domenica 17 agosto 2014

Né disoccupati, né lavoratori!

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Marx messo a tacere da Hardt & Negri?
di J.

-Introduzione-
Le trasformazioni profonde del recente passato - lo smantellamento dello stato-provvidenza ad Ovest, il crollo del blocco dei paesi dell'Est e dei partiti "comunisti", e l'emergere di un nuovo ordine capitalista mondiale e liberale, apparentemente trionfante, ha restituito tutta la sua importanza al problema della dinamica storica e della possibilità di trasformare il mondo.
Il crollo del blocco dell'Est, la dissoluzione definitiva dell'Unione Sovietica, e l'abbandono del riferimento al "comunismo" non segnano affatto la fine storica del marxismo, ma piuttosto le deformazioni radicali dello stesso, per cui il socialismo sarebbe caratterizzato principalmente dalla proprietà collettiva dei mezzi di produzione e dalla produzione centralizzata, e da un modo di distribuzione regolato in maniera giusta e cosciente. Questa visione deformata del marxismo non ha permesso la critica dei regimi "socialisti". Per coloro che hanno tenuto gli occhi aperti, i regimi cosiddetti "socialisti" non apparivano come una risposta ai problemi del capitalismo, poiché non differivano dal capitalismo occidentale se non per l'introduzione della pianificazione centralizzata e per la proprietà da parte dello Stato. Negli anni '30, per esempio, Gide, nel suo "Ritorno dall'URSS", scriveva a proposito del regime stalinista: "Sì, certo, dittatura evidentemente; ma quella di un uomo, non più quella dei proletari uniti, dei soviet. Il punto è di non illudersi, e sforzarsi di riconoscerlo chiaramente: non è quello che volevamo. Ancora un passo e potremmo perfino dire: è proprio quello che non volevamo affatto".
Tenere gli occhi aperti, oggi significa riconoscere i cambiamenti intervenuti dopo la seconda guerra mondiale circa il modo in cui il capitalismo si valorizza, i cambiamenti intervenuti nella classe operaia, e il modo in cui gli sfruttati possono sviluppare il progetto rivoluzionario, a partire dall'integrazione delle tematiche e dalle fonti di malcontento sociale: il declino, numericamente e della potenza, della classe operaia dei paesi centrali, l'insoddisfazione per le forme di lavoro esistente, la precarizzazione, la flessibilità, l'importanza crescente delle forme di identità sociale che non si fondano più principalmente sulle classi, ma anche la povertà, le migrazioni, lo sviluppo della xenofobia, le catastrofi ecologiche, i genocidi, l'introduzione sempre maggiore della scienza e della tecnologia nel processo di produzione, la privatizzazione del patrimonio comune, come il patrimonio genetico, la privatizzazione dell'impegno collettivo, come il software libero, ...
Hardt e Negri (H&N), nel loro due opere, "Impero" e "Moltitudine", elaborano una teoria di questi cambiamenti, nella quale i vecchi concetti di "Stato-nazione", di "classe operaia", di "comunismo", vengono sostituiti da concetti quali l'Impero, la moltitudine, la democrazia. Non è nostra intenzione fare qui una critica esaustiva delle teorie di H&N espresse in "Moltitudine": l'erudizione dei due autori, l'abbondanza di riferimenti, l'estensione e la varietà delle aree coperte, il lungo percorso intellettuale e militante di Negri, rendono queste teorie complesse e ricche. Ci limiteremo quindi a discutere tre punti: Nel periodo post-fordista,

(i) la produzione di valore rimane il fine della produzione capitalista? Come misurarlo?
(ii) il soggetto rivoluzionario rimane la classe operaia o è la moltitudine?
(iii) la prospettiva di un'altra società: comunismo o democrazia?
Il nostro approccio è quello di mostrare
(i) la natura specificamente capitalista dei fenomeni summenzionati;
(ii) la necessità di tornare al nocciolo del marxismo, al modo in cui rivela la natura profonda del capitalismo, i suoi rapporti sociali, le sue forme di dominio, la sua dinamica storica, al fine di rendere contro di questi cambiamenti;
(iii) che i nuovi concetti di H&N sotto delle apparenze radicali, sono privi di acutezza e teorizzano solamente l'impotenza.
I - Il valore rimane al centro della produzione capitalista? Come misurarlo?
H&N affermano che "negli ultimi decenni del XX secolo, il lavoro industriale ha perso la sua egemonia e al suo posto è emerso il «lavoro immateriale», un lavoro che crea prodotti immateriali come la conoscenza, l'informazione, la comunicazione o ancora, una relazione, una risposta emotiva." (...) "La nostra tesi è che il lavoro immateriale è predominante in termini qualitativi, e ha imposto una tendenza alle altre forme del lavoro e alla società nel suo complesso. Il lavoro immateriale occupa attualmente la stessa posizione che il lavoro industriale occupava centocinquanta anni fa (...) come in quella fase tutte le forme del lavoro e la società in quanto tale dovettero industrializzarsi, così anche oggi sia il lavoro sia la società devono informatizzarsi, devono diventare intelligenti, comunicativi e affettivi". "L'egemonia del lavoro immateriale lo sfruttamento non è più declinabile come espropriazione del valore indicizzata sul tempo di lavoro individuale o collettivo, bensì come cattura del valore prodotto dalla cooperazione lavorativa, valore che diviene sempre più comune attraverso la sua circolazione nelle reti sociali." Le idee di H&N sono vicine a quelle di Gorz, secondo il quale "il termine 'economia della conoscenza' definisce degli sconvolgimenti fondamentali del sistema economico. Esso implica che la conoscenza è divenuta la principale forza produttiva. Che, di conseguenza, il prodotto dell'attività sociale non è più, principalmente, il lavoro cristallizzato bensì la conoscenza cristallizzata. Che il valore di scambio delle merci, materiali o no, non viene più determinato in ultima analisi dalla quantità di lavoro sociale generale che la merce contiene ma, soprattutto, dal contenuto di conoscenza, di informazione, d'intelligenza generale. E' quest'ultima, e non più il lavoro sociale astratto, misurabile secondo un unico standard, che diventa la principale sostanza sociale comune a tutte le merci. E' questa che diventa la principale fonte di valore e di profitto, e perciò, secondo numerosi autori, la principale forma di lavoro, e di capitale" (...)"L'eterogeneità delle attività lavorative dette 'cognitive', dei prodotti immateriali che esse creano e delle capacità e dei saperi che esse implicano, rende non misurabile tanto il valore della forza lavoro quanto quella dei suoi prodotti (...) La crisi della misura del lavoro porta inevitabilmente la crisi della misura del valore. Quando il tempo socialmente necessario per una produzione diventa incerto, quest'incertezza non può non ripercuotersi sul valore di scambio di quel che viene prodotto. Il carattere sempre più qualitativo, sempre meno misurabile del lavoro, mette in crisi la pertinenza della nozione di 'pluslavoro' e di 'plusvalore'. La crisi della misura del valore mette in crisi la definizione dell'essenza del valore".

