venerdì 31 gennaio 2014

Attualità

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Il fantasma del voto di popolo - di Luciano Canfora -

«Con la vittoria dell'ostruzionismo dopo le elezioni generali del 1900 il liberalismo fu sopraffatto dalla democrazia: sopraffatto a tal segno che questa assorbì quello e le si sostituì, mentre sono termini sostanzialmente antitetici».
Così scriveva Antonio Salandra nel volume di «ricordi e pensieri» edito da Mondadori nel 1928, "La neutralità italiana". Salandra continuava additando Giolitti come «maggior rappresentante» della tendenza democratica, «colpevole» di credere e sostenere «essere i democratici i veri liberali».Non a caso Salandra indicava nell'anno 1900 lo spartiacque, l'anno di svolta che aveva aperto le porte alla deriva in senso democratico, giacché quello fu il momento, nella storia dell'Italia da poco unita, in cui la «destra storica» fu, e per un lungo tratto, travolta a seguito della repressione feroce dei moti di Milano del 1898 e dell'indignazione popolare contro Bava Beccaris, Di Rudinì e consorti. Dopo Zanardelli, pacificatore, fu l'ora di Giolitti e si avviò un'era - quella «giolittiana» appunto - in cui non solo non si rispose più con le fucilate agli scioperanti, ma si cominciò a porre seriamente la questione di allargare significativamente il suffragio in direzione quasi «universale», come poi accadde - escluse rimanendo pur sempre le donne - nel 1912, ad opera appunto di Giolitti.
Nel 1892 aveva ancora diritto al voto solo il 9,4% della popolazione e solo il 56% di tale 9% andò effettivamente a votare. Nel 1912 Giolitti, superando resistenze e perplessità (anche di autorevoli suoi consiglieri come Croce), allargò di molto il suffragio, pur lasciando fuori coloro che, «maggiorenni sotto i 30 anni», non avessero prestato il servizio militare o non corrispondessero a determinate condizioni di censo (Siotto-Pintor, voce «Elezione» dell'Enciclopedia italiana, vol. XIII, del 1932). E il corpo elettorale salì da 3 milioni e 300.000 a 8.700.000 di cui circa due milioni e mezzo di analfabeti. Giolitti intuì che il suffragio allargato si poteva concedere perché non era più un pericolo.

Gaetano Mosca

In questa svolta epocale della nostra storia si colloca la riflessione di Gaetano Mosca (1858-1941), docente di Diritto costituzionale, sottosegretario alle colonie con Salandra (1914-1916), senatore del Regno dal 6 ottobre 1919, ammiratore del Di Rudinì. L'elogio che egli ne tesse in uno scritto importante apparso nel «Corriere della Sera» l'8 agosto 1908 è raccolto nel bel volume, da poco in libreria, "Gaetano Mosca e il «Corriere della Sera»", curato egregiamente da Alberto Martinelli per la Fondazione Corriere della Sera. La ricchezza del volume impone di trascegliere qui solo alcuni temi. Quello cruciale dell'allargamento del suffragio campeggia. E Mosca si impegna, con argomenti assiduamente proposti, nel corso degli anni, al grande quotidiano milanese, contro il voto alle donne e contro il suffragio universale. Nel primo caso i suoi argomenti sono talvolta comici, come quando mostra aperture verso le professoresse (cui è difficile opporre l'argomento dell'inconsapevolezza e dell'eventuale analfabetismo) o quando evoca l'influenza dei «parroci» sul voto allargato. E in questo caso l'allarme riguarda l'influenza degli uomini di Chiesa non solo sulle donne, ma anche sugli analfabeti. Contro il suffragio universale (che a un certo punto osserva non essere neanche più tanto desiderato dagli stessi socialisti) i suoi argomenti sono quelli «classici» delle aristocrazie di tutti i tempi. È sarcastico verso Salvemini, che chiama con ironia «il geniale storico pugliese», il quale vorrebbe dare il voto ai contadini analfabeti della Basilicata, della Puglia o della Calabria. L'argomento più pungente che adduce è però quello dell'effettivo assenteismo: anche chi avrebbe diritto al voto non va a votare, non va a richiedere il certificato elettorale. (Si è visto che nel 1892 aveva votato poco più della metà degli aventi diritto).È tema ritornante, anche in tempi di suffragio universale, e in particolare nel tempo presente, che potremmo definire l'età della «stanchezza del suffragio universale». Una tale massiccia rinuncia a esercitare il diritto di voto è, per Mosca, la prova dell'assurdità di voler imporre a masse ancora più grandi l'esercizio del voto. Egli non poteva immaginare che, oltre un secolo dopo l'introduzione in Italia di quel suffragio semi-universale che tanto lo allarmava, si sarebbero sviluppate ingegnerie elettorali più o meno sofisticate, più o meno arbitrarie, miranti a creare de facto , con leggi di tipo maggioritario, una differenza e un diverso valore civile tra voto «utile» e voto «inutile».
Allarmante distinzione contro cui sapientemente si espresse Michele Ainis su questo giornale il 6 febbraio 2013. Le escogitazioni «maggioritarie» miranti a dare il governo in mano ad una minor pars del corpo elettorale possono apparirci oggi come la forma attuale dell'antico sogno «elitistico» di dare il potere effettivo soltanto a una minoranza qualificata. Come ben scrive Martinelli in prefazione, Mosca, con Albertini, guardava al declino dello Stato liberale «col disincantato pessimismo del conservatore». Essi «condividevano una analoga fedeltà all'eredità e al mito della Destra storica». Le aperture riformiste di Giolitti li allarmavano: e ritennero di fare un gran passo quando approvarono (1901) il riconoscimento giuridico dei sindacati.
Le questioni che Mosca affronta, e che ritornano costantemente pur nel cambiamento, spesso apparente, dei contesti storici, possono ridursi a una sola grande difficoltà: la rappresentanza della «volontà generale». Non è perciò forse privo di significato che un esponente importante della sinistra italiana del Novecento, Palmiro Togliatti, per un verso raccomandasse (teste Italo De Feo) la lettura di Gaetano Mosca e per l'altro elogiasse Giolitti, nel celebre saggio a lui intitolato. La questione dei modi di attuazione e di funzionamento del suffragio universale è tuttora aperta.

- Luciano Canfora - Pagina 33 (23 gennaio 2014) - Corriere della Sera -

giovedì 30 gennaio 2014

Scacco matto!

scacchi

New York, 1972, Bowery Street. Con ogni probabilità, vi sembrerà impossibile, ma i sei personaggi, cinque seduti per terra ed un sesto sdraiato, stanno rispondendo a delle domande a proposito della sfida scacchistica in corso fra Bobby Fischer e Boris Spassky, a Reykjavik. Dall'inchiesta sembra che emerse il fatto che a questi, della partita, non gliene potesse fregare di meno, come del resto a tutti gli abitanti di Bowery, che non sapevano nemmeno che la partita si giocava in Islanda. Ah, ovviamente, al settimo, quello che sta affacciato, fumando, sul ballatoio, la domanda non gliel'hanno nemmeno posta!

una carta di credito si aggira per l’Europa …

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I grandi avvenimenti compaiono, per così dire, due volte nella storia; "una volta come tragedia, e la seconda come farsa". E' questa l'affermazione definitiva con cui Marx - dopo essersi liberato del suo amore-odio per Hegel - apre il fuoco ne "Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte". Dopo la tragedia e la farsa, forse si potrebbe aggiungere una terza possibilità: quella che si riferisce al momento in cui i grandi accadimenti si propongono come ... estetica. Quando veniamo messi in condizione di poter contemplare i nostri peggiori disastri esposti in un museo. Quello che più o meno è accaduto, per esempio, con temi come la guerra civile spagnola, ma anche con avvenimenti più recenti come la guerra in Irak, che si sono ritrovati convertiti in generi artistici, o romanzeschi, e "revisionati" per mano di autori dalla provenienza più disparata. E' anche il caso del "comunismo" che negli ultimi anni ha avuto una sorta di revival certificato, negli ultimi anni, da una qualche decina di esposizioni e mostre - con il conio del neologismo "Ostalgia" - e dalla fascinazione che quel mondo sembra avere su fotografi, romanzieri e cineasti occidentali, a partire da Hollywood.
La tragedia, la farsa, l'estetica... e non è ancora finita. Esiste una quarta e, speriamo, ultima opzione. Quella dei grandi fatti che tornano sotto forma di ... business.
Almeno è quello che sembra volerci dimostrare la banca Sparkasse di Cheminita, in Germania (città che si è chiamata, dal 1953 al 1990, Karl-Marx-Stadt), che ha prodotto una carta di credito MasterCard recante in bell'evidenza le fattezze del fondatore del socialismo. Vale la pena aggiungere che una simile scelta, è stata effettuata a partire da una votazione online che ha incoronato Karl Marx vincitore assoluto.
C'è una specie di leggenda che racconta come, ai tempi del generalissimo Franco, ci fosse un editore spagnolo che sosteneva che i comunisti non andavano ammazzati, ma comprati!
Marx è morto, e non può essere comprato, ma può essere trasformato in ... feticcio. Un "valore di scambio", avrebbe detto di sé stesso, rimirando la sua faccia barbuta chiamata a legittimare il capitale finanziario. Una specie di fantasma tornato ad aggirarsi per il mondo, sotto forma di carta di credito, e che stavolta entra comodamente in tasca.

