitale stesso sarebbe identico alla modernità ed al suo processo di formazione, in quanto forma sociale comune alle fazioni in conflitto.
In questo senso, non sarebbe possibile classificare come "anticapitalista", se non condizionalmente, né il il socialismo di Stato dell'Est, né il movimento operaio occidentale, né tantomeno il movimento anticolonialista di liberazione nazionale nei paesi dell'emisfero Sud, incluse le sue correnti più radicali. O meglio, il suo anticapitalismo non si riferisce ancora all'autentica forma di base del capitalismo stesso, ma solo ad un capitalismo empirico dato; a quello che viene preso fuori per capitalismo in persona, ma che, in realtà, non è altro che uno stadio ancora incompleto dello sviluppo della modernità borghese. Così, il marxismo di quest'epoca non poteva essere niente di più che un marxismo della modernizzazione, immanentemente borghese, parte esso stesso della storia della realizzazione del capitale. E questo momento modernizzatore, limitato all'involucro borghese formale, lo troviamo ad ogni passaggio della stessa teoria marxiana.
Tutto quello che appare in Marx come incondizionalità del "punto di vista operaio" e della "lotta delle classi", o che viene detto circa il "plusvalore non pagato" e lo "sfruttamento", è ancora teoria capitalista dello sviluppo e riflette il fatto che il capitale non ha  ancora trovato il suo modo di riproduzione. Si tratta, in tal senso, di una teoria - ed è stata letta anche in questo modo - che punta essenzialmente a due problemi immanenti al capitalismo: in primo luogo, alla critica dei momenti patriarcali, corporativi, nelle relazioni sociali stabilite dal capitale, ossia, alla trasformazione dei lavoratori salariati in soggetti borghesi, nella piena accezione - sotto il punto di vista monetario, giuridico e statale; e, in secondo luogo, al conflitto distributivo sotto forma monetaria, nel quale il carattere relativo "del valore della merce forza-lavoro" (il momento storico-"morale", come a volte lo chiama Marx) viene ricondotto ad una normalità capitalista, di un "benessere nel capitalismo", sia attraverso degli accordi collettivi che per mezzo di politiche distributive statali.

intellettuali labirinto

Oggi, questo marxismo immanente alla modernizzazione è diventato, di fatto, del tutto obsoleto, non perché "sbagliato", ma perché il suo compito si è concluso. Nei paesi dell'Est e del Sud, il processo di modernizzazione tardiva ha incontrato la sua barriera assoluta; il ciclo di implementazione delle relazioni capitaliste si è chiuso quando queste sono state totalizzate sotto la forma di una relazione immediatamente globale, di un produttore mondiale di merci. I lavoratori salariati si sono convertiti in soggetti monetari e giuridici, nella piena accezione borghese, essendo impossibile maggior "libertà" e "uguaglianza", perché, in qualche modo, il gioco distributivo statale ha raggiunto il suo limite assoluto. Con ciò, arriva al suo termine la lotta di classe, che non era altro che il processo di attuazione del capitale, il quale nella sua logica formale pura e astratta si contrappone ai capitalisti, storicamente ed empiricamente limitati.
I vari becchini di Marx ed i nuovi amici della democrazia del mondo delle merci occidentali traggono da qui la conclusione affrettata per cui la critica della società fosse esaurita, almeno nella sua variante radicale, e che da ora in poi, e per tutta l'eternità, questa "società globale senza alternativa" del capitale detterà le regole per tutto quello che verrà fatto e pensato. Niente di più lontano dalla verità. Perché solo ora può entrare sulla scena storica quell' "altro" Marx, che era rimasto nascosto, quel Marx "oscuro" ed "esoterico" del quale, non a caso, il movimento operaio non sapeva cosa farsene. Il tentativo marxiano di trascendere il capitale attraverso una mera assolutizzazione della "classe operaia" ("Dittatura del Proletariato") è sempre stata una costruzione distorta, poiché in tal modo si cercava di conseguire nella totalità quello che era un momento particolare, immanente allo stesso capitale. Questa pseudo-trascendenza deve anche essere interamente imputata alla teoria marxiana in quanto mera teoria della modernizzazione, che, partendo da una falsa immediatezza sociologica, si concentra sulle classi e sulle relazioni sociali senza che gli appaia nel campo visuale le forme sociali comuni alle stesse. Questa forma però è il capitale. E' la forma-valore o la forma-merce in quanto tale che, diversamente dalla sua esistenza embrionale come forma ristretta ad alcune nicchie sociali nelle società premoderne, si sviluppa nel capitale al punto da convertirsi in forma totale della riproduzione sociale.