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E' più facile comprendere intuitivamente lo sfruttamento (e dunque il pluslavoro, ed il valore) quando si vedono immagini di file di operaie che cuciono jeans, come attualmente avviene in Cina, che quando vediamo immagini di robot, che formano la catena di montaggio di un'industria automobilistica, sorvegliati da dei lavoratori che stanno di fronte allo schermo del loro computer. Tuttavia, se si prende per angolo di visione la produzione totale di merci, legate al lavoratore collettivo, e non la produzione dei beni materiali o immateriali legata al lavoro individuale di ciascuno, non c'è alcuna ragione di dubitare che la produzione capitalista è sempre basata sul valore legato all'estrazione di pluslavoro. Il dubbio e l'incredulità di H&N ( e di Gorz), in rapporto alla nozione di valore nel periodo del dominio formale del capitalismo, troverebbe un equivalente nel fatto di dubitare dell'attrazione terrestre quando si videro decollare i primi aerei.
Un concetto essenziale per affrontare l'evoluzione del capitalismo nel XX secolo, è quello del passaggio dal dominio formale al dominio reale. Marx aveva già tracciato a grandi linee, in un "capitolo inedito del Capitale", le caratteristiche essenziali del passaggio alla sottomissione reale del lavoro al capitale, che egli chiamava il "modo di produzione specificamente capitalista", e le implicazioni di un tale passaggio per il carattere sociale della produzione, e l'emergere del "lavoratore collettivo". "Nello svilupparsi, le forze di produzione della società, o forze produttive del lavoro, si socializzano, e divengono direttamente sociali (collettive), grazie alla cooperazione, alla divisione del lavoro in seno all'officina, all'impiego di macchinari e, in generale, alle trasformazioni che subisce il processo di produzione, grazie all'utilizzo cosciente delle scienze naturali, della meccanica, della chimica, ecc., applicate a determinati fini tecnologici, e grazie a tutto quello che si collega al lavoro effettuato su grande scala, ecc. (Solo questo lavoro socializzato è in grado di applicare i prodotti generali dello sviluppo umano - per esempio la matematica - al processo di produzione immediato, essendo, a loro volta, lo sviluppo di queste scienze, determinato dal livello raggiunto dal processo di produzione materiale)". "La sottomissione reale del lavoro al capitale si accompagna ad una rivoluzione completa (che continua e si rinnova costantemente, cfr. Il Manifesto Comunista) del modo di produzione, della produttività del lavoro, e dei rapporti tra capitalisti ed operai". "E' così che la produzione capitalista tende a conquistare tutti i settori dell'industria dove ancora non domina e dove regna solo una sottomissione formale. Non appena si è impadronita dell'agricoltura, dell'industria estrattiva, dei principali settori tessili, ecc., essa guadagna quegli altri settori dove la sottomissione è puramente formale, ossia dove sussistono ancora dei lavoratori indipendenti". "Se la produzione di plusvalore assoluto corrisponde alla sottomissione formale del lavoro al capitale, quella del plusvalore relativo corrisponde alla sottomissione reale del lavoro al capitale". "Il risultato materiale della produzione - oltre allo sviluppo delle forze di produzione sociale del lavoro - è l'aumento della massa di prodotti, la moltiplicazione e la diversificazione dei settori e dei rami della produzione, per cui solo il valore di scambio si sviluppa allo stesso tempo delle sfere di attività nelle quali i prodotti si realizzano come valore di scambio". "Questa produzione non è affatto ostacolata da dei limiti fissati in anticipo o determinata dai bisogni. (...) Il suo carattere antagonista tuttavia impone alla produzione dei limiti che esso cerca continuamente di oltrepassare: da qui le crisi, la sovrapproduzione, ecc. Ciò che rende negativo o antagonista il suo carattere, è che esso si svolge in contrasto coi produttori e senza riguardo per loro, essendo dei semplici mezzi per produrre, mentre, divenuta un fine in sé, la ricchezza materiale si sviluppa in opposizione all'uomo ed a sue spese. La produttività del lavoro significa il massimo del prodotto con il minimo del lavoro, in altre parole, delle merci al miglior prezzo possibile. Nel modo di produzione capitalista, questo diviene una legge, indipendentemente dalla volontà del capitalista. In pratica, questa legge ne implica un'altra: i bisogni non determinano il livello della produzione, ma, al contrario, la massa dei prodotti viene fissata ad un livello sempre crescente, prescritto dal modo di produzione. Ora, lo scopo di questo è che ciascun prodotto contenga il più possibile di lavoro non pagato, cosa che si può realizzare solo producendo per la produzione".