mercoledì 29 gennaio 2014

Riposatevi! (ovvero: la fine dell’eternità)

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A quanto pare, alla fine ci siamo arrivati all'abolizione del lavoro. Progressivamente, a poco a poco, travestita da disoccupazione sempre più crescente, sempre più di massa. E' questo l'unico modo in cui il capitalismo riesce a prendere atto dell'inutilità crescente del lavoro, al fine della produzione di valore. E se il lavoro non può essere più usato proficuamente, allora bisogna che, per salvare i profitti, una massa crescente di lavoratori venga restituita all'ozio. Solo che il capitale non ha alcuna intenzione di sopportare il peso di una tale massa; assai più vantaggioso, fare uso della competizione e della concorrenza, già sperimentata grazie alla progressiva diminuzione del lavoro, e grazie al suo incrementato potere produttivo. Così davanti ai nostri occhi si offre il paradosso per cui l'abolizione del lavoro, l'emancipazione dal lavoro, finisce per apparire come il suo contrario. L'emancipazione dal lavoro, il tempo a disposizione per il proprio libero sviluppo e per la propria libera attività, il tempo libero dal lavoro appare sotto forma di un'esistenza arida ed impoverita.
Un paradosso, e un circolo vizioso, per cui non sarebbe possibile emanciparsi dal lavoro, proprio perché non ci sono abbastanza posti di lavoro e salari:
"In primo luogo, dobbiamo aumentare i posti di lavoro ed aumentare i salari, di modo che così ci potremo sbarazzare poi dei posti di lavoro e dei salari. Dobbiamo aumentare la spesa dello Stato, di modo che così potremo poi abolire lo Stato. La gente non può pensare di liberarsi dal lavoro finché non avrà un salario sufficiente ad allontanare lo spettro della povertà. Abbiamo bisogno di più posti di lavoro, a salari più alti, prima che la gente possa considerare di farla finita con i posti di lavoro e con i salari." - Così recita l'ideologia di sinistra, e la coscienza dei lavoratori!
Un'esistenza arida ed impoverita, frutto della competizione e della concorrenza fra le classi, ha prodotto la sua ideologia necessaria al perpetuarsi della concorrenza, non solo fra le classi, ma anche all'interno di ciascuna classe. L'aumentata capacità produttiva del lavoro non porta solo molti capitalisti alla bancarotta ma fa sì che dove prima ci volevano cento lavoratori, ora ne basta uno. Gli altri novantanove devono competere, offrendo sé stessi alle condizioni più miserabili possibili, facendo abbassare sempre più il salario di quell'unico occupato. L'effetto è anche quello della dissoluzione e della disintegrazione delle associazioni di lavoratori, incapaci di ridurre la competizione, che invece continua ad aumentare, fino a coinvolgere le classi lavoratrici di tutte le nazioni dentro un unico mercato mondiale, in un quadro in cui la produttività del lavoro continua a crescere insieme alla competizione fra lavoratori. Il fatto per cui ora le classi lavoratrici di tutte le nazioni competano fra di loro, non fa altro che incrementare l'aumento della produttività e l'espulsione di milioni di lavoratori dal ciclo produttivo, e facendo altresì crescere la competizione per trovare un posto nel processo produttivo. Se non metteranno fine alla competizione, sarà la loro sopravvivenza fisica ad essere messa in discussione, e questa competizione può finire solo se si mette la parola fine al lavoro!

martedì 28 gennaio 2014

Pete Seeger–1919/2014

pete seeger

Woody Guthrie e Pete Seeger suonavano insieme in un gruppo, a New York. Indossavano camicie da lavoro e jeans, e scrivevano canzoni folk che avevano come protagonista l'uomo della strada, vittima dello sfruttamento in lotta contro i vampiri capitalisti. Sulla chitarra di Woody campeggiava lo slogan: "Questa macchina uccide i fascisti".
Sul banjo di Pete c'era una versione più moderata e gentile:
"Questa macchina attacca l'odio e lo costringe ad arrendersi".

lunedì 27 gennaio 2014

Pericoli

postone

A questo link, "Antisémitisme et National-socialisme" (1986), si può leggere il testo di Moishe Postone che fornisce delle chiavi di lettura, e di comprensione, per quel che riguarda l'antisemitismo del XX secolo, e che ci permette di procedere ad un'adeguata critica delle sue forme attuali. Di seguito, la traduzione di alcuni estratti.

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Il potere che l'antisemitismo attribuisce agli ebrei, è concepito non solo come il più grande, ma anche come reale, e non come potenziale. Questa differenza qualitativa viene espressa dall'antisemitismo moderno in termini di misteriosa presenza, inafferrabile, astratta ed universale. Tale potere non appare affatto in quanto tale, ma esso cerca un supporto concreto - politico, sociale o culturale - per mezzo del quale possa funzionare. Proprio perché questo potere non è fissato concretamente, viene percepito come immensamente grande e difficilmente controllabile. Si suppone che esso si nasconda dietro delle apparenze con le quali non coincide. La sua fonte è perciò nascosta, cospirativa. Gli ebrei sono sinonimo di un'inafferrabile cospirazione internazionale, smisuratamente potente.
(...) Quando si considerano le caratteristiche specifiche del potere che l'antisemitismo moderno attribuisce agli ebrei - astrazione, inafferrabilità, universalità e mobilità - ci accorgiamo che si tratta delle caratteristiche di una delle forme sociali analizzata da Marx: il valore. In più, questa - come il potere attribuito agli ebrei  - non appare mai in quanto valore, ma prende la forma di un supporto materiale: la merce. (...) Il capitale industriale - in quanto discendente diretto del lavoro artigianale, in quanto "organicamente radicato"-  può apparire "naturale" in opposizione al capitale finanziario "parassita e senza radici". L'organizzazione del capitale industriale sembra allora assomigliare a quella della corporazione medievale - l'insieme sociale in cui vive e agisce come unità organica superiore: come comunità, popolo, razza. Il capitale stesso - o meglio quello che viene percepito come aspetto negativo del capitalismo - viene identificato con la forma fenomenica della sua dimensione astratta, con il capitale finanziario e con il capitale fruttifero. In tal senso, l'interpretazione biologica che oppone alla dimensione concreta (del capitalismo), in "quanto naturale e sana", l'aspetto negativo di quello che viene scambiato per "il capitalismo", non è affatto in contraddizione con l'esaltazione del capitale industriale e tecnologico: entrambi si tengono sul lato "materiale" dell'antinomia. Questa forma di "anticapitalismo" si basa su un attacco unilaterale all'astratto. L'astratto ed il concreto non vengono visti nella loro unità, come parti fondanti di un'antinomia dove il superamento effettivo dell'astratto - nella dimensione del valore - presuppone il superamento pratico e storico anche dell'opposizione stessa, così come il superamento di ciascuno dei suoi termini.
(...)
L'attacco anticapitalista non si limita all'attacco contro l'astrazione. A livello di feticcio-capitale, non c'è solo il lato concreto dell'antinomia che può essere naturalizzato e biologizzato, ma anche il lato astratto, che viene biologizzato nella figura dell'Ebreo. Così, l'opposizione feticista del materiale concreto e dell'astratto, del "naturale" e dell' "artificiale", si trasforma in opposizione razziale tra l'Ariano e l'Ebreo, opposizione che riveste un significato storico mondiale. L'antisemitismo moderno consiste nella biologizzazione del capitalismo visto sotto la forma dell'astratto fenomenico, biologizzazione che trasforma il capitalismo in "giudaismo internazionale".
(...)
Gli ebrei non sono considerati semplicemente come i rappresentanti del capitale (in tal caso, in effetti, gli attacchi antisemiti vengono specificati in termini di classe). Essi diventano le personificazioni del dominio internazionale, sfuggente, distruttivo ed immensamente potente del capitale. Se certe forme di malcontento anticapitalista si dirigono contro la dimensione astratta fenomenica del capitale personificato nella figura dell'ebreo, ciò non avviene perché gli ebrei vengono identificati coscientemente con la dimensione astratta del valore, ma perché, nell'opposizione del sua dimensione astratta alla dimensione concreta, il capitalismo appare in un modo tale da generare questa identificazione. Ecco perché la rivolta "anticapitalista" ha preso la forma di una rivolta contro gli ebrei. La soppressione del capitalismo e dei suoi effetti negativi è stata identificata con la soppressione degli ebrei.
(...)
In un epoca in cui viene esaltato il concreto contro l'astratto, contro il "capitalismo" e contro lo Stato borghese, tale identificazione genera un'associazione fatale: gli ebrei erano senza radici, cosmopoliti e astratti.
(...)
Comprendere l'antisemitismo in questo modo ci permette di vedere un momento chiave del nazismo in quanto movimento anticapitalista tronco, caratterizzato da un odio verso l'astratto, una propensione a fare del concreto esistente un'ipostasi ed una missione che, pur crudele e delimitata, non è necessariamente guidata dall'odio: liberare il mondo dalla fonte di tutti i mali.
(...)
Se è vero che nel 1934 i nazisti hanno rinunciato all' "anticapitalismo" troppo concreto e plebeo delle SA, essi non rinunciarono tuttavia all'idea fondamentale dell'antisemitismo: "sapere" che la fonte di tutti i mali è l'astratto, l'Ebreo.