Con la sua critica, il marxismo della modernizzazione o il marxismo operaio, non mette a fuoco questa forma, che concepisce soprattutto come fondamento ontologico insuperabile della società in generale. Per esso, il problema non era il "valore", che è la forma sociale delle merci, ma semplicemente il "plusvalore" imposto dall'esterno. In Marx stesso, al contrario, il piano immanente della teoria è reso possibile proprio dalla critica radicale del valore in quanto valore. Il concetto di feticismo è la categoria centrale di tale critica, salendo dal feticcio della merce al feticcio del denaro, del capitale, del salario, del diritto e dello Stato. In sostanza, tutte le categorie sociali della modernità vengono qui sottoposti alla critica radicale, mentre che l'ideologia borghese, incluso il marxismo, si limita sempre a postulare il loro lato positivo. Pertanto vediamo, in Marx, due linee argomentative intrecciate, ma incompatibili fra di loro. Oggi, però, questo nodo gordiano dev'essere sciolto, non importa se alla maniera classica o per mezzo di un lento dipanare. Il Marx degli operai e della lotta di classe cade in disgrazia, ma il critico radicale del feticismo e della forma valore è ancora in piedi ed è ancora efficace.
Bisogna smettere di brancolare nel labirinto della modernità, e seguire il tenue filo di Arianna della critica radicale marxiana della merce e del denaro, ancora necessariamente astratta ed incompleta. Il concetto marxiano di feticismo, liberato dall'antico fardello del marxismo del movimento operaio, può essere ampliato - o farsi conoscere - attraverso la critica dello stesso feticcio del lavoro. Il problema non è più lo "sfruttamento" della forma valore, ma prima ancora il lavoro astratto stesso, cioè, l'utilizzo astratto imprenditoriale dell'essere umano e della natura. Il "lavoro" ha perso la sua dignità; in quanto terapia occupazionale, moderna costruzione di piramidi, feticismo del posto di lavoro e produzione distruttiva, è in questo modo artificiale, e con costi di gestione sempre più rovinosi, che esso mantiene in funzione il sistema capitalista globalizzato.
Ovviamente, questa proposta teorica non piace neanche un po' ai teorici ancora predominanti. Al contrario, viene recepita come una proposta indecente, come una specie di volgarità o di enormità. Non potrebbe reagire diversamente, una coscienza la cui immaginazione teorica si esaurisce nella scommessa di continuare eternamente a modernizzare la modernità, guardandola sempre come se fosse un "progetto incompiuto" (Habermas). Per questa ragione, ogni critica alla modernità viene accusata di appartenere al vecchio repertorio reazionario piagnucoloso che vuole solo tornare alla pre-modernità: passare dalla socializzazione alla "comunità", dalla forma-merce all'economia naturale di sussistenza, dal diritto al dispotismo, dal mercato mondiale al villaggio. Ma non si tratta di regolare i conti con la modernità, retrocedendo, bensì avanzando. Il denaro totale ha prodotto il Mondo Unico, e quanto a questo non è possibile tornare indietro: ma esso è solo la stampella dell'umanità, che ora dev'essere eliminata. E' necessario liberare questo mondo unificato dalla sua conformazione mercantile, proteggendo il suo livello di civiltà, la sua forza produttiva e le sue conoscenze. Un tale compito storico, che il marxismo operaio aveva messo da parte e rinviato ad un futuro presumibilmente lontano, è ora all'ordine del giorno.