Leggendo queste citazioni, si può vedere che nel disegno a grandi linee dello sviluppo del modo di produzione specificamente capitalista (il carattere antagonista della produzione, l'incorporazione della scienza e della tecnica ...), Marx dà un ruolo centrale alla legge del valore, al fatto che "ciascun prodotto contenga il più possibile di lavoro non pagato". La produzione immateriale è, quanto ad essa, delineata da Marx, ma in modo molto succinto: "La produzione immateriale, effettuata per lo scambio, fornisce anch'essa delle merci, e sono possibili due casi:
1°) le merci che ne risultano hanno un'esistenza separata dal produttore e, nell'intervallo tra produzione e consumo, possono circolare come qualsiasi altra merce. Così, i libri, i quadri ed altri oggetti d'arte possono staccarsi dall'artista che li ha creati. Tuttavia, la produzione capitalista qui non può essere applicata che in misura assai limitata. Queste persone, se non impiegano nessun apprendista o operaio (come avviene per gli scultori), lavorano più spesso per un mercante capitalista, ad esempio per un editore. E' questa una forma di transizione verso il modo di produzione capitalista semplicemente formale (...)
2°) il prodotto è inseparabile dall'atto che lo produce. Anche qui il modo di produzione capitalista gioca solo negli stretti limiti e, a seconda della natura della cosa, in qualche rara sfera (voglio il medico, e non il suo fattorino). Per esempio, negli stabilimenti di insegnamento, "i maestri possono essere dei puri salariati dall'imprenditore della fabbrica scolastica". Marx ha anche affrontato la questione dell'incorporamento della scienza, delle conoscenze, nel processo di produzione: "La scienza, prodotto intellettuale generale di sviluppo della società appare, anch'essa, direttamente incorporata nel capitale, e le sue applicazioni nel processo di produzione materiale indipendente dal sapere e dalla capacità dell'operaio individuale: lo sviluppo generale della società, essendo sfruttata dal capitale grazie al lavoro e agendo sul lavoro come forza produttiva di capitale, appare come lo sviluppo stesso del capitale, tanto più che per molti la capacità del lavoro è svuotata della sua sostanza."
Le implicazioni per la definizione di lavoro produttivo e di classe operaia più generalmente, sono chiaramente esposte da Marx: "con lo sviluppo della sottomissione reale del lavoro al capitale, o modo di produzione specificamente capitalista, il vero agente del processo di lavoro totale non è più il lavoratore individuale, ma una forza lavoro che si combina sempre più socialmente. In queste condizioni, la numerosa forza lavoro che coopera e forma la macchina produttiva totale, partecipa in maniera, la più diversa, al processo immediato di creazione delle merci, o meglio dei prodotti: gli uni lavorando intellettualmente, gli altri manualmente, gli uni come dirigenti, ingegneri, tecnici o come sorveglianti, gli altri, infine, come operai manuali, oppure semplici ausiliari. Un numero crescente di funzioni della forza lavoro prende il carattere immediato di lavoro produttivo, essendo quelli che lo eseguono degli operai produttivi direttamente sfruttati dal capitale e sottomessi al suo processo di produzione e di valorizzazione. Se si considera il lavoratore collettivo che forma l'officina, la sua attività combinata si esprime materialmente e direttamente in un prodotto globale, cioè a dire una massa totale di merci. Perciò è del tutto indifferente determinare se la funzione del lavoratore individuale consista più o meno in semplice lavoro manuale. L'attività di questa forza lavoro globale viene consumata direttamente in maniera produttiva dal capitale nel processo di auto-valorizzazione del capitale: essa produce dunque immediatamente del plusvalore, o meglio, come vedremo in seguito, essa trasforma direttamente sé stessa in capitale."
Questa ampie citazioni mostrano che l'importanza crescente assunta dalle conoscenze, dal "lavoro immateriale", nello sviluppo della produzione capitalista non è perciò un fenomeno nuovo, ma un fenomeno che si è accentuato alla fine del XX secolo, all'inizio del XXI. La questione attivamente discussa oggi è quella di sapere se (e come?) il lavoro immateriale cambia la nozione di valore, di pluslavoro, ecc. Per mettere in prospettiva la questione, sembra necessario esplicitare le tendenze contraddittorie. Vale a dire, (a) la generalizzazione della legge del valore e la tendenza ad una produzione senza valore, (b) la generalizzazione del lavoro salariato e la tendenza alla produzione automatizzata, "senza operai".

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(a) Generalizzazione della legge del valore e tendenza ad una "produzione senza valore"
Il valore designa sempre il valore di scambio di una merce contro altre merci. Esso designa le diverse quantità di merci diverse contro le quali un quantum di una merce specifica è scambiabile, cioè a dire il rapporto di equivalenza delle merci, le une in rapporto alle altre. Questo rapporto viene espresso in unità di una merce-standard che è scambiabile con tutte le altre: il denaro. Nel corso degli ultimi decenni, un gran numero di attività o di beni comuni è stato trasformato in merci. Di nuovo, questo fenomeno è stato descritto da Marx: "nella produzione capitalista, la regola assoluta diviene, da una parte, la produzione di articoli sotto forma di merci e, dall'altra parte, il lavoro sotto forma salariata. Un gran numero di funzioni e di attività, che, adornate di un'aureola e considerate come fini in sé, essendo una volta esercitate gratuitamente oppure remunerate in maniera diversa (...) si trasformano direttamente in lavoro salariato, per quanto diversi siano i loro contenuti, ricadono sotto le leggi che regolano il prezzo del salario, che è la stima del loro valore e dal prezzo delle differenti prestazioni, da quello della puttana a quello del re (...) Con lo sviluppo della produzione capitalista, tutti i servizi si trasformano in lavoro salariato e tutti coloro che li esercitano in lavoratori salariati, di modo che acquisiscano questo carattere in comune con i lavoratori produttivi".