postone campo

domenica 26 gennaio 2014

Armi

miguel

E' il 6 maggio del 1937, quando Miguel Hernández pubblica "La rendición de la cabeza", sul periodico "Frente Sur", dove racconta e descrive l'assedio e la presa del Santuario della Cabeza, nella provincia di Jaén, sul fronte sud della guerra civile spagnola.  Al terzo paragrafo, intitolato "Pless con la sua arma di combattimento: la macchina fotografica", si può leggere:
"Alle otto, sei carri armati cominciarono a muoversi verso il Cerro Chico. Pless scivolò dietro uno di essi insieme ad un gruppo di fanteria, disposto a dare la propria vita per riuscire a prendere una buona fotografia. Pless è un tedesco che ha combattuto nella guerra europea e che, pertanto, ha una vasta esperienza. I suoi cinquant'anni non gli impediscono di correre e di ridere come un bambino, e nelle trincee si muove come un patriarca fotografo e guerriero. (...) Pless spara con la sua arma fotografica e avanza insieme a loro."

sabato 25 gennaio 2014

L’ultimo volo del “Girondino”

girondini artigas

C'era un calciatore professionista, Salvador Artigas, alla guida dell'ultimo aereo repubblicano che decollò dalla Spagna dopo la sconfitta nella guerra civile. Aveva imparato bene a pilotare, Artigas, anche se per frequentare il corso aveva dovuto rinunciare a giocare la finale della Coppa Mediterranea, con la sua squadra, il Levante. Fu l'unico a pilotare un Polikarpof, senza dover andare in Unione Sovietica per imparare a farlo. Tutte cose che non gli servirono a granché, quando, atterrato in Francia, venne internato nel campo di concentramento di Gurs.
A tirarlo fuori da lì, ci pensò Benito Díaz, un allenatore spagnolo esiliato che allenava i "Girondini" del Bordeaux. E mentre che c'era, insieme ad Artigas, dal campo tirò fuori anche Paco Mateo, per farli giocare nella sua squadra. Nel Bordeaux, in quel periodo, giocavano diversi esiliati repubblicani spagnoli, come Mancisidor e Urtizberea. E furono proprio due gol segnati da Urtizberea nella finale della Coppa di Francia, nel 1941, in piena occupazione nazista, a far guadagnare il titolo ai "Girondini".

girondini Burdeos antifascista

venerdì 24 gennaio 2014

Loghi

Lucio check

Erano tanti, e così ben fatti, che anche i più esperti periti della stessa banca non sapevano dire quali fossero autentici, e quali falsi. Per la banca americana First National City Bank, ribattezzata Citibank, la situazione era davvero preoccupante. Le alte sfere ritennero che fosse il caso di trasferirsi in Francia, per cercare di dare una soluzione al problema, perché se la cosa fosse continuata la banca sarebbe andata verso il fallimento.
Lucio era alle strette e quasi senza via d'uscita, le autorità francesi lo avevano già arrestato diverse volte, e si era fatto parecchi mesi di carcere. La direzione della banca voleva negoziare, ma non voleva farlo con un semplice operaio detenuto; chiedevano di poter parlare con il capo della banda.
I dirigenti americani non arrivavano a capire come un muratore, che viveva del proprio salario, potesse avere la capacità di stampare cheque falsi per finanziare una causa che non arrivavano a comprendere; e che invece non lo facesse per sé stesso, per poter vivere meglio senza dover lavorare. Dopo discussioni interminabili ed accuse in cui i toni si alzavano, arrivarono ad un accordo: Lucio avrebbe consegnato i cliché con i quali stampava gli cheque, e la banca avrebbe ritirato la denuncia.

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Riassumendo, la Pentagram ridisegnò il logo di Citibank al fine di migliorare la sua pubblica immagine e, conseguentemente, i suoi profitti. Invece, Lucio Urtubia ridisegnò i suoi cheque per aiutare a finanziarie diverse cause sociali, rivoluzionarie ed anticapitaliste.

giovedì 23 gennaio 2014

Raccolta differenziata

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Nella terza sezione del suo "L'apoteosi del denaro", Robert Kurz affronta un problema che è stato discusso dai marxisti per quasi 80 anni: "è chiaro che, nel suo complesso, la percentuale di quei lavoratori improduttivi (dal punto di vista della produzione di plusvalore) che rappresentano solo il consumo sociale, cioè ‘un costo generale’, è in costante aumento."
Un altro modo di esprimere lo stesso concetto è quello di dire che una percentuale sempre maggiore del tempo totale di lavoro della società viene sprecata nel lavoro improduttivo; un problema sollevato da David Graeber, in un suo recente articolo sui "lavori-stronzata".
Nello stabilire se il lavoro se ne stia andando via, portando con sé anche il capitalismo, è giusto interrogarsi a proposito dell'esistenza, o meno, del lavoro improduttivo, e come quantificarlo. C'è da dire che definire tale categoria è sempre stato oltremodo difficile, così difficile che molti teorici, dopo un "paio di coltellate", hanno rinunciato a farlo. Nel 2007, Chris Harman ci provò in un suo saggio, “The rate of profit and the world today”, nel quale fa riferimento a numerosi "marxisti" che, prima di lui, si sono posti lo stesso problema:
"Moseley, Shaikh e Tonak, e Simon Mohun hanno tutti notato un'altra caratteristica dello sviluppo più recente del capitalismo - quello evidenziato da Kidron nel 1970. La crescente porzione "non-produttiva dell'economia."
Per gli economisti borghesi, semplicemente il problema non sussiste, dal momento che per loro è produttivo qualsiasi lavoro per cui si viene pagati, mentre per i "marxisti", anche quando riescono a mettersi d'accordo su una definizione dello stesso, al momento in cui devono passare a stimarne la quantità, il risultato varia in modo quasi selvaggio. Leggiamo Harman: "Fred Moseley stima che le cifre nel commercio, negli Stati Uniti, siano cresciute da 8,9 milioni a 21 milioni, fra il 1950 ed il 1980, e che le cifre nella finanza siano cresciute da 1,9 milioni a 5,2 milioni, mentre la forza lavoro produttiva è cresciuta solo da 28 a 40,3 milioni. Shaik e Tonak calcolano che la percentuale produttiva sul lavoro totale, sempre negli USA, sia scesa dal 57 al 36% negli anni fra il 1948 ed il 1989. Simon Mohun ha calcolato che la percentuale di salari improduttivi sia cresciuta del 35% nel 1964, ad oltre il 50% nel 2000. Kildron ha calcolato che, facendo uso della sua definizione ampia, "tre quinti del lavoro effettivamente svolto, negli Stati Uniti, nel 1970, era sprecato da punto di vista del capitale."
I teorici del lavoro sembrano essere tutti d'accordo sul fatto che molto lavoro svolto sia del tutto inutile e, quindi, potrebbe essere eliminato. Quello su cui non sono d'accordo riguarda alcune "piccole cose", come stabilire quale lavoro sia improduttivo, quanto di questo lavoro improduttivo esista nell'economia e in quale parte dell'economia tale lavoro improduttivo viene svolto. Insomma, non riescono a dirci nulla sul lavoro improduttivo, salvo che è un problema.
Bogart, Humphrey Passage to Marseille (1944)

