domenica 22 giugno 2014

Il capitale culturale

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E' il 1979, quando viene pubblicato in Francia, "Il socialismo degli intellettuali", di Jan Waclav Makhaïski (1867-1926). Il libro è una raccolta di articoli scritti negli anni che vanno dal 1898 al 1918, tradotto e presentato dallo storico dell'anarchismo russo, e futuro biografo di Nestor Makhno, Alexandre Skirda. Si sostiene, nel libro, una tesi iconoclasta, fino a quel momento nota solamente a qualche specialista: la finalità dei partiti che si pretendono rivoluzionari - prima socialdemocratici, in seguito comunisti - è stata quella di servire da rampa di lancio per gli intellettuali, verso il potere. Il libro ebbe un'accoglienza significativa, nella misura in cui criticava il ruolo degli intellettuali in quanto classe in seno al movimento "socialdemocratico" ed entrava in risonanza con alcuni dei principali dibattiti del momento a proposito dell'Unione Sovietica, del marxismo, del contenuto del socialismo, ecc..

intellettuali

Lo Stato, la cuoca ... e gli intellettuali
di Jean-Pierre Garnier

Ciò che più sorprende nelle tesi di Makhaïski, è, oltre la perspicacia dell'autore, la data in cui esse vennero scritte e la loro straordinaria attualità. Bisogna essere grati ad Alexandre Skirda che, nell'appassionante presentazione che ci propone, le ha situate nel loro contesto storico e teorico, prima di rintracciarne i discendenti. Dall'inizio del secolo, infatti, Makhaïski individua nel socialismo "l'ideologia degli intellettuali che traggono vantaggio dalla posizione che occupano in seno alla società capitalista - per mezzo del controllo della produzione e la gestione dell'economia - cosicché possano, usando il loro monopolio di conoscenza, tentare di ergersi a nuova classe dominante. Questa classe in ascesa di capitalisti del sapere sarebbe limitata nei suoi obiettivi dal quadro stretto del capitalismo tradizionale, e perciò si servirebbe della causa operaia al fine di promuovere i suoi propri interessi". I decenni che seguiranno andranno a confermare i fondamenti di questa tesi.
Dalla socialdemocrazia tedesca di Kautsky al socialismo "autogestionario" di Rocard, passando per il marxismo russo di Lenin e per "l'eurocomunismo" di Carillo e Berlinguer, quest'esperienza non ha effettivamente cessato di mostrare su quale base discutibile si fondava essenzialmente "l'anticapitalismo" degli intellettuali: "l'impotenza" e "l'incapacità" della borghesia a gestire correttamente gli affari del paese. "Non è forse evidente, domanda Makhaïski, che i socialisti si sollevano solo contro le forme arcaiche di dominio, e non contro il saccheggio secolare? Essi perseguono solo il rinnovamento di queste forme obsolete. Non si sollevano contro i padroni in generale ma solo contro quelli che hanno degenerato, contro quelli che non sono più capaci di dirigere e che portano l'economia alla rovina, con la loro incuria, con la loro inattività ed ignoranza". In altri termini, quel che gli intellettuali di sinistra rimproverano alla borghesia, non è tanto di essere una classe sfruttatrice, quanto la sua incompetenza. Loro, invece, si mostrano disposti ad ovviare a questo fallimento, a buttare fuori dalla scena storica i capitalisti privati e a sostituirli, per completare, a colpi di nazionalizzazione e di pianificazione, la "razionalizzazione" dello sfruttamento.
Agli occhi di Makhaïski, infatti, il socialismo professato dalla casta delle "mani bianche" imbevuti delle loro competenze non va affatto nel senso dell'emancipazione dei lavoratori: "Non è affatto la rivolta degli schiavi contro la società che li spoglia, queste sono le lamentele e i piani di piccoli rapaci, dell'intellettuale umiliato che cerca la poltrona, e che contende al padrone i benefici derivanti dallo sfruttamento degli operai". Una contesa che può finire molto male, al punto di poter sfociare nella liquidazione del secondo da parte del primo. Si parlerà, in questo caso, di "rivoluzione". Ma, per Makhaïski, "rivoluzionari" o "riformisti", gli intellettuali socialisti, d tutte le convinzioni, sono da mettere nello stesso paniere: quello dei granchi che lottano per migliorare la loro posizione di privilegiati sulle spalle degli operai. La rivoluzione d'ottobre aveva fornito a Makhaïski l'occasione di veder prendere corpo "sul campo" le sue peggiori paure. A differenza dei "marxisti" di tutti i tipi e dei loro fratelli nemici, i "gulagisti", ex"marxisti" riconvertiti alla difesa dell'"Occidente", non si lascia ingannare dalle etichette di "popolari", "operai" o "proletari" appiccicate alle istituzioni del nuovo regime instaurato dai bolscevichi. Per lui, evidentemente, non sono le masse che sono andate a governare lo Stato ma le élite piccolo-borghesi che, appena estromessi i vecchi dirigenti, si sono