Lavori di casa, cura dei bambini, manutenzione dei giardini, consulenze psicologiche, lezioni particolari, preparazione dei piatti "da portar via", non mancano gli esempi di attività "una volta esercitate gratuitamente oppure remunerate in maniera indiretta" che oggi sono invece oggetto di uno scambio di mercato. Anche i beni comuni che, a priori, non sono delle merci, perché non vengono prodotte in vista di uno scambio, sono confiscati per mezzo di barriere artificiali che ne riservano il godimento a coloro che pagano il diritto di accesso.  Sia che si pensi all'ossigeno (il verde) nelle città altamente inquinate, o al genoma umano decodificato. "La privatizzazione delle vie di accesso permette di trasformare delle ricchezze naturali e dei beni comuni in quasi-merci che procurano una rendita ai venditori dei diritti di accesso. Il controllo dell'accesso è (...) una forma privilegiata della capitalizzazione delle ricchezze immateriali".
Il lavoro immateriale (per esempio sotto forma di software) costituisce una delle espressioni della traiettoria del capitalismo verso la produzione senza valore. Questa tendenza risulta dall'introduzione della scienza e della tecnologia nel cuore stesso del processo produttivo. L'introduzione della tecnologia nella produzione, permette di economizzare molto più lavoro di quanto costi. Essa distrugge più valore di quanto ne crei: economizza delle quantità immense di lavoro socialmente remunerato e di conseguenza annulla o diminuisce il valore di scambio di un numero crescente di prodotti. Questa tendenza ha delle conseguenze distruttive: distruzione degli stock, licenziamenti e disoccupazione, ... Ha anche un costo positivo: la traiettoria del capitalismo fa sì che il valore di scambio tenda a diventare obsoleto, e crea, nei rapporti di produzione, una tensione, una contraddizione che prevede una sua soluzione per mezzo di un sistema di produzione che non sia più basato sul valore.
Questi due fenomeni (generalizzazione della legge del valore e tendenza ad una produzione senza valore) sono quindi contraddittori.
(b) generalizzazione del lavoro salariato e tendenza verso una produzione "senza operai"
In rapporto al sistema di produzione capitalista, sempre più persone appaiono come venditori dell'unica qualità che posseggono: il lavoro vivente, cioè a dire la loro forza lavoro. E' la conseguenza della generalizzazione della legge del valore su tutti gli aspetti della società. Nel corso dell'ultimo decennio, in Cina, si vede molto chiaramente questo processo: i contadini vengono cacciati dalle loro terre o le abbandonano lasciandole ad una parte delle loro famiglie, e vanno a cercare lavoro nelle città.
Nel secolo scorso, il lavoro vivente poteva generalmente venire integrato al processo di produzione e divenire lavoro salariato, partecipando alla produzione di plusvalore e all'auto-valorizzazione del capitale. "Dunque, è produttivo solo il lavoro che, per l'operaio, riproduce unicamente il valore, determinato in anticipo, della sua forza lavoro e valorizza il capitale per mezzo di un'attività creatrice di valore che mette di fronte all'operaio dei valori produttivi in quanto capitale. Il rapporto specifico tra lavoro oggettivo e lavoro vivente che fa del primo il capitale, fa del secondo il lavoro produttivo.
Il prodotto specifico del processo di produzione capitalista, il plusvalore, viene creato unicamente ai fini dello scambio con il lavoro produttivo. Ciò che ne costituisce il valore d'uso specifico per il capitale, non è l'utilità particolare del lavoro o del prodotto nel quale si oggettivizza, ma la la facoltà del lavoro di creare il valore di scambio (plusvalore)".
Inoltre, lo sviluppo della produttività del lavoro ha come conseguenza che una proporzione sempre più grande di "venditori di forza lavoro" non trovano più a chi vendere questa forza lavoro, e vengono perciò esclusi, temporaneamente o definitivamente, dal processo di produzione: disoccupati di età superiore ai 50 anni nei paesi europei, i giovani, ... Anche nei paesi come la Cina, la disoccupazione, il sottoimpiego si è largamente diffuso. Questa contraddizione fra la generalizzazione dello statuto di "venditore di forza lavoro" e il ritiro (relativo, non assoluto) delle possibilità di incorporazione di questa forza lavoro nel processo di produzione è interessante, perché è uno degli ingredienti che spingono alla presa di coscienza dell'obsolescenza del sistema capitalistico.
Le ragioni che spingono H&N a definire la produzione di prodotti immateriali come delle "relazioni" oppure delle "relazioni emozionali", e il valore come qualcosa che venga prodotto dal "lavoro cooperativo", "che circola in seno alla rete sociale", sono di due ordini: confusione fra valore e ricchezza sociale, e confusione fra produzione di relazioni sociali, di emozioni, e produzione di valore. E' interessante dipanare il filo di questa confusione, perché questo ci permette di toccare quelli che sono degli aspetti essenziali della società attuale.
1°) la confusione fra valore e ricchezza sociale
Per H&N, tutto è produttivo. Dappertutto e sempre si dà produzione di "valore". Il valore viene prodotto da tutti, che si sia o no integrati nel processo di produzione, anche dai disoccupati, dagli immigrati clandestini (i quali trovano dei modi per cavarsela). H&N vedono la "produzione" come tutto ciò che viene fatto nella società, tanto la produzione di automobili quanto il sorriso (o l'assenza di sorriso) fra il manager e i suoi impiegati. Se parlo, produco valore; se taccio, produco valore (il valore del silenzio). Siamo tutti come il signor Jordain di Molière, che faceva prosa senza saperlo ... Questa concezione chiarisce veramente qualcosa?