Kurz, nel 1995, ci ha provato, non a quantificare il problema empiricamente, ma a definirlo concettualmente. E pur fallendo, ha spostato significativamente il "pallino" sul biliardo della discussione: "La perdita d'importanza sociale dei settori industriali potrebbe risultare identica alla crisi e alla perdita d'importanza del mercato e del denaro, come forma generale di riproduzione capitalista." Che è come dire, in altre parole, che il peso crescente, in economia, del settore dei servizi - la proliferazione di quelli che Graeber chiama "lavori-stronzata" - potrebbe star segnalando la fine del capitalismo. Per la prima volta, un teorico del lavoro ha posto la questione del lavoro improduttivo dentro il contesto di una discussione sul crollo imminente del capitalismo! Le discussioni precedenti sul problema si erano sempre collocate all'interno della cosiddetta "tesi della stagnazione" - l'idea che il tasso di crescita capitalista stesse rallentando (divertente constatare come in tale tesi si siano rifugiati gli economisti borghesi, come Larry Summers). Il livello, insomma, era quello che si può leggere sempre in Harman:
"L'intervento statale per mitigare la crisi può solo prolungarla indefinitivamente. Questo non significa che l'economia mondiale è destinata semplicemente al declino. Una tendenza complessiva alla stagnazione può ancora essere accompagnata da piccoli 'boom'. con piccoli ma temporanei incrementi dell'occupazione. Ognuno di questi piccoli 'boom', comunque, riesce solo ad aggravare i problemi di un sistema che nel suo complesso risulta essere in una stagnazione generale, ed una devastazione estrema per settori particolari del sistema stesso."
Mentre Harman ha utilizzato la massa crescente di lavoro improduttivo per rendere conto del rallentamento del tasso di crescita dell'economia capitalista, Kurz lo utilizza per illustrare la sua tesi che il capitalismo è già entrato nella fase finale della sua data di scadenza. Per spiegare il problema posto dalla massa crescente di lavoro improduttivo in economia, Kurz parte dalla discussione sulla nozione di lavoro improduttivo, il quale inizialmente definisce solo l'opposto del lavoro produttivo. Si scopre così che, dal punto di vista del modo di produzione capitalista, tutto il lavoro che veniva svolto all'interno dei precedenti modi di produzione (feudale, ecc.) è improduttivo in senso capitalista. Infatti, dice Kurz, dal punto di vista del capitale, il lavoro svolto nei precedenti modi di produzione non può essere definito lavoro nel senso del termine usato dai teorici del lavoro, oggi. Ciò che noi chiamiamo lavoro è specifico al modo di produzione capitalista e non va confuso con la produzione di oggetti utili. Inoltre, Kurz, seguendo Marx, afferma:
"All'interno di quest'ultimo sistema, tutta l'attività svolta in cambio di denaro, o che si situa all'interno del contesto della valorizzazione del denaro, è formalmente 'lavoro astratto'. Ma questo non significa che lo sia anche in un senso sostanziale. In senso sostanziale, il lavoro astratto, cioè il lavoro il cui dispendio di energie spinge realmente la riproduzione capitalista, è solo lavoro 'produttivo' (produce capitale) che crea effettivamente plusvalore."

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Solo che c'è un problema: laffuori esiste un bel po' di lavoro che produce profitto, e non produce necessariamente plusvalore. Ossia, Marx, all'inizio del Capitale, spiega che non tutti gli oggetti che hanno un prezzo, hanno necessariamente un valore, e fa una lista di cose come "i territori vergini", "l'onore di una persona" e così via. Lo stesso avviene per il profitto: non tutto ciò che produce un profitto per il possessore di capitale, produce necessariamente un plusvalore. Prendiamo, per esempio, la "sicurezza" all'interno di una società d'impresa. Il lavoro di una guardia della sicurezza è un "costo generale" e rappresenta una perdita di una porzione di plusvalore. Ma se questo lavoro viene affidato ad una società di servizi di sicurezza, e quella società realizza un profitto vendendo servizi di sicurezza, il lavoro dei servizi di sicurezza, diventa produttivo? Risponde Kurz: "sì, e no!" Produttivo per la società di servizi che realizza un profitto, ma improduttivo per tutta l'economia. L'impresa capitalista può ridurre il costo della sicurezza, appaltandolo ad una società specializzata, e questa può realizzare un profitto riducendo i costi del lavoro (più telecamere e meno guardie), ma il costo totale della sicurezza va sempre sottratto dal volume totale del plusvalore prodotto dal capitale sociale totale. Ovviamente, poi, questo "costo generale" per la sicurezza, a sua volta si riverbera sulle società d'impresa capitalista specializzate in apparecchiature per la sicurezza. Come dire che i rapporti di produzione capitalista sono talmente intricati che è impossibile distinguere fra lavoro produttivo e lavoro improduttivo.
Kurz suggerisce perciò di pensare al capitalismo come ad un completo sistema di circolazione: "Quale, allora, è il criterio decisivo per determinare concettualmente sul piano del capitale complessivo (cioè, dopo aver eliminato la distorsione che tipicamente accompagna il punto di vista del capitale particolare) quale lavoro sia o non sia produttivo? ... Una definizione di lavoro produttivo, in riferimento al processo di mediazione della riproduzione capitalista vista come un intero, può presentarsi, in ultima istanza, solo nei termini della teoria della circolazione. In altre parole: è produttivo solo quel lavoro i cui prodotti (così come i suoi costi di riproduzione) ritornano al processo di accumulazione del capitale. Per capire il problema del lavoro improduttivo in un'economia capitalista, dice Kurz, dobbiamo pensare non solo in termini di produzione di valore, ma anche in che misura questo nuovo valore prodotto, trova la strada per tornare ad esser parte della riproduzione del capitale su larga scala. La circolazione del valore consumato produttivamente non finisce con il suo immediato consumo, ma riappare dentro la circolazione capitalista come lavoro produttivo supplementare" (E' facile qui pensare all'industria dei rifiuti, alla raccolta differenziata, ecc.).