Con la "vittoria", l'Occidente trova anche la sua propria fine. Ha bisogno di sopprimere e superare sé stesso. La soppressione (Aufhebung), in questo caso, non significa solo il punto finale di un processo. Essa presuppone una rottura storica decisiva (e decisa), che i teorici della civiltà, della democratizzazione e della modernizzazione hanno cercato inutilmente di eludere. Nonostante si siano fatti carico, tutti insieme, della sepoltura di Marx, essi stessi non sono andati al di là delle forme residue e degradate del marxismo della modernizzazione, che non si sono lasciati alle spalle, come pensano, ma le hanno piuttosto diluite fino a trasformarle in qualcosa di totalmente inoffensivo e sprovvisto di oggetto. Non sono i precursori di una nuova teoria, ma le macerie teoriche di un processo storico storico già concluso. Questo può essere dimostrato, nella pratica, dal fatto che hanno completamente perso l'immaginazione in quanto critica della società.
E non è affatto un caso che il concetto teorico (e, tra l'altro, anche l'appello "politico") abbia perso la sua dignità insieme al "lavoro". E nemmeno è stata opera del caso, il fatto che la critica marxiana del valore e del feticismo sia stata molto più disprezzata dei "capricci filosofici" di Marx. Infatti, prendendo sul serio la critica del feticismo, disponiamo non solo di una forma sociale reale, ma anche della cassetta degli attrezzi ideale per la modernità. Il valore non è nessuna cruda "cosa economica", ma al contrario è una forma sociale totale, ossia, forma-soggetto e forma di pensiero. Anche se impieghiamo continuamente il prefisso "post" nei discorsi sulla post-modernità, sia per parlare di post-fordismo di post-industrialismo, o termini affini, inconsciamente li pensiamo anche lungo le linee della forma merce.
Tuttavia, se la modernità, in sostanza, è semplicemente la totalizzazione della forma merce, non possiamo avere nessun "post-industrialismo" mercantile, né tantomeno un pensiero mercantile della post-modernità. Sarebbe necessario tornare a portare avanti, criticamente, il pensiero iniziato da Sohn-Rethel circa il nesso fra "forma-merce e forma di pensiero", al fine di disvelare la conformazione mercantile di tutto il dibattito occidentale intorno alla teoria della conoscenza. Questo programma potrebbe portare ad un nuovo modo di sfatare Kant e decifrare concettualmente, in quanto costruzione  feticista, la cesura tanto nella teoria della conoscenza quanto nell'etica, cui, per inciso, è pervenuta sensibilmente la discussione etica attuale.
La critica radicale del valore, in quanto critica della società, ristabilisce l'identità, nel pensiero, fra forma di esistenza e forma di pensiero; la critica delle moderne dicotomie occidentali, tanto tra individuo e società, quanto tra economia e politica, precede il superamento pratico delle stesse. Con ciò, si apre non solo la possibilità di una re-storicizzazione delle forme di relazionamento e di "legalità" sociali, antropologizzate ed ontologizzate dallo strutturalismo e dalla teoria sistemica, ma anche una via di accesso più facile ed efficace verso tutte le problematiche contemporanee.
Questo può essere visto in maniera esemplare e centrale nella relazione tra i sessi, tema che, non a caso, è sbiadito lentamente sotto l'egida del movimento operaio e della modernizzazione. E' solo nell'ambito di una critica del valore, in quanto definizione basilare della forma sociale, che l'assegnazione dei ruoli sessuali può apparire nella coscienza teorica. La relazione occidentale fra i sessi è definita dalla forma valore, ossia il valore è sessualmente costituito. Una società feticista della produzione e del lavoro astratto presuppone la "cesura di un contesto di vita femminile" (Roswitha Scholz), ossia la separazione di quei momenti sensibili, non passibili di monetizzazione, e, con questo, la costituzione di ruoli sessuali specifici, socialmente e storicamente. L'uomo si converte nel rappresentante del lavoro astratto, la donna nella "persona fisica domestica", nella quale si scarica tutto quello che non può essere ridotto ad astrazione di valore.