H&N non fanno distinzione fra valore e ricchezza materiale e sociale. Ora, questa distinzione è essenziale al fini di comprendere perché gli enormi aumenti di produttività generati dal capitalismo non hanno portato a dei livelli generali di abbondanza sempre più elevati, né ad una ristrutturazione fondamentale del lavoro sociale con una conseguente riduzione generale significativa del tempo di lavoro. "Da un lato, la tendenza del capitale a degli aumenti permanenti di produttività genera un apparato produttivo dotato di una considerevole sofisticazione tecnologica che rende la produzione di ricchezza materiale essenzialmente indipendente dal dispendio di lavoro umano diretto. Dall'altro lato, questa tendenza apre la possibilità di ridurre il tempo di lavoro a livello di tutta la società e di una trasformazione fondamentale nella natura e nell'organizzazione del lavoro. Tuttavia, nel capitalismo, queste possibilità non si realizzano. Benché si faccia sempre meno ricorso al lavoro manuale, lo sviluppo di una produzione tecnologicamente sofisticata non libera affatto la maggioranza delle persone da un lavoro frammentato e ripetitivo. Parimenti, il lavoro non viene ridotto al livello di tutta la società, ma viene distribuito in modo ineguale, perfino aumentandolo, per molti. La struttura attuale del lavoro e dell'organizzazione della produzione non può perciò essere compresa solo in termini tecnologici: lo sviluppo della produzione sotto il capitalismo deve essere compreso anche in termini sociali." (Postone)
La traiettoria della crescita dentro il capitalismo è determinata dal fatto che il fine ultimo della produzione è quello di aumentare il plusvalore, e non la quantità di beni. "Detto in altri termini, la traiettoria dell'espansione sotto il capitalismo non dev'essere confusa con la 'crescita economica' in quanto tale - si tratta in realtà di una traiettoria determinata, che genera una tensione crescente fra le preoccupazioni ecologiche, da una parte, e gli imperativi del valore in quanto forma della ricchezza e della mediazione sociale, dall'altra". Il lavoro sotto il capitalismo risponde solo apparentemente ai bisogni degli uomini ("lavoro concreto"): in realtà, vero fine in sé, esso serve essenzialmente all'aumento del valore per il valore ("lavoro astratto"): "Il carattere astratto della mediazione sociale che sottende il capitalismo, si esprime anche sotto la forma della ricchezza che domina questa società. La 'teoria del valore-lavoro' di Marx, sovente è stata compresa in maniera erronea come teoria della ricchezza-lavoro, cioè a dire come teoria che cerca di spiegare il meccanismo del mercato e cerca di provare l'esistenza dello sfruttamento affermando che il lavoro, sempre e dappertutto, è la sola fonte sociale di ricchezza. Ma l'analisi di Marx non è affatto un'analisi della ricchezza in generale, né del lavoro in generale. Essa analizza il valore in quanto forma storicamente specifica della ricchezza, in quanto forma legata al ruolo storicamente unico del lavoro sotto il capitalismo: in quanto forma di ricchezza, il valore è anche una forma di mediazione sociale. Marx ha esplicitamente fatto distinzione fra valore e ricchezza materiale, ed ha legato queste due forme distinte di ricchezza alla dualità del lavoro sotto il capitalismo. La ricchezza materiale è determinata dalla quantità di beni prodotti, e dipende da numerosi fattori, come il sapere, l'organizzazione sociale e le condizioni naturali, oltre al lavoro. Il valore, secondo Marx, è costituito solamente dal dispendio di tempo di lavoro umano, ed esso è la forma dominante di ricchezza sotto il capitalismo." (Postone)
Il valore, fine della produzione capitalista, rimane perciò legato all'estrazione di plusvalore dal lavoro umano.
Una deriva diretta della concezione che assimila valore e ricchezza materiale e sociale, è quella che serve da base per la rivendicazione di un "salario sociale", o "salario garantito", come quella espressa da Guilloteau: "Contro la precarietà, è sul salario sociale, ovvero dissociato dal lavoro remunerato da impresa, che si manifesta il rapporto di forza in seno alla condizione salariale. Sappiamo che gli importi e le condizioni di attribuzione esistenti, come insieme della gerarchia dei salari garantiti dallo Stato, sono del tutto arbitrari. Bisogna trovare una forma di accesso alla ricchezza materiale e sociale che risponda ai bisogni dei lavoratori intermittenti, a tempo ridotto o in formazione. Dopo la creazione dello SMIC, nel 1967, la socializzazione di un salario staccato dall'implicazione produttiva individuale è divenuta evidente. La produzione è immediatamente sociale. Grazie alle lotte contro il lavoro, il suo carattere di attività collettiva viene parzialmente retribuito. La cooperazione sociale allora cessa di essere una risorsa gratuita. Se le lotte per il reddito garantito fanno seguito ad un movimento secolare di riduzione del tempo di lavoro, è perché solo esse tengono conto della confusione delle vecchie frontiere fra tempo di vita e tempo di lavoro, superando la classica distinzione fra produzione e riproduzione. Solo esse rispondono alla riduzione del tempo di lavoro che caratterizza la precarietà."
Ma, come sottolinea Gorz, la giustificazione della rivendicazione del "salario garantito" è contraddittoria. Parla innanzi tutto di rispondere "ai bisogni dei lavoratori intermittenti", di staccare il salario dalla "implicazione produttiva individuale". Ma poi glissa rapidamente e dice che la produzione è "diventata sociale". Il salario cessa allora di essere incondizionale, ma è legato alla retribuzione di un'attività "collettiva", alla "cooperazione sociale". Questo esempio mostra fino a che punto queste idee manchino di acutezza, di radicalismo, di messa in discussione del sistema capitalista.