mercoledì 22 gennaio 2014

Una Rosa per Korolenko

Korolenko

Nel 1918, quando Rosa Luxemburg era in carcere, il suo editore le chiese di scrivere qualcosa su Tolstoj. La sua risposta fu: "La sua idea non mi attrae per niente. Per chi? Per che cosa? Chiunque può leggersi i libri di Tolstoj e chi non ne ricevesse un forte soffio vitale, non lo riceverà certo da un qualsiasi commento."
Alla fine, dopo qualche discussione, però accettò di tradurre e scrivere una prefazione per un'opera di uno scrittore russo meno noto. L'autobiografia, "Storia di un mio contemporaneo", di Vladimir Korolenko. La  prefazione scritta dalla Luxemburg, "La vita di Korolenko", merita un posto fra i classici della cultura marxista.
Dopo aver fatto un quadro della società, della cultura e della politica russa del XIX secolo, passa a fare un confronto fra la letteratura russa e quella europea, analizzando l'essenziale. Facendo uso del metodo marxista, con abilità e duttilità, riesce a svolgere un'analisi critica che fa onore alle qualità sociali ed artistiche delle opere che prende in esame.
"La caratteristica principale dell'improvvisa comparsa della letteratura russa, sta nel fatto che sorse in opposizione al regime russo, nel suo spirito di lotta (...) Sotto lo zarismo, la letteratura acquistò un potere pubblico quale non aveva mai conosciuto in nessun altro paese o epoca", afferma la Luxemburg, esponendo la sua tesi centrale. La caratteristica dominate di tutta quell'opera letteraria risiede nel suo rifiuto dello status quo, e nella sua ricerca di alternative, convertendosi così in una delle forze più potenti, volte a minare le basi ideologiche e morali dell'assolutismo zarista.
Sebbene identifichi nell' "opposizione al regime", la principale caratteristica della letteratura russa dell'800, non intende riferirvisi come a qualcosa di "politico": "Niente, ovviamente, sarebbe più erroneo che dipingere la letteratura russa come un'arte tendenziosa in senso grossolano, oppure credere che i poeti russi fossero rivoluzionari, oppure progressisti. Schemi, quale "rivoluzionario" o "progressista" significano assai poco nell'arte." Il concetto viene chiarito ulteriormente quando si accosta a Dostoevskij: "Nel vero artista, la formula sociale che viene proposta riveste un'importanza secondaria: decisiva è la fonte della sua arte, lo spirito che la anima."

martedì 21 gennaio 2014

ecologica/mente

trade

Elogio della "crescita delle forze produttive" o critica della "produzione per la produzione"?
- Il doppio Marx di fronte alla crisi ecologica -
di Anselm Jappe

Per fortuna, sono passati i tempi in cui, in un dibattito, si poteva aver la meglio su un avversario solo citanto un passo appropriato di Marx (o inventandoselo, come faceva Althusser, per sua propria ammissione). Per fortuna, sono passati anche i tempi in cui ci si doveva vergognare di citare un autore che la caduta del Muro di Berlino avrebbe smentito per sempre, secondo la vulgata neoliberista. Al giorno d'oggi, è difficile non utilizzare gli strumenti di Marx al fine di comprendere quello che ci succede e, allo stesso tempo, non siamo affatto obbligati a prendere alla lettera ogni sua frase.
Dire questo, non vuole essere un invito al saccheggio delle sue idee, ad un uso eclettico per cui ciascuno attribuisce a Marx quello che più gli piace. Né si tratta di caricare di "verità lapalissiana" ciò che c'è di buono e di meno buono in Marx, dal momento che la sua opera, come tutte le opere, è contraddittoria e che anche lui è stato figlio del suo proprio tempo, condividendone i limiti, soprattutto per quel che riguarda l'ammirazione eccessiva per il progresso. E' più proficuo distinguere fra un Marx "essoterico" ed un Marx "esoterico": in una parte della sua opera - la parte quantitativamente maggiore - Marx è un figlio dissidente dell'Illuminismo, della società del progresso e del lavoro, di cui sostiene un'organizzazione più giusta, da realizzare attraverso la lotta di classe. Nell'altra parte, la parte "esoterica", critica le categorie di base della società capitalista: il valore ed il lavoro astratto, la merce e il denaro. Dimostra che queste modalità di produzione, lungi dall'essere presupposti neutri o positivi, sono già in quanto tali negativi e distruttivi, ma sono anche storicamente limitati alla sola società capitalista. In seguito, il marxismo, in pressoché tutte le sue varianti, ha sostenuto il Marx essoterico e si è battuto, con più o meno successo, per una migliore distribuzione del valore, della merce, del lavoro e del denaro, dimenticando ogni critica teorica o pratica di queste categorie in sé. Una parte dell'opera di Marx sostiene indiscutibilmente lo sviluppo delle forze produttive come presupposto di ogni emancipazione, ed accusa la borghesia di porsi come ostacolo. A tal titolo, il suo pensiero partecipa dell'entusiasmo per il progresso, tipico della sua epoca. Una gran parte del marxismo storico ha esteso questo punto di vista, in particolare nei paesi del "socialismo reale". Però, in un'altra parte del suo edificio teorico, Marx ha analizzato la "produzione per la produzione", la produzione come fine in sé, finalità tautologica ed autoreferenziale del sistema feticista della produzione di merci. Non appare possibile oggi capire la crisi ecologica, in quanto connessione fra l'evoluzione tecnologica ed il capitalismo, se non si tiene conto dei vincoli pseudo-oggettivi che derivano della valorizzazione del valore attraverso il lavoro astratto e che spingono a consumare la materia concreta del mondo al fine di soddisfare le esigenze astratte della forma-merce. Ecco, in poche parole, la questione chiave.

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Può essere utile riunire, come ha fatto Michael Löwy  nel suo libro sull'ecosocialismo, i passaggi in cui Marx esprime dei dubbi sulla logica produttivistica e dove riconosce che l'accumulazione del capitale è indifferente tanto ai bisogni umani, quanto alle devastazioni che infligge alla natura. Vi sono delle frasi, in cui Marx ed Engels indicano nell'inquinamento, nella degradazione dei prodotti alimentari e nell'esaurimento del suolo, degli effetti del capitalismo. Ma questo florilegio non arriva a dimostrare che Marx non fosse produttivistica, pur mantenendo i suoi dubbi. Per quanto concerne un riconoscimento esplicito della distruzione delle basi naturali, sicuramente era William Morris a vedere più chiaro di Marx. Il vero contributo al dibattito ecologico, della critica dell'economia politica di Marx, come viene formulata soprattutto nelle sue opere della maturità, risiede nell'analisi di un modo di produzione in cui il lavoro possiede una doppia natura: astratta e concreta. I suoi prodotti, le merci, hanno ugualmente una doppia natura - valore astratto e valore d'uso concreto. Ne deriva una subordinazione del concreto all'astratto che costituisce la novità della società capitalista e che rappresenta la sua vera specificità storica. E anche se Marx stesso non ne trae direttamente le conseguenze su un piano di quella che noi oggi chiamiamo "ecologia", queste conclusioni si impongono praticamente da sé sole al lettore attento. Sono, a mio modesto avviso, indispensabili per comprendere la folle logica produttivistica a cui siamo sottomessi. Sviluppare questo nucleo della teoria di Marx alla luce di tutto ciò che è venuto in seguito, mi sembra più utile per comprendere la nostra epoca che, per esempio, riferirsi direttamente al pensiero proto-socialista, o alla termodinamica ...
Ciò permetterà soprattutto di riconoscere in che modo la catastrofe ecologica è la conseguenza inevitabile di una società in cui il concreto - il lavoro concreto, il valore d'uso, i bisogni ed i desideri umani - non esiste socialmente se non in quanto "rappresentazione", incarnazione, supporto materiale indispensabile ma "collaterale" della sola realtà che conta, anche se si tratta di una realtà fantasmagorica: il valore astratto creato dal lavoro ridotto a semplice consumo di energia umnana indifferenziata, misurata in tempi, e che possiede la sua rappresentazione visibile nel denaro. Questo costituisce la struttura di base della società capitalistica, e tutto il resta ne è un derivato. La caratteristica della società capitalista non è l'ingiustizia, la dominazione, lo sfruttamento, il furto del sur-prodotto estorto a degli individui privi dei mezzi di produzione: tutto ciò esisteva anche nelle società precapitalistiche. Ma si trattava sempre di un conflitto intorno alla ripartizione di un prodotto concreto, e si svolgeva in condizioni che rimanevano sostanzialmente identiche, o che cambiavano molto lentamente. Solamente il capitalismo ha scatenato un dinamismo cieco ed illimitato, una ricerca della ricchezza senza limiti. Tutto ciò che è concreto ha dei limiti. Solo la valorizzazione del valore attraverso il lavoro, e la sua accumulazione sotto forma di denaro e capitale sono illimitati. Allorché tutta la produzione non serve ad altro che ad aumentare la somma di denaro investita, quando il solo fine è trasformare cento euro in centoventi, poi in centoquaranta, ecc., il modo di produzione allora è governato da quello che Marx chiama il "soggetto automatico": il valore. Gli esseri umani, anche i più potenti, si ritrovano a traino di un sistema che hanno creato senza sapere che avrebbero dovuto alimentarlo ogni giorno, anche a loro proprie spese, sotto pena della loro rovina. Marx ha dato il nome di "feticismo della merce" a questa rinuncia dell'uomo al proprio potere. E' evidente che certi individui, certi gruppi sociali, traggono più benefici rispetto ad altri in questo sistema: ma essi stessi non sono né i creatori né i veri dirigenti. Non sono altro che i sottoufficiali del capitale, come li chiamava Marx. La crisi economica ed ecologica globale non è il frutto di una congiura di criminali potenti ed avidi (anche se questi ne possono determinare qualche sviluppo particolare). Nel dibattito ecologico si ricade spesso in una miscela di psicologia e di moralismo che spiega tutti i mali del mondo con le azioni di individui, o di gruppi, predatori, intesa come una sorta di cospirazione permanente: "i capitalisti", i politici corrotti, i banchieri, gli eurocrati, la Bilderberg Society, gli imperialisti, le multinazionali ... Purtroppo, movimenti come Occupy Wall Street si sono ampiamente impantanati nella palude della critica personalizzante che può portare al peggior populismo (il recente movimento dei "forconi", in Italia, ne è un esempio). Non va molto meglio quando si concentra l'analisi sulla sola critica delle "mentalità" o delle "ideologie", parlando per esempio del "rapporto occidentale con la natura" o del "culto del possesso": da dove provengono le mentalità stesse? Come si sono diffuse in una data società? Non si fa altro così che spostare la questione.