date da fare ad usare il potere del governo contro quelli che li avevano aiutati, armi alla mano, a conquistarlo, per instaurare la "disciplina rivoluzionaria del lavoro" nelle fabbriche, per "reprimere le rivolte degli affamati e schiacciare senza pietà le sommosse innescate dagli operai e dai disoccupati". Vale a dire, queste "dittature del proletariato" che si mutano in dittature sul proletariato, metamorfosi a proposito delle quali gli esperti in lotta di classe amano discutere di "astuzie della storia", al contrario appaiono a Makhaïski come il risultato logico della loro natura di classe, a condizione di sapersi intendere sulle parole. "Fare la rivoluzione", significa dirigerla, e non servire solamente da carne da cannone per la presa del potere mediante la violenza. "Costruire il socialismo", significa orientare, organizzare e controllare lo sviluppo della nuova società, e non servire solamente da "carne da fabbrica". Ora, ogni volta che gli intellettuali in lotta contro il capitalismo hanno, secondo la nota espressione, "ingrossato i ranghi del proletariato", ciò è avvenuto ad una condizione: marciare alla loro testa. Cosa che li mette naturalmente in buona posizione, quando il "partito d'avanguardia" diventa Stato.
"Dappertutto i socialisti si sforzano di suggerire agli operai che i loro soli sfruttatori, i loro soli oppressori, sono i detentori del capitale, i proprietari dei mezzi di produzione. Però, in tutti i paesi e in tutti gli Stati, esiste un'immensa classe di persone che non posseggono né capitale mercantile né capitale industriale e, nonostante ciò, vivono come dei veri e propri padroni. E' la classe delle persone istruite, la classe degli intellettuali." Di quello che il "lavoratore intellettuale" dispone, in effetti, e che cerca di far fruttare al meglio dei suoi interessi, è quello che Pierre Bourdieau chiama il "capitale culturale", il capitale della conoscenza che viene acquisito grazie al lavoro degli operai, come il capitalista acquisisce la sua fabbrica. Perché "mentre studia all'università, e viaggia per "pratica" all'estero, gli operai, loro, hanno faticato in fabbrica, producendo i mezzi per i suoi insegnamenti, per la sua formazione (...) Egli vende ai capitalisti la sua conoscenza per estrarre il meglio possibile il sudore ed il sangue degli operai. Egli vende il diploma che ha acquisito dal loro sfruttamento"; a meno che non preferisca prender posto nella coorte degli "agenti mercenari dello Stato".
E quando i "lavoratori intellettuali" aderiscono alla "causa del proletariato" perché si ritengono insufficientemente retribuiti o ritengono insufficientemente riconosciuta la qualità dei servizi da loro resi alla classe dirigente del momento, è ancora il loro intelletto quello che mobilitano per mascherare i loro piani e i loro calcoli di "classe dirigente potenziale, di futuri proprietari dei beni saccheggiati nel corso dei secoli. Non per niente gli intellettuali hanno in mano tutte le conoscenze e tutte le scienze". Fra le scienze "socialiste" elaborate per ingannare il proletariato, ce n'è una che si attira particolarmente l'ira di Makhaïski: il marxismo. Secondo Makhaïski, il "primo compito del marxismo è quello di mascherare l'interesse di classe coltivato nel corso dello sviluppo della grande industria: l'interesse dei mercenari privilegiati, dei lavoratori intellettuali nello Stato capitalista". Kautsky, Plekhanov e Lenin hanno saputo tradurre perfettamente le aspirazioni dell'élite alla successione dei capitalisti in nome di una "ragion storica" incarnata da uno sviluppo industriale ineluttabile, in quanto retto da delle leggi che si situano "al di sopra della volontà degli uomini" e che vengono identificate nel progresso scientifico, tecnico, e dunque sociale. Ma sarebbe vano voler vedere in questa conversione del socialismo scientifico in religione di una nuova classe in ascesa, il tradimento del pensiero del padre fondatore, da parte degli eredi più o meno legittimi. Marx stesso, in effetti, avrebbe contribuito a stabilire questa mistificazione, in particolare occultando - per legittimarlo - l'origine della remunerazione dei "lavoratori intellettuali": il prodotto non pagato del lavoro dei proletari. E' per ottenere una più grande fetta del plusvalore estorto ai proletari che "l'armata dei mercenari privilegiati del capitale e dello Stato capitalista si trova in opposizione con questi ultimi in occasione della vendita delle loro conoscenze, e si comporta, per tale ragione, ad un certo momento della lotta, come un distaccamento socialista dell'armata proletaria anticapitalista".