2°) la confusione fra produzione immateriale produzione di relazioni, di reazioni emotive
Il fatto che il capitalismo ponga sempre più l'accento sulle relazioni sociali, anche in seno alle imprese o nel rapporto con il potenziale acquirente, così come sulle reazioni emotive, è innegabile. Tuttavia, possiamo dire che quando il controllore dei biglietti li buca con il sorriso sulle labbra, anziché con un aria triste, allora produce valore? Possiamo dire che la pubblicità per la Nike, che mostra degli uomini o delle donne che corrono senza preoccuparsi dello stato della strada, dell'acqua che scorre ... ci sia una produzione diretta di valore? Di quale valore si sta parlando? Del valore di scambio, monetario e di mercato, che è il solo che l'economia politica conosca? Oppure del valore intrinseco, di ciò che è intrinsecamente desiderabile e, per definizione, non scambiabile in quanto merce con le altre merci?
Piuttosto che produrre valore, l'immagine del marchio, gli slogan pubblicitari, costituiscono degli strumenti attraverso i quali la merce produce i suoi consumatori, cioè suscita i desideri, le voglie, l'immagine di sé di cui la merce dovrebbe rappresentare l'espressione più adeguata. L'importanza di un tale fenomeno è stata ben analizzata da Naomi Klein nel suo libro "No logo" (vedere anche la critica dettagliata, fatta da Aufheben, della nozione di lavoro immateriale di H&N)

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II. Il soggetto rivoluzionario: classe operaia o Moltitudini?
H&N riconoscono assai chiaramente i cambiamenti che hanno interessato la classe operaia nei paesi occidentali, gli Stati Uniti, e vedono nella precarietà, nella flessibilità, le nuove caratteristiche della forza lavoro odierna: "vedremo come le identità compatte degli operai dell'industria siano state erose dall'aumento dei contratti a tempo determinato e dalla mobilità forzata che caratterizzano le nuove fome di lavoro nei paesi dominanti". Alla domanda su chi sarà il soggetto rivoluzionario dell'avvenire, rispondono col concetto di "moltitudine": "Il nostro approccio iniziale consiste perciò nel concepire la moltitudine come l'insieme di quelli che lavorano sotto la tutela del capitale e dunque, potenzialmente, come la classe di quelli che rifiutano il dominio del capitale. Il concetto di moltitudine è del tutto distinto da quello di classe operaia, segnatamente come lo si è inteso nel XIX e nel XX secolo. Il concetto di classe operaia è un concetto restrittivo che si definisce per esclusione. Nella sua accezione più stretta, designa solo le forme industriali di lavoro, escludendo tutte le altre. Nel senso più largo, la classe operaia include tutti i lavoratori salariati ed esclude di conseguenza le diverse classi non salariate". "La società contemporanea si compone di un numero potenzialmente infinito di classi sociale che riflettono delle differenze che non sono esclusivamente di ordine economico, ma che riguardano l'appartenenza etnica o comunitaria, l'appartenenza geografica, il genere, la sessualità, insieme ad altri fattori". Secondo loro, la determinazione economica alla resistenza ha preso il posto della determinazione politica: "un'analisi del concetto economico di classe sociale, così come un'analisi del concetto di razza, non deve cominciare rilevando le differenze empiriche ma il fronte di resistenza collettiva al potere. La classe è un concetto politico, nella misura in cui una classe è, e non può essere altro che, un collettivo in lotta".
Il merito di questo approccio è quello di voler rompere con un determinismo economico che vede le possibilità dell'emergere di una coscienza rivoluzionaria solo come reazione a degli attacchi economici. Ma se le determinazioni economiche sono meno evidenti, nella società di oggi rispetto a quella dopo la seconda guerra mondiale, esistono sempre, anche se ad un livello più astratto. Di fronte al capitalismo, la classe operaia è costituita da quelli che hanno solo da vendere la loro forza lavoro.
Abbiamo già detto, sopra, del modo in cui Marx ha esaminato le conseguenze del passaggio dal dominio formale al dominio reale sull'agente del processo di lavoro totale, che non è più il lavoratore individuale, ma il lavoratore collettivo. Il passaggio dal fordismo al post-fordismo ha avuto delle importanti conseguenze sulla "coscienza di sé" di un tale "lavoratore collettivo". Lo sviluppo della precarietà, dei sotto-statuti, la sostituzione della catena di produzione per mezzo di robot sorvegliati da lavoratori, ecc., rendono difficile l'emergere della coscienza di un destino comune. Ma, piuttosto che un numero "infinito di classi sociali", la società moderna va verso una semplificazione: un numero crescente di elementi vengono proletarizzati, cioè non hanno altro che la loro forza lavoro da vendere. La categoria "lavoro" perciò rimane, finché esiste il capitalismo, primordiale come categoria mediatrice dei rapporti sociali, come sottolinea Postone: "Marx cerca di individuare la forma più fondamentale dei rapporti sociali che caratterizzano la società capitalista. Questa forma fondamentale, è la merce: una forma storicamente specifica dei rapporti sociali", costituita dal lavoro. "In una società dove la merce è la categoria fondamentale della strutturazione della totalità, il lavoro ed i suoi prodotti non vengono distribuiti socialmente per mezzo di legami, di norme e di rapporti palesi di potere e di dominio tradizionali - cioè a dire di rapporti sociali manifesti - come avviene nel caso di altre società. Al contrario, è il lavoro stesso che sostituisce questi rapporti, servendo da mezzo quasi oggettivo per mezzo del quale si acquisiscono i prodotti degli altri. Viene per emergere una nuova forma di interdipendenza dove nessuno consuma quello che produce, ma dove, tuttavia, il lavoro, o il prodotto del lavoro, di ciascuno serve da mezzo necessario per ottenere i prodotti degli altri (...)". "Nell'opera del Marx della maturità, dunque, l'idea secondo la quale il lavoro è centrale nella vita sociale, non è una proposizione trans-storica. Non si rapporta al fatto che la produzione materiale sarebbe un prerequisito per ogni vita sociale. Non significa perciò che la produzione materiale sarebbe la dimensione più essenziale della vita sociale in generale, o anche del capitalismo in particolare. In realtà, nel capitalismo, essa si rapporta alla costituzione, storicamente specifica, del lavoro come forma di mediazione sociale che caratterizza fondamentalmente questa società. E' su questa base che Marx fonda socialmente i tratti essenziali della modernità".