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E infine, il ricorso alla critica marxiana della merce evita di riferirsi semplicemente ad una pretesa "natura umana", come fanno certe correnti ecologiste, per le quali è l'essere umano, in quanto tale, che si oppone alla natura e la distrugge. La critica marxiana ci spinge a concepire che è la società basata sul valore in quanto struttura pressoché totale, o per meglio dire totalizzante, ad aver reso così distruttivo l'agire umano verso la natura. Esiste oramai da molti secoli, e si è esteso al mondo intero. Non è affare di un gruppo ristretto di "capitalisti". Ha colonizzato tutta la vita, determinando, ad un grado maggiore o minore, le mentalità ed i comportamenti di praticamente tutti gli abitanti della terra. Da questo punto di vista, la critica marxiana non fornisce alcuna illusione riguardo la facilità di uscire dall'impasse. Né lo sviluppo sostenibile, né l'impiccagione dei banchieri, né delle comunità di autoproduzione agricola, né dei protocolli climatici andranno a risolvere i problemi. D'altra parte, la critica marxiana sottolinea che la radice dell'infelicità moderna, cioè a dire il lavoro astratto, il valore, ecc., sono dei fenomeni storici, e ci ricorda che molte società hanno vissuto in modo diverso e che perciò si potrebbe costruire un modo di vita che riposi su altre basi: un mondo dove il concreto non è ridotto ad essere al servizio di un feticcio senza contenuto che si autoriproduce e si accumula senza sosta. La crisi ecologica e l'esaurimento delle risorse naturali non sono affatto degli aspetti accessori del modo di produzione capitalista e non possono essere evitati stabilendo un capitalismo più "saggio", moderato, verde, durevole. Queste crisi derivano dal suo principio base; il "valore" di un prodotto sul mercato non è determinato altri che dal tempo di lavoro vivente socialmente necessario alla sua produzione. La concorrenza tra il capitale e la ricerca permanente dell'aumento di produttività, motore del sistema capitalista, possono utilizzare tutte le invenzioni tecnologiche che servono per economizzare lavoro: si produce sempre di più con meno lavoro. Un artigiano fabbrica una camicia in un'ora, un operaio alla macchina ne fa dieci, in un'ora. Ma le tecnologie non creano nuovo valore: solo il lavoro umano al momento della sua esecuzione ha questo potere. La camicia fatta alla macchina, nel nostro esempio, non contiene che sei minuti di lavoro, e dunque di valore. La porzione di plusvalore e di profitto - il solo fine di tutto questo processo - ne verrà necessariamente diminuita, per quanto grande possa essere il tasso di sfruttamento. La produzione della camicia industriale consuma altrettante risorse quante ne consuma la camicia artigianale - è il lato concreto. Ma dal lato astratto, dal lato del valore, ne fa produrre dieci, solo per evitare la contrazione della massa di valore e di plusvalore, e perciò fa consumare risorse dieci volte tanto, per ottenere la stessa quantità di valore e di profitto - e deve creare poi un bisogno sociale di camicie dieci volte tanto. In questo piccolo esempio c'è tutta la folle dinamica del produttivismo. Marx lo sapeva bene quando affermava, all'inizio del Capitale, che la scoperta della doppia natura del lavoro era la sua scoperta più importante ed è perciò che incominciava con essa la sua esposizione, ben prima di fare intervenire le classi sociali.
E' quindi difficile spiegare la crisi ecologica in modo strutturale senza ricorrere alle motivazioni soggettive degli attori, se si rifiutano le categorie della critica marxiana dell'economia politica. Diventa, allora, ugualmente difficile comprendere l'enorme forza di sollecitazione esercitata da questo meccanismo in permanente evoluzione. E' quello che in gran parte manca alla critica anti-produttivistica e che la fa sovente apparire tronca, o ingenua. D'altra parte, non si arriva ad identificare il problema se si riduce la teoria marxiana ad una critica del dominio personale esercitato dai proprietari giuridici dei mezzi di produzione, invece di vedere, nei proprietari, o nei loro sostituti, i gestori di un processo che li oltrepassa. Questa difficoltà a comprendere la natura profonda del modo di produzione capitalista, sfocia regolarmente in delle proposizioni "pratiche" che, in generale, hanno a che fare più con l'altercapitalismo che con l'anticapitalismo, malgrado le loro dichiarazioni di intenti. L'approccio appena descritto ha perciò dei punti di convergenza e di divergenza con l'ecosocialismo difeso da Löwy e con la decrescita proposta da Latouche. L'ecosocialismo si propone di unire il pensiero marxista e l'ecologia e ci ricorda che non possiamo uscire dal produttivismo e dalla crescita forzata senza uscire dal capitalismo. Ma - e questa è una gran domanda - cosa si intende qui per capitalismo? E dove situa, l'ecosocialismo, l'essenza del pensiero marxista?