In tale modo, si stabilisce la relazione specificamente borghese fra sfera pubblica e sfera privata, la quale raggiunge nella modernità il suo culmine. L'attività della donna all'interno di uno spazio privato (sessualità, famiglia), non legata alla forma valore, è il presupposto strutturale e storico del sistema produttore di merci e precede tutte le altre relazioni, forgiate sull'astrazione virile, fra sfera privata (denaro) e sfera pubblica (Stato). Quando la totalizzazione della forma valore erode il suo stesso fondamento, convertendo la donna, tendenzialmente, in soggetto monetario e statale, diventa non solo possibile rivendicare la "uguaglianza" sull'ultimo terreno che ancora rimaneva, ma anche far saltare in aria l'intera relazione fra sfera pubblica e sfera privata che corrisponde alla forma merce. Nell'ambito di una mera "critica del plusvalore", il problema neppure compare; tuttavia, nella misura in cui il valore, in quanto relazione sociale, incontra il suo limite, la relazione fra i sessi diventa un centro di crisi e si riferisce alla crisi del valore in quanto valore.
Con la chiave della critica radicale del valore si potrebbe disserrare, ugualmente, l'attuale dibattito in merito ad un orientamento pragmatico ("realista") circa la fine dell'utopia e la fine della storia. I realisti, pratici e teorici, gli spiriti del cambiamento, democratici della temperanza, artisti della negoziazione e critici-astemi sono stati frettolosi nell'arrivare alle conclusioni. A volte la storia, di fatto, arriva al termine, ma ciò che fino ad ora lo ha fatto è stata solo la storia occidentale del valore, o del sistema produttore di merci. A partire dall'antichità occidentale, passando per il cristianesimo e per il Rinascimento, si è messo in marcia un processo, il cui spazio temporale effettivo è pari a 200 anni: dal 1789 al 1989. Tutto il resto è una "non ancora" storia. Per il Marx esoterico, questo periodo corrisponde esattamente alla preistoria del genere umano. inclusa la fase del capitale (in quanto, potremmo completare, forma ultima e più elevata del primitivismo feticista). Inoltre, la "fine della storia" non si riferisce a qualcosa di diverso dalla crisi e dalla fine del valore. Se vogliamo, si riferisce alla fine dello stesso Occidente. Le cose non vanno meglio quando si parla della fine dell'utopia, strombazzata ai quattro venti. Anche l'utopia è una creazione tipicamente occidentale, un prodotto della relazione del valore e dei passaggi da questo generati. Così come il potenziale desensibilizzante dell'astrazione mercantile reale ha creato "la donna" come essere compensativo, "l'utopia" è stata forgiata come accompagnamento musicale fisso che doveva suonare più forte ad ogni nuovo passaggio storico dell'astrazione reale del valore. Il carattere insopportabile della contraddizione, quando essa si manifesta nella forma sociale dell'alienazione inerente alla forma valore, produce, al divinizzarsi di questa contraddizione stessa, il desiderio di una completa assenza di contraddizione. Che può essere non solo l'elemento centrale del pensiero utopico, ma della ragione borghese in generale.

intellettuali bewys

Sicuramente, il dogmatismo dell'utopia può essere recuperato nel pensiero marxiano, in quanto struttura dogmatica, ma ciò si verifica solo nella misura in cui questo si mantiene immerso nella forma valore, ossia, quando si tratta di pensiero formulato dal teorico borghese della modernizzazione e, quindi, del movimento operaio. In tal caso, ci riferiamo al dogmatismo essenziale del pensiero moderno illuminista, il dogmatismo oggettivo della ragione borghese in quanto tale. Per un'ironia del destino, i nuovi anti-utopisti e becchini della teoria marxiana, che accusano Marx di essere utopista, e l'utopia di visione escatologica della storia, ora parlano, essi stessi, di "fine della storia" come supposta eternizzazione della normalità capitalista. Ma questa concezione stessa è una sorta di escatologia per fare sonni tranquilli, la cui realizzazione nell'ambito della società mondiale può, però, causare incubi.
E' il pensiero illuminista borghese ad aver bisogno di far coincidere la fine della storia con la sua propria fine. Questa struttura dogmatica tende a sfociare in una "visione del mondo" omicida, allorché si vede espressamente vietata la possibilità di pensarsi in questi termini, come avviene no solo nelle teorie pragmatiche borghesi, ma anche nei marxismi critici occidentali, ancora prigionieri della modernità e dell'illuminismo. Anche la teoria critica vede la ragione come un'entità fuori della storia, e simultaneamente dentro. Il pragmatismo borghese opera, allo stesso modo, con un concetto di ragione che non può essere desunto. Non c'è da stupirsi che entrambe le correnti si incontrino oggi nella filosofia "realista", nel senso più ampio del termine, sotto la forma di una propaganda omicida, pro-capitalista e pro-occidentale, della società globale del capitale.