Anche la questione degli "esclusi" dalla produzione dev'essere considerata. L'aumento della produttività del lavoro, legato all'introduzione della tecnologia e della scienza nella produzione, porta ad una diminuzione del tempo di lavoro necessario, quindi a maggior disoccupazione, una massa più grande che non verrà mai integrata nel processo di produzione, e che fa tuttavia parte della classe operaia. La questione del lavoro, lungi dall'aver perso di importanza, rimane al contrario al cuore della resistenza al capitalismo, e al cuore delle battaglie a venire. "Né lavoratori, né disoccupati", recitava uno slogan nel corso dell'assemblea dei giovani studenti (marzo-aprile 2006, Francia). Si assiste all'emergere di una coscienza, fra i giovani, futuri lavoratori, del sistema di sfruttamento basato sul lavoro, e al di fuori del quale rimane solo il rifiuto di entrare ciecamente in questa logica.
Una delle questioni connesse, sollevata da H&N, riguarda il fatto che la classe operaia si riconosce solo quando è in azione, e quando si può misurare l'effetto della sua azione. In effetti, l'azione permette di percepirsi come soggetto, e di distinguersi dagli altri. Tuttavia, l'azione non basta a sé stessa. Quando i giovani delle periferie sono entrati in azione (novembre 2005), i giovani universitari ed i lavoratori attivi non hanno riconosciuto un tale movimento come facente parte della classe operaia. Convergere nell'azione di resistenza, di opposizione al capitalismo, necessita già di una coscienza del comune destino, di ciò che unisce, cioè a dire del rifiuto dello sfruttamento per mezzo del lavoro.
Inoltre, la tendenza della legge del valore ad invadere tutti gli aspetti della vita sociale, si accompagna ad una maggiore fragilità della base sociale del capitalismo: conflitti culturali, ecologici, rivendicazioni degli omosessuali, dei giovani, degli studenti ... danno l'impressione che la rivolta sia dappertutto ( e molto poco nelle fabbriche ). Il concetto di classe operaia è un concetto superato della storia? Quali sono le strade che prenderà il cambiamento rivoluzionario?
III. Il cambiamento: rivoluzione o presa del potere dall'interno?
H&N fanno parte di un movimento che sostiene che la rivoluzione non è più indispensabile, che è possibile cambiare il mondo senza prendere il potere, "svuotandolo della sua sostanza e delegittimando il potere delle istituzioni e di coloro che lo detengono, sottraendo all'impresa planetaria del capitale degli spazi di autonomia sempre più crescenti, e riappropriandosi di ciò di cui le popolazioni sono state spossessate. Tutto avviene come se il movimento del software libero, e gli altri movimenti come 'Reclaim the Streets', 'Ya Basta!', 'People's Global Action', 'Un altro mondo è possibile', 'Via campesina', oppure come 'l'Armata Zapatista di Liberazione' - che non ha mai sparato un colpo ma è riuscita ad unire decine di altri movimenti intorno ad una carta comune - fossero i componenti di un solo movimento in via di differenziazione e di ricomposizione perpetua, le cui reti libere sarebbero la comune matrice (...) Non ci sarà nessuna rivoluzione attraverso il rovesciamento del sistema da parte di forze esterne. La negazione del sistema si diffonde all'interno per mezzo delle pratiche alternative che suscita." (Gorz)
Questa concezione è vicina a quella di H&N, svolta nella terza parte del loro libro, intitolata "democrazia". H&N identificano tre tipi di rivendicazioni (che preferiscono chiamare "rimostranze") le quali suscitano delle opposizioni: quelle che riguardano la rappresentanza (per esempio, la mancanza di rappresentatività delle istituzioni globali come il Consiglio di Sicurezza dell'ONU, l'FMI); quelle che riguardano il diritto, la giustizia e la povertà economica: "il reddito medio dei 20 paesi più ricchi del pianeta è 37 volte più elevato del reddito medio dei paesi più poveri - uno scarto che si è raddoppiato nel corso degli ultimi 40 anni. Anche quando queste cifre sono ponderate tenendo contro del potere di acquisto, lo scarto rimane astronomico. La costruzione del mercato mondiale e l'integrazione globale delle economia nazionali non ci avvicinano gli uni agli altri, ma al contrario, non fanno altro che accrescere il fardello che grava sui poveri" (H&N); e le rivendicazioni biopolitiche, fra cui le rivendicazioni ecologiche, che sono necessariamente di ordine mondiale: movimenti contro l'inquinamento, contro le grandi dighe che comportano la deportazione di popolazioni di centinaia di migliaia di persone, movimenti contro la privatizzazione del genoma umano, privatizzazione della natura e delle conoscenze necessarie alla produzione di farmaci. H&N ravvisano in questo uno sforzo reale di integrazione dei temi e delle fonti di insoddisfazione sociale, che esiste a livello mondiale.
Noi pensiamo che questi movimenti emergono come reazione alla traiettoria del capitalismo nel suo periodo di decadenza, che distrugge il pianeta, accentua le disuguaglianze economiche, saccheggia le risorse dei paesi del Terzo Mondo o "in via di sviluppo". Questi movimenti testimoniano l'emergere della coscienza che la "soluzione" può essere solo mondiale, che è necessario un governo mondiale, il quale si preoccupi dei bisogni del genere umano, e non dei bisogni del profitto del capitalismo. E' questa la nuova utopia, il nuovo progetto sociale, che tende a polarizzarsi per mezzo di questi movimenti. Ma l'idea che ci si possa arrivare per mezzo di un'evoluzione "venuta dall'interno", per mezzo di istanze democratiche internazionali, facendo dell'economia una rivoluzione cosciente, chiara sui principi dell'abolizione del capitalismo, del lavoro salariato, ... crediamo che semini confusione, più di ogni altra cosa.