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Löwy cita Hervé Kempf, il quale parla di "una classe dirigente predatrice ed avida (che) ostacola ogni velleità di effettiva trasformazione; pressoché tutte le sfere del potere, e di influenza, sono sottomesse al suo pseudo-realismo ... quest'oligarchia ossessionata dall'ostentazione di consumo e dalla competizione esagerata" e aggiunge Löwy "quelli che decidono per il pianeta - miliardari, manager, banchieri, investitori, ministri, parlamentari ed altri 'esperti'." Dunque, i capitalisti ed i nemici della natura, sono sempre gli altri? Gli immigrati ed i lavoratori cinesi che si ammazzano di lavoro per avere il loro portatile o la loro automobile sono solo vittime della pubblicità? Sono solo i ricchi a distruggere il pianeta, come dice il titolo del libro di Kempf? O si tratta, piuttosto, di un modo di vita accettato praticamente da tutti, attualmente - cosa che, tuttavia, non ne fa espressione di una "natura umana", ma rimane specificamente capitalista? Che dire della grottesca lotta contro l'ecotassa in Bretagna, o della resistenza che, in Perù, oppone i piccoli "raccoglitori di rame" al governo che vuole imporre loro di cessare le loro attività, sicuramente assai nocive, o degli operai che difendono con le unghie e con i denti i loro posti di lavoro cancerogeni? Criticare il ruolo che il movimento operaio ha sempre attribuito al proletariato, o ai suoi successori, non significa rompere con la teoria di Marx! Uno dei primi a farlo, è stato André Gorz, citato come nume tutelare tanto da Löwy che da Latouche. Gorz è stato uno dei primi a dimostrare che il lavoro non può costituire la base dell'emancipazione sociale. Tuttavia, uno dei punti che hanno in comune i miei due co-conferenzieri è quello di insistere ancora sulla "salvaguardia dell'impiego". Cosa che non solo è "irrealista" - nel senso peggiore del termine - ma è soprattutto incompatibile con la principale lezione che si può imparare da Marx: bisogna farla finita con il lavoro come forma di organizzazione sociale e come creatore di "valore" - cosa che implica il pensare in funzione dei bisogni, e non del lavoro. Ma Latouche cade nel keynesismo, quando arriva alle "proposte immediate": uscita dall'euro, inflazione controllata, piena occupazione ... e questi sarebbero i primi passi per "uscire dall'economia"! Löwy, da parte sua, parla di una "abolizione graduale del mercato" - considerato che Marx aveva detto chiaramente nella sua "Critica al Programma di Gotha" che lo scambio di mercato deve sparire all'inizio della trasformazione socialista, e non alla fine. Latouche, invece, vuole mantenere i beni non-materiali dentro una forma di mercato, "almeno in parte" - come se il mercato potesse tollerare, al proprio fianco, un settore non di mercato. Gorz, alla fine aveva rinunciato ad un'idea del genere, dopo averla a lungo difesa.
Perfino la miglior autogestione democratica della produzione, "garantita dall'assenza di burocrati", non serve a niente se non si libera delle catene del valore, del denaro, della concorrenza, del lavoro. Il "soggetto automatico" del valore potrà essere abolito, dal momento che non è esistito sempre. Ma esso non si lascia dettare altre regole. Un'officina gestita dagli operai in un regime che rimane basato sul mercato e sulla concorrenza seguirà la logica del valore, così come faranno tutte le altre unità di produzione. Bisognerà allora abolire per decreto denaro e salario, profitto e lavoro, mercato e scambio, da un giorno all'altro? In effetti, uscire dal denaro e dal lavoro non è affatto un programma "utopico", non è necessario evocare i Khmer rossi ... dal momento che è lo stesso capitalismo a farsi carico di questo programma. Solo che lo fa in maniera catastrofica, senza permettere di poter vivere senza lavoro e senza denaro. La sfida, per un pensiero ed una pratica critica, oggi è piuttosto di trovare delle risposte all'anomia che ne risulterà. I decrescitori ed i maussiani, sovente oppongono Karl Polanyi, o Marcel Mauss, a Marx. Effettivamente, Marx non ha fatto una critica esplicita dell'homo oeconomicus e dell'uomo prometeico - ma la sola critica possibile, che non si limiti ad una visione "idealista" della storia, si può trarre solo da Marx. Molte persone, da Castoriadis a Marshall Sahlins, da Louis Dumont ad Habermas, e lo stesso Latouche, sono partiti in guerra contro l' "economicismo" marxista - che è un fenomeno ben reale, sia presso i marxisti che presso lo stesso Marx. Ma non sono riusciti a vedere che la miglior critica poteva essere pronunciata proprio sulla vase della critica marxiana dell'economia politica.
Il valore del pensiero di Marx risiede nel saper cogliere la totalità del capitalismo. Questo non significa che si tratta di un pensiero che spieghi tutto a partire da un solo principio, e tanto meno che vuole essere un pensiero totalitario. Ma riconosce il fatto che è il capitalismo ad essere una totalità reale, allo stesso tempo negativa e spezzata - ed è questa la sua specificità storica. Voler ancorare la decrescita a sinistra, ma rifacendosi non a Marx, ma ai primi socialisti, significa privarsi della sola teoria coerente sull'insieme capitalista, a favore di altri pensieri che possono aver anche avuto ragione contro Marx, su un punto o su un altro, ma senza mai avanzare una teoria completa.
Per Latouche, i tentativi di unire marxismo ed ecologia non sono per niente "convincenti". Parimenti, egli pretende che la decrescita sia la vera eredità del marxismo, ammettendo così implicitamente la dimensione anti-produttivistica del pensiero marxiano. E, in un certo modo, non ha torto: la critica dell'economia, e del lavoro che l'ha fondata, è l'eredità più profonda della teoria marxiana, come hanno dimostrato, ciascuno alla sua maniera, la Scuola di Francoforte, i situazionisti, i teorici della critica del valore. Ma tutti questi sapevano bene che uscire dall'economia ed uscire dal capitalismo sono due cose che vanno di pari passo, e che un tale progetto non si realizzerà senza grandi lotte e conflitti. Due aspetti che la decrescita schiva volentieri, mentre l'ecosocialismo ne sembra più consapevole. Ma bisogna andare oltre l'economia, non ri-costruirla. E, più di ogni altra cosa, bisogna andare oltre l'immaginario capitalista dentro le nostre teste, cioè a dire quello che identifica l'abbondanza delle merci con la ricchezza possibile della vita.
Voglio perciò concludere con un autore che mi è assai caro, allorché parlavo nel 1957 de "la necessità di considerare un'azione ideologica conseguente per poter combattere, sul piano passionale, l'influenza dei metodi di propaganda del capitalismo evoluto: opporsi, concretamente, in ogni occasione, ai riflessi del modo di vita capitalista, con altri modi di vita desiderabile; distruggere, con tutti i modi iper-politici, l'idea borghese di felicità".

- Anselm Jappe -

« Penser l’écologie politique ». Conferenza tenuta il 13 gennaio 2014, a Parigi

Fonte: Critique radicale de la valeur

lunedì 20 gennaio 2014

Un fotografo all’inferno!

Paco

A fare il fotografo, Francisco Boix, detto Paco, aveva cominciato ben presto, prima ancora di imbracciare un fucile e combattere nella guerra civile spagnola. Del resto, quel luglio del 1936 non aveva nemmeno sedici anni, e ne aveva qualcosa in più di diciotto, quando, nel febbraio del 1939 attraversò i Pirenei per andare a finire prima nel campo di concentramento di Vernet d'Ariège e, poi, in quello di Septfonds. Ne riuscì a venir fuori, da quei campi, giusto in tempo per assistere all'invasione di Parigi da parte delle truppe naziste e finire deportato, insieme a migliaia di altri spagnoli, nel campo di concentramento di Mathausen, in Austria. E fu proprio grazie al suo mestiere di fotografo che, a Mathausen, venne messo a lavorare nel laboratorio fotografico dell'amministrazione del campo. Ma Paco non se ne sta buono buono in quel guscio che è riuscito a ritagliarsi, e organizza, insieme ad altri spagnoli, una sorta di Partito Comunista all'interno del campo. Fratellanza fra i detenuti e tutela, per quanto possibile, ma anche fotografie, catturate dalla sua macchina fotografica dentro il campo, che testimoniano le atrocità quotidiane e le pratiche di sterminio, le facce dei responsabili del campo e quelle dei gerarchi nazisti che frequentemente vengono a visitarlo per sincerarsi che tutto proceda come deve. Un pacco consistente di negativi che viene nascosto, e lì rimane per anni, nel muro del giardino di una donna tedesca. Le fotografie verranno utilizzate, come prova, davanti al Tribunale Internazionale di Norimberga - dove Boix sarà l'unico spagnolo a testimoniare - e nel processo di Dachau.
Paco tornerà a fare il fotografo in Francia, a Parigi, come fotoreporter per la stampa vicina al Partito Comunista Francese. Lo farà solo per pochi anni: Mathausen gli presenterà il conto nel gennaio del 1951 quando, a 30 anni, morirà in seguito a problemi renali. Si unirà a tutti quegli altri spagnoli, a quei tanti che hanno giocato un ruolo decisivo nella Storia, e di cui la Storia si è dimenticata. Nel 2000, Lorenzo Soler gli dedica un documentario. Un fotografo all'inferno!