Il preteso orientamento pragmatico cela la sua propria forma sociale. Un vero pragmatismo non sarebbe mai capace di plasmare il mondo sensibile, le risorse sociali ed il potenziale scientifico, secondo un principio razionale unico, dogmatico ed astratto. Il vero pragmatismo significherebbe, perciò, una rivoluzione contro il valore ed il suo sistema di ordinamento. Ogni pensiero sottomesso alla forma merce, al contrario, è "visione del mondo" solo a causa della lente deformante dell'astrazione valore. I pseudo-pragmatici borghesi obbediscono in realtà al dogmatismo reale del denaro e alla sua auto-valorizzazione feticista. Nella pratica sociale, questo pragmatismo si converte forzatamente in dittatura della stato d'assedio, in dichiarazione di guerra contro tutti coloro che non possono più vivere degnamente sotto il giogo della forma merce totalizzata.
In realtà, c'è qualcosa di terribilmente consolatorio nel fatto che il Mondo Unico tagliato sulla forma valore obblighi gli a-critici teorici professionali dell'Occidente a dire quel che pensano realmente, sotto le forme delle teorie omicide della democrazia liberale, con i suoi deficit ecologici e sociali. Poiché l'economia di mercato e la democrazia occidentale, in quanto forme di superficie o forme fenomeniche del feticismo moderno, semplicemente no sono capaci di integrare la stragrande maggioranza dell'umanità. La fine del socialismo di Stato, che non era altro che una dittatura di modernizzazione tra le altre, porta con sé, in modo evidente e con primitiva violenza, non una rivitalizzazione della democrazia occidentale - come avevano sperato i teorici della civiltà - ma, al contrario, l'irruzione galoppante della barbarie. Il Menetekel (N.d.T.: espressione di origine ebraica, tratta dal libro di Daniele, che profetizza la dissoluzione del regno di Baltasar e la sua spartizione fra Medi e Persiani. In tedesco, il termine è venuto a significare "segnale di allarme", "minaccia di pericolo", o "destino fatidico") jugoslavo serve come profezia del nostro futuro.
Ovviamente, questa diagnosi della situazione della società e della teoria, porta a chiederci quali siano le possibilità di dominio e di cambiamento dello stesso. La prassi sociale deve passare attraverso la coscienza teorica. Certamente, con la crisi e con la critica del sistema produttore di merci, viene a cambiare anche la posizione della teoria stessa. Mentre la critica radicale del valore non può obbedire al dogmatismo reale del denaro, e tantomeno recare in sé un concetto astratto di ragione, dogmatico ed esterno. Una teoria capace di concepire sé stessa non è più il comitato centrale dello spirito del mondo, e, perciò, non può più servire come istanza leggittimatrice di alcun comitato centrale politico, e nemmeno di una commissione parlamentare verde, professionalizzata alla maniera capitalista. Il vecchio collegamento fra teoria, programma, partito e potere dev'essere, esso stesso, imputato alla forma borghese, che definiva anche la posizione della teoria. Se salta per aria la relazione borghese fra "vita" e filosofia, in quanto tale, così come fra economia e politica, diventa non più possibile imporre al pensiero la vecchia assegnazione prescritta dal modello mercantile.
La teoria - che non deve più celebrare alcuna base sociologistica di classe, anche se questa si presenta nella figura ultima e degradata di una "volontà elettorale" - alla fine gode della libertà propria del "fuorilegge" e viene riconosciuta come momento critico di una crisi sociale di portata mondiale, senza che sostenga che queste pretese, rispetto alla totalità del mondo intero, le derivino da una qualche metafisica della logica finale. La nuova modestia della teoria dev'essere, tuttavia, allo stesso tempo, la sua nuova e inaudita radicalità, e semplicemente su questo riposa la sua verità. L'apparente modestia dei filosofi occidentali-democratici della capitolazione, al contrario, smentisce sé stessa, poiché, a livello di dirigere la radicalità della critica contro le attuali condizioni di vita, mobilita in maniera del tutto immodesta la radicalità delle relazioni capitaliste contro gli esseri umani reali.
