domenica 20 aprile 2014

Rotture

mitra

Sulla Rivoluzione
di Robert Kurz

Il concetto di rivoluzione si connota storicamente a partire dal paradigma della Grande Rivoluzione francese, dal paradigma di tutta quella serie di rivoluzioni borghesi del XIX secolo e delle rivoluzioni per il "recupero della modernizzazione" che avvengono alla periferia dell'impero nel corso del XX secolo (Russia, Cina, Terzo Mondo). In un tale contesto, la rivoluzione era limitata alla forma politica della presa del potere e, per quel che concerne il XX secolo, alla statalizzazione delle categorie capitalistiche. Da questo punto di vista, il concetto appartiene a quel periodo della storia che ha visto imporsi il lavoro astratto, la logica della valorizzazione ed il rapporto moderno tra i sessi. La sua carriera sembra perciò terminata. In quel che rimane del marxismo, come nell'ideologia movimentista, la rivoluzione non gioca più alcun ruolo, in quanto atto di sconvolgimento politico. Ma questo sortirebbe l'effetto di gettare via il bambino insieme all'acqua sporca. Con l'accantonare il concetto di rivoluzione senza neppure averlo esaminato, la sinistra non ha fatto altro che ratificare la sua propria sottomissione alla forma d'esistenza capitalista socialmente fondata sulle classi medie.
Questo concetto di rivoluzione limitato alla politica, viene criticato da Marx fin dai suoi primi scritti. Per lui, la rivoluzione sociale rappresenta un'altra qualità, insieme al rapporto-valore e alla forma-merce, che abolisce la forma politica dello statalismo. Tuttavia, per Marx, come più tardi per Lukács, questo sconvolgimento continua a prendere la forma della rivoluzione proletaria. Ma così, più precisamente, questo paradigma rimane bloccato a livello del concetto di rivoluzione politica. Quando si raggiunge il limite interno della valorizzazione, la questione della rivoluzione viene posta in modo nuovo e differente, oltre l'ontologia del lavoro astratto: essa si pone in quanto rottura della sintesi sociale dominante sotto le forme del valore e del rapporto capitalista fra i sessi. Tale sintesi sociale non è altro che la forma specifica della socializzazione, nel senso di una totalità negativa che non può essere abolita se non da uno sconvolgimento che investa tutta la società.
E' questo il motivo per cui c'è bisogno di un movimento su vasta scala, ed oggigiorno su scala transnazionale, se si vuole colpire al cuore la sintesi sociale. Per esempio, le occupazioni dei luoghi di lavoro, da parte dei salariati, non sono sufficienti. Non farebbero altro che costituirsi in soggetto-capitale collettivo, un soggetto che rimane intrappolato nella sintesi operata dal mercato e dalla concorrenza. E' quello che ha fatto fallire finora tutti i tentativi di questo genere (per esempio, nel corso della grande crisi in Argentina). Una trasformazione a livello di un singolo capitale, oppure, in generale, a livello di una riproduzione particolare, è impossibile. Da sempre, è la questione della sintesi sociale, e dunque della pianificazione sociale al di là della forma-valore, che costituisce il punto di partenza (e non un qualsivoglia punto d'arrivo) della rottura pratica con il capitalismo. In tal senso, il concetto di rivoluzione non è diventato solo semplicemente senza oggetto - anche se non ha più niente a che fare con la vecchia concezione politica. La teoria critica, in quanto critica categoriale, deve insistere su tale questione della sintesi sociale - e anche contro la coscienza movimentista che si limita al livello "simbolico" e si rifiuta di affrontare il problema.
Oggi, il grande movimento post-operaista si compiace di dire che vuole "cambiare il mondo senza prendere il potere" (John Holloway). Qui, la sintesi sociale viene sostituita da un concetto "diffuso" di "vita quotidiana", che ha fatto carriera a partire dal 1968. Certo, ciò che viene sovente definito sotto il termine di "rivoluzione (culturale) della vita quotidiana" è sempre stata, in un modo o nell'altro, la musica che ha accompagnato le trasformazioni sociali; ma ridotta a questo unico aspetto, può anche essere un semplice adattamento culturale alla dinamica capitalista. Alcuni concetti elaborati dai sessantottini e dalla sinistra postmoderna si sono integrati da molto tempo nella gestione della crisi capitalista, per esempio sotto forma di propaganda neoliberista per l'auto-responsabilità individuale. La tematizzazione della vita quotidiana non può rimpiazzare quelli che sono interventi reali a livello della sintesi sociale; così come non si può prescindere dalla forza di intervento che si richiede (per esempio, scioperi, blocchi stradali o paralisi dei punti nevralgici del capitalismo). La "questione del potere" non è limitata al paradigma politico del potere dello Stato, ma si pone innanzitutto come questione di un contro-potere sociale nell'ambito della resistenza contro la gestione della crisi. In realtà, il quotidiano non è affatto, di per sé, un luogo di resistenza; nozione che, a questo livello, perde la sua sostanza. Al contrario, la resistenza comincia laddove gli individui si innalzano al di sopra del loro quotidiano determinato dal capitalismo fin dentro i loro stessi pori, e diventano finalmente capaci di organizzarsi.
Dopo i movimenti alternativi degli anni 1980, e la loro sconfitta, la metafisica di sinistra della vita quotidiana ha cominciato a riferirsi, in parte, anche a dei tentativi di un modo altro di produzione e di vita, su una scala più piccola di comunità particolaristiche, legittimate sia in modo utopistico che pragmatico. Questi tentativi, fatti per esempio sotto forma di un'economia cosiddetta locale o "Open Source" non arriva ad attaccare la sintesi sociale, più di quanto facciano le occupazioni delle aziende. In quanto pseudo-alternativa ad un movimento sociale di resistenza, e a partire dall'immanenza capitalista, questi tentativi minacciano di trasformarsi in autogestione della povertà. Nella misura in cui traspare l'idea di una critica della forma-merce, la critica perde il suo contenuto decisivo e si perde in contraddizioni senza via d'uscita. Non solo le pretese alternative si impantanano in relazioni contrattuali borghesi, ma finiscono per riferirsi anche a minuscoli segmenti della riproduzione che, nel loro insieme, rimangono determinati dal capitale. Ecco perché i "progetti pratici" particolaristi guardano generalmente verso un finanziamento esterno da parte dello Stato, che sia sotto forma di un "reddito sociale" o di una sponsorizzazione comunale. Lo statalismo keynesiano e l'ideologia alternativa non sono altro che le due facce di una stessa medaglia: il denominatore comune è l'orientamento diretto ed indiretto verso il deficit pubblico. Attraverso queste due posizioni, ciò che domina in maniera inconfessata è la coscienza della classi medie che vogliono sempre la botte piena e la moglie ubriaca. Le sinistre keynesiane ed alternative devono perciò respingere e negare la nuova qualità della crisi, perché le loro illusioni non sopravvivrebbero alla fine del sistema creditizio globale e dell'economia delle bolle finanziarie. Si troveranno di fronte al limite reale della sintesi sociale dominante, al più tardi quando il crollo brutale dell'economia mondiale colpirà la vita quotidiana fin dentro i centri capitalisti.

- Robert Kurz - da "Vita e morte del capitalismo. Cronache della crisi" -

fonte: Critique Radicale de la Valeur

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