Alex Callinicos sottolinea giustamente fino a che punto l'ideologia autonomista abbia contribuito largamente a ridurre i manifestanti pacifisti del G8 di Genova del 2001, allo stato di vittime passive del terrore poliziesco. Le Tute Bianche  avevano annunciato, prima del vertice di Genova, l'obsolescenza della sinistra tradizionale ed il superamento "di tutte le opposizioni classiche del XX secolo: riformismo contro rivoluzione, avanguardie contro movimento, intellettuali contro operai, presa del potere contro esodo, violenza contro non violenza". Il 20 luglio 2001, le manifestazioni delle Tute Bianche furono preda dei violenti attacchi polizieschi che impedirono loro di raggiungere la zona rossa dove si teneva il G8: gas lacrimogeni, autoblindo, pallottole ...
A forza di fare l'elogio dei movimenti alter-mondialisti che "svuotano il potere della sua legittimità senza sparare un solo colpo", a forza di descrivere solo il movimento visibile, e non le contraddizioni astratte che lo animano, H&N rischiano di trovare delle affinità con ... la sinistra socialdemocratica. Si può trovare nelle teorie di H&N una teoria della globalizzazione vicina a quel pensieri e che permette loro di assumerne le conseguenze, ricevendone degli inattesi titoli nobiliari. E recuperare facilmente le idee di H&N: "Così, Mark Leonard, un ideologo blairista particolarmente grossolano, ha pubblicato un'intervista entusiasta con Negri, nella quale ha lodato quest'ultimo per aver arguito che la globalizzazione è un'opportunità per una sinistra preoccupata della libertà e della qualità della vita, piuttosto che preoccupata per una riduttiva ricerca dell'uguaglianza fra i gruppi, cosa che suona più da Tony Blair che da Toni Negri".(Callinicos)
Altre dichiarazioni, mostrano come H&N abbiano più la preoccupazione di piacere al più grande numero di persone possibili, che una preoccupazione rivoluzionaria (cioè un cambiamento radicale della società). Sulla questione "riforme o rivoluzione", H&N difendono l'argomento che "non c'è contraddizione fra riforme e rivoluzione. Anche se esse restano due concetti distinti, nelle condizioni attuali ci sembrano inseparabili. La trasformazione storica cui assistiamo è così radicale che delle proposte riformiste possono bastare a portare dei cambiamenti rivoluzionari. E quando le riforme democratiche del sistema globale si rivelano incapaci di fornire le basi per una vera democrazia, dimostrano ancora di più che una trasformazione rivoluzionaria è necessaria e possibile. Perciò è inutile spremerci le meningi per sapere se una proposta sia riformista o rivoluzionaria; serve assai più sapere se essa sia parte o no di un processo costituente" (H&N). Ancora più forte: H&N difendono i tribunali internazionali, in quanto "embrione di un sistema giudiziario globale"!!!
L'analisi di Marx afferma esplicitamente che una rivoluzione è necessaria e possibile. Emanciparsi dal capitalismo non significa liberare il lavoro e neppure redistribuire la ricchezza, ma emanciparsi da queste astrazioni reali che sono il lavoro ed il valore. Il valore di scambio tende a diminuire, in seguito all'introduzione nella produzione della scienza e della tecnica. Diventa possibile liberarsi dal valore, dalle forme concrete del lavoro, e dalle forme concrete della produzione e della vita sociale modellate dalle strutture sociali astratte basate sul valore. Noi facciamo nostre le parole di Postone: "L'analisi di Marx afferma esplicitamente che la forma di produzione industriale fondata sul proletariato, così come una folle forma di crescita economica, sono modellate dalla forma merce, e questo dimostra che le forme di produzione e di crescita sarebbero diverse in una società dove la ricchezza materiale sostituirebbe il valore, in quanto forma dominante di ricchezza. E' il capitalismo stesso a generare la possibilità di una tale società, di una diversa strutturazione del lavoro, di una forma diversa di crescita e di una differente forma di un'interdipendenza mondiale complessa - ma, allo stesso tempo, esso mina strutturalmente la realizzazione delle sue possibilità." Non si tratta semplicemente, come pensano i riformisti, di una questione di riduzione della durata del lavoro, e neppure di installare una società del tempo libero. Le parole di rivolta dei giovani nel movimento anti-"contratto di primo impiego", che proclamano "né disoccupati, né lavoratori", che rifiutano lo sfruttamento da e per mezzo del lavoro, sono assai più chiare e vanno nel senso di un messa in discussione del capitalismo.

Qualche parola per concludere

Riconoscere i cambiamenti intervenuti dopo la seconda guerra mondiale circa il modo in cui il capitalismo si valorizza, riconoscere le modifiche intervenute nella classe operaia, integrare le tematiche e le cause di insoddisfazione sociale esistenti nella società industriale avanzata, ecco una serie di obiettivi che il marxismo deve affrontare se vuole contribuire all'emergere della coscienza di classe. I gruppi, le tendenze che cercano di teorizzare questi cambiamenti non mancano, e "Moltitudini" di H&N è un reale contributo a questo processo. Ma bisogna situare questo sforzo nel quadro del marxismo, tornando al nocciolo, sotto pena altrimenti di smussare l'acutezza della critica. In caso contrario, H&N rischiano di essere i teorici dell'impotenza, acclamati ad ogni loro nuova uscita, ma rapidamente dimenticati quando si svilupperà il movimento rivoluzionario radicale.

J. - agosto 2006 -

fonte: critique radicale de la valeur

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