La teoria proscritta non può più richiamarsi ad un qualche soggetto ontologico che non sia essa stessa. Quando si dissolve l'ontologia e la metafisica del lavoro astratto, forgiato dalla forma merce, la crisi già non può più essere superata mediante la trasformazione di un soggetto in sé, inconsciamente presente da sempre nella sua particolarità capitalista, in un soggetto per sé del lavoro totale. E' la società, essa stessa, che deve ora costituirsi coscientemente in quella terra desolata nella quale fino ad ora non c'è stato alcun soggetto se non la forma cieca e feticista della "astrazione reale" (Sohn-Rethel). La teoria dà fondamento a questa costituzione cosciente proprio perché non può più evocare alcun "interesse" immanente alla forma merce, ma può solo mobilitare "l'interesse" sensibile contro la stessa astrazione reale. I germi di questo movimento sono praticamente già presenti nella società come critica femminista, sociale ed ecologica. Queste forme di critica pratica non sono più un ontologico "in sé" "per sé" del lavoro, ma sono momenti effettivi del movimento di soppressione del valore. Il momento teorico cammina ancora a passi lenti e deve compensare il proprio ritardo.
In questo caso, anche il cambiamento di luogo della teoria va inteso in senso letterale. Già da molto tempo, dovrebbe essere diventato chiaro che rinchiudere il pensiero (soprattutto quello rivoluzionario) dentro la prigione dell'amministrazione intellettuale accademica occidentale , non gli avrebbe fatto bene. L'università non si sbarazzerà della "muffa di mille anni" per mezzo di una modernizzazione capitalista, poiché lo stesso capitale è muffa residuale di una preistoria di mille anni di feticismo sociale. Ma, d'altra parte, crollano anche le dicotomie del mondo della merce mantenute istituzionalmente. La rivoluzione teorica è, allo stesso tempo, una rivoluzione istituzionale, ed ogni rivoluzione comincia con la pratica di non prendere più sul serio le sacre istituzioni.
Così come non serve avere, oggi, una coscienza teorica esplicitamente critica del valore al fine di confrontare il gesticolare, la mimica, i discorsi e le azioni della classe politica del sistema produttore di merci, con i cerimoniali dei cacicchi di una tribù cannibale, allo stesso modo, nell'attività scientifica corrente si vede un'unità scimmiesca da preistoria. E' in questo modo, particolarmente grossolano, poiché la vita accademica è, allo stesso tempo, l'ultimo bastione di una coscienza di stato. In nessun'altra sfera del sistema produttore di merci si mantiene tanto tenacemente, come in questa, una grottesca ed antidiluviana ostentazione dei titoli. Solo i fasti della toga, del berretto dottorale, della talare, ecc., già ci rimandano a questo stato di cose. La gente si domanda perché i rettori e i decani non si mettano ad usare ossa alle narici come indice della loro importanza.
Per ironia, la crisi della "muffa di mille anni" coincide con la crisi delle relazioni stabilite con il valore. I rimbrotti della coscienza accademica che ne derivano non sono privi di grazia. Con l'obsolescenza del solenne orgoglia per il proprio stato, diventa obsoleta, tutt'ad un tratto, l'arbitrarietà astratta che guadagna denaro. Con le restrizioni imposte dalla crisi fiscale dello Stato, anche l'impresa del pensiero vede strangolata la sua offerta. Come si sa, perfino la filosofia va alla ricerca di finanziamenti e cerca di provare la sua importanza ai fini del funzionamento capitalista. La cantilena che intonano riesce ad essere divertente. Si tratta della transizione istituzionale della filosofia, e delle scienze umane in generale, verso quel livello di leggerezza che oggi definisce di gran lunga il suo contenuto.
Non c'è alcun motivo per il lamenti pessimisti a proposito del futuro della cultura, che si vede tagliati i finanziamenti per progetti di ricerca che, in qualche modo, sono nella loro maggioranza inutili, o costituiscono una minaccia pubblica. Tanto meno devono essere oggetto di compassione quegli accademici che si mantengono in posti di lavoro parziali o provvisori, per puro attaccamento alla loro rispettabilità professionale, percependo redditi equivalenti a quelli dell'assistenza sociale. E' più probabile che possano emergere connessioni innovative tra filosofia e "vita", insieme ad altre, grottesche, come tentativi un po' stravaganti di stabilire, per esempio, un "consultorio filosofico", come una specie di dentista dello spirito o un'officina di bricolage per appassionati pensatori.