Più chiaroveggente degli ideologhi, le cui diverse interpretazioni del "fenomeno stalinista" dovevano in seguito fiorire nel campo della teoria marxista, Makhaïski scopre velocemente quello che rimane ancora opaco agli occhi di molti: "L'assenza della proprietà privata dei mezzi di produzione non risolve per niente la questione dello sfruttamento, anche se chiamiamo questo stato di cose, in un contesto differente, una "produzione socializzata". E non per niente egli chiama di nuovo le masse operaie a sollevarsi per le loro "precise esigenze di classe" contro la "borghesia democratica e lo Stato". Che egli utilizzi l'espressione "socialismo di Stato" al posto di quella di "capitalismo di Stato" per caratterizzare questa "nuova era del dominio di classe dei lavoratori intellettuali" non ha, sotto quest'angolatura, che un'importanza secondaria, salvo per quelli che amano prendere in considerazione solo le parole, per non dover guardare i fatti. Va da sé che, per gli intellettuali, lo Stato "socialista", non può che essere quello. Ma bisogna anche convincere le masse che è il loro. La "scienza marxista" viene usata per mettere un segno di eguaglianza tra il ruolo di guida della classe operaia e quello dei suoi dirigenti. Così le pretese dell'intellighenzia rivoluzionaria verranno sublimate in una "missione storica" del proletariato di cui essa ha sposato la causa, non senza aver introdotto, "dall'esterno", nel caso se ne fosse dubitato, la "coscienza politica" che gli mancava. Questo accoppiamento tautologico darà alla luce un mostro: il Partito-Stato che, per aiutare la classe operaia a compiere la sua famosa "missione", si appoggerà su di essa fino a schiacciarla. Si spiega così la ricettività degli intellettuali riguardo al marxismo: esaltati all'idea di fare alla fine pieno uso delle loro competenze, una volta liberatisi dall'umiliante controllo dei proprietari, delle industrie e dei banchieri "privati", salutano nell'avvento del socialismo, l'avveramento della loro propria trascendenza. Quanto al proletariato, ridotto dai suoi teorici ad un'astrazione storico-filosofica, non gli rimane altro da fare che sviluppare, contro i suoi "rappresentanti", il suo movimento spontaneo per l'autodeterminazione. Ma affinché la sua attività non sia solo difensiva, deve preservare la sua autonomia di pensiero costantemente rimessa in discussione da quegli intellettuali i quali, non contenti di privarli del prodotto del loro lavoro, li privano anche della loro identità sociale, molto più efficacemente di quanto possa fare la borghesia. Poiché la circostanza che, per la prima volta nella storia, gli intellettuali siano sul punto di diventare una classe dominante ha delle gravi conseguenze. Impedendo la formazione di intellettuali organici delle classi oppresse e una visione del mondo che sia loro propria, il regno degli intellettuali non rende problematica la comprensione della realtà sociale, se non nei termini dell'ideologia dominante? La questione è tanto di ordine epistemologico quanto politico. Non riguarda solamente i paesi del socialismo "irreale", a giudicare dal neo-oscurantismo che si è abbattuto sulla Francia da quando gli intellettuali, dopo aver vanamente tentato di cavalcare il proletariato per caracollare verso gli appuntamenti che avevano fissato con la storia, si sono a poco a poco convinti che era meglio per loro rientrare trionfalmente all'ovile, dove la borghesia avrebbe saputo consolarli confidando in loro per una nuova missione storica: pensare ad un "oltre il socialismo" compatibile con il mantenimento del capitalismo.
Perciò non è per niente esagerato temere che l'autoconoscenza della società sia minacciata di crisi, in quanto il gruppo sociale che, normalmente, assicura la produzione, il mantenimento e la trasmissione della cultura e delle finalità sociali, si organizza in una classe la cui attività cognitiva è subordinata ai suoi propri interessi di classe. Dato che l'economia di mercato non offre loro più degli sbocchi, gli intellettuali, spinti ad ingaggiare la lotta per una società che permetta loro di conquistare la direzione dell'economia, sono stati capaci di elaborare un pensiero che, benché conforme ai suoi interessi, non di meno è stato critico. Ma cosa succede quando arrivano al potere o quando si schierano massicciamente con il potere esistente? La risposta evidentemente non la si trova in Marx, "rimasto prigioniero della sua coppia antagonista capitalisti-operai, senza arrivare ad una terza forza sociale che avrebbe utilizzato la sua ideologia per conto proprio". Ma si può già intravvedere, leggendo la produzione intellettuale di questi ultimi dieci anni, dove minaccia di portare l'imprevista irruzione  di questo "terzo ladrone della storia": all'impossibilità di pensare un al di là del capitalismo e all'invalidazione come "utopico" di tutta la critica radicale dell'ordine stabilito. E di presentare questa regressione ideologica come una "rivoluzione teorica".

- Jean-Pierre Garnier -

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