In generale, però, non ci si deve aspettare che la scienza, decaduta ed intimidita, in quanto ramo istituzionale della modernità borghese, investa contro le sue proprie basi e compia, di per sé, il prossimo passo storico del pensiero, cioè, che passi alla critica radicale della forma merce. Anche la scienza, come tale, è stata modellata dalla forma merce, e in tal senso dev'essere superata; non retrocedendo in direzione del mito, ma avanzando su un territorio sconosciuto. Il fatto che essa non sia più presa sul serio, indica il primo passo nella giusta direzione. La ragione relativa di Paul Feyerabend o di Hans Peter Duerr si basa su questa situazione.
Queste osservazioni non devono essere intese, equivocando, come espressioni di un risentimento anti-accademico. Non c'è alcuna vergogna nel fatto che qualcuno concluda il suo corso di laurea o il suo dottorato di ricerca, e che si guadagni da vivere come accademico. Ma, alla fine, cosa si può obiettare contro l'americanizzazione della posizione sociale degli accademici? Nei nuovi legami compulsivi fra "vita" e filosofia risiede anche la possibilità di una nuova capacità di distanziamento. Così come la scienza presuppone una distanza nei confronti dei suoi oggetti, il superamento della scienza della costituzione feticista presuppone una meta-distanza nei confronti della stessa scienza. Se tutti sono artisti, come pensavano Joseph Beuys o Andy Warhol, allora, nessuno lo è. E questo vale anche per la scienza.
Nella stessa misura in cui si massifica la capacità di astrazione, la società feticista dell'astrazione reale viene spinta verso la dissoluzione. La "proletarizzazione" degli intellettuali e la "deproletarizzazione" della società vanno di pari passo e danno mostra del carattere discutibile del mondo concettuale sociologistico.
Diminuisce il numero dei "figli di operai" fra gli studenti, ma, con una rapidità ancora maggiore, di minuisce quello degli "operai" nell'insieme della popolazione. Nel 1986, per la prima volta nella Repubblica Federale Tedesca, era maggiore il numero degli alunni che concludeva il secondo grado rispetto a quello che concludeva l'insegnamento di base; nel 1991, ancora per la prima volta, c'erano più studenti universitari che apprendisti artigiani. Con questo, ogni pacchetto di relazioni amorose con sopra l'etichetta "intellettuali e classe operaia", tipico della lotta di classe, si vede ridotto ad assurdo. Quando la "intellighenzia" stessa viene convertita in "popolo", questa non è più intellighenzia, e nemmeno il popolo è popolo. La crisi del lavoro astratto, che presuppone una "classe" e un "popolo" che le corrisponda, si esprime nell'esistenza sociale, così come la crisi dei contenuti si esprime nella crisi istituzionale.
Il focus dell'innovazione teorica non può più nascere all'interno dell'attività intellettuale ufficiale. La nuova meta-distanza nei confronti della scienza stessa, supportata dalla "vita" effettiva di una intellighenzia massificata - e anche soppressa e superata in quanto intellighenzia - potrebbe essere capace di ricaricare la batteria del pensiero socialmente critico. Non è a partire da un'opposizione forzata "contro" l'impresa scientifica, ma da una posizione obliqua in rapporto a questa, che può nascere un discorso critico ne confronti della modernità capitalista, capace di selezionare gli interventi secondo criteri distinti da quelli della macchina scientifica borghese arrivata ad un punto morto. "L'inutilità di diventare adulto" (Koch/Heinzen), così come la visione chiara della mancanza di senso dei criteri capitalisti di successo, a volte arrivano più vicino alla teoria proscritta della critica radicale del valore di quanto attualmente vogliano ammettere gli esecutori dell'impresa intellettuale.

- Robert Kurz - Testo originalmente pubblicato su "Münchner Zeitschrift für Philosophie", n. 22, del 1992 -

fonte: EXIT!