domenica 19 gennaio 2014

La Nove

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La Storia, quella con la S maiuscola, si sa, la scrivono i vincitori, e Amado Granell si vede che non era nato per farne parte. Nato a Burriana, in Spagna, aveva combattuto contro Franco, prima, e contro Hitler poi, sotto la bandiera della Francia libera di De Gaulle. Aveva perso, prima, la guerra civile ed aveva vinto, poi, la seconda guerra mondiale, ma in tutt'e due i casi i suoi successi ed i suoi fallimenti erano finiti sotto la stessa coltre di oblio. Ci pensa ora un giornalista, Basilio Trilles, a recuperare la storia di questo personaggio incredibile nel libro "Lo spagnolo della foto di Parigi". La foto cu fa riferimento il titolo del libro è la stessa foto che campeggiava sulle prime pagine di tutti i giornali francesi, il giorno dopo la liberazione di Parigi. Granell fu il primo soldato ad entrare in città, e a sfilare per i viali parigini, dopo averla sgomberata dai nazisti. Una foto carica di un simbolismo decisamente scomodo, che la stampa francese cercò in tutti i modi di camuffare, per soddisfare le sue ambizioni scioviniste. Già due giorni dopo la liberazione, vennero fatti sparire dai giornali tutti i volti degli spagnoli. La stampa, di comune accordo, attribuì al capitano Raymond Dronne quella che era invece l'immagine di Granell che sfila, in auto, seduto accanto al prefetto della Senna. Non potevano tollerare, i francesi, che la punta di lancia della liberazione di Parigi fosse costituita da spagnoli.
Eroe improbabile, Granell si era aperto il cammino - che lo avrebbe portato, in quel giorno, fino a Parigi - dal suo esilio in Africa, dove si era arruolato nelle truppe del generale Leclerc. Aveva ancora in bocca l'amaro del fallimento, della sconfitta subita nella guerra contro Franco, e decise di assumere la battaglia contro il fascismo ed il nazismo, in Europa, con spirito di vendetta. Ed ebbe modo di consumarla, la sua vendetta in quella che aveva ricevuto a furor di popolo il nome di "La Nueve", un'unità militare composta da 150 spagnoli che perseguitò i nazisti fin dentro al "Nido delle aquile". Insomma, la versione spagnola dei "bastardi" di Tarantino!

Granell lanueve

Trilles ricostruisce la biografia di Granell e la storia bellica dell'epoca addentrandosi nelle trincee e muovendosi nei campi di battaglia, leggendo dispacci cospirativi, vagando per i bar e per camere di motel dalle lenzuola sporche. Nelle pagine del libro, si incontrano soldati coraggiosi e ufficiali manipolatori, politici illuminati e artisti come Hemingway e Capa. Tutti quanti servono a disegnare una mappa di un paese, del mondo, sottoposto ad una sorta di "selezione naturale alla rovescia". E' questa la definizione che Trilles dà della guerra! Un fenomeno di sacrificio dell'eroe a vantaggio di chi non lo è. A partire da un simile contesto, Trilles racconta in forma di romanzo la vita di Granell e così, i dialoghi ne soffrono in artificio ed ideologia, sebbene, in totale, la percentuale di finzione narrativa sia molto bassa. Pagine che odorano di polvere da sparo che hanno richiesto un grande sforzo, a partire dal fatto che in Spagna rimane pochissima informazione sui miliziani repubblicani. Ha dovuto utilizzare, perciò, il decreto con cui la Francia gli concedeva la Legion d'Onore e le pagine che riportavano il suo stato di servizio: un misero foglio pieno di cancellature. Poi, parlando con i familiari e con i sopravvissuti della "Nueve", spulciando gli archivi e le vecchie riviste della  Brigada Motorizada de Ametralladoras, di cui Granell aveva fatto parte nel corso della guerra civile spagnola, Trilles riesce a mettere insieme una storia travolgente, grazie a cui viene riscosso un credito dalla Storia.

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sabato 18 gennaio 2014

Presente remoto

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Era il 1929, e nel bel mezzo del crack economico, Sergei Eisenstein si incontra a Parigi con James Joyce. Le sue intenzioni sono quelle di "arruolare" l'autore di "Ulisse" in qualità di sceneggiatore per realizzare quello che appare essere il più ambizioso di tutti i suoi progetti: intende filmare "Il Capitale" di Marx. Il regista sovietico immagina questa pellicola come "l'unica avventura in grado di superare la discordia fra il linguaggio della logica e quella dell'immaginazione".
Il progetto non arrivò mai a venire realizzato, ed Eisenstein morì, nel 1948, senza aver mai girato l'opera che, secondo lui, avrebbe portato a termine il suo ciclo creativo.
Quasi ottant'anni dopo, nel 2008, mentre cominciava quella che è la crisi attuale, Alexander Kluge presenta il suo "Notizie dall'antichità ideologica - Marx, Eisenstein, Das Kapital", un film di quasi dieci ore distribuita in dvd dall'editore Surkhamp. Il regista tedesco, in tal modo, a partire dalla crisi attuale, realizza il sogno di Eisenstein di "filmare il Capitale" e, allo stesso tempo, rende omaggio ai tre uomini coinvolti nel progetto originale: Eisenstein, Marx e Joyce.  Il film porta in primo piano la verità a proposito dell'ideologia: non è l'una o l'altra ideologia ad essere diventata vecchia - un reperto dell'antichità, e infine una rovina - ma l'ideologia, le ideologie, tutte le ideologie. E' per questo che l'attuale "Rovina Greca" va sostituendo le rovine greche nell'immaginario dell'occidente. Una rovina, un'erosione contemporanea che non ha avuto bisogno del trascorrere dei secoli per ottenere il suo status. Mentre noi tutti ci muoviamo in questo "presente remoto" dentro il quale camminiamo convinti della sua normalità.

venerdì 17 gennaio 2014

“Io sono Spartaco!”

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INTRODUZIONE DEL 1996 AL ROMANZO "SPARTACUS" di Howard Fast
Quando mi sono seduto per dare inizio alla lunga e difficile impresa di scrivere la prima versione di "Spartacus" - quarant'anni fa - ero da poco uscito di prigione. Avevo già lavorato mentalmente su alcuni aspetti del romanzo mentre mi trovavo in carcere, un ambiente ideale per questo genere di lavoro. Il mio crimine era stato quello di essermi rifiutato di stilare, per il Comitato d'inchiesta sulle attività antiamericane, una lista dei membri dell'organizzazione denominata "Comitato di aiuto per i rifugiati antifascisti". Con la vittoria di Francisco Franco sulla Repubblica spagnola, legalmente costituita, migliaia di soldati repubblicani difensori della repubblica, insieme alle loro famiglie, avevano attraversato i Pirenei, diretti in Francia, e buona parte di loro si era stabilita a Tolosa, molti malati o feriti. La loro situazione era disperata. Un gruppo di antifascisti aveva raccolto denaro per comprare un vecchio convento e trasformarlo in un ospedale, ed i quaccheri avevano accettato di lavorare nell'ospedale se noi avessimo dato loro il denaro necessario per mantenerlo e farlo funzionare. A quel tempo c'era un appoggio impressionante alla causa della Spagna repubblicana, fra tutta la gente buona volontà, e fra questi si contavano molti nomi famosi. Era la lista di queste persone quella che ci siamo rifiutati di consegnare al Comitato e, per conseguenza, tutti i membri del nostro gruppo sono stati considerati colpevoli di oltraggio, e mandati in prigione.
Erano tempi difficili, i peggiori che io e mia moglie avessimo mai vissuto. Il nostro paese assomigliava, come mai prima nella sua storia, sempre più ad uno stato di polizia. J. Edgar Hoover, il capo dell'F.B.I., svolgeva il ruolo di un meschino dittatore. La paura di Hoover e del suo archivio con i nomi di migliaia di liberali teneva in ostaggio il paese. Nessuno si azzardò a parlare o ad alzare la voce contro la nostra prigionia. Come ho detto in altre occasioni, non era il momento peggiore per scrivere un libro come Spartacus. Quando ebbi finito di scriverlo, inviai il manoscritto ad Angus Cameron, il mio "editor" alla "Little Brown and Company". Il romanzo lo entusiasmò, e mi scrisse che per lui sarebbe stato fonte di piacere e di orgoglio farlo pubblicare, ma Hoover scrisse una lettera alla Little Brown and Company, intimando loro di non pubblicare il libro, e dopo di questo l'originale passò per le mani di altri sette noti editori. E tutti si rifiutarono di pubblicarlo. L'ultimo fu Doubleday e, dopo una riunione del comitato editoriale, George Hecht, capo della catena di librerie della Doubleday, uscì dalla sala arrabbiato e disgustato; mi chiamò al telefono e mi disse che finora non aveva mai assistito ad un atto di codardia come quello della Doubleday, e mi assicurò che se avessi pubblicato il libro per conto mio, ne avrebbe ordinato seicento copie. Non avevo mai pubblicato un libro per conto mio, però devo dire che trovai appoggio sulla stampa liberale e riuscii a portare a termine il progetto con il poco denaro che ci proveniva dalle nostre ordinarie occupazioni; e così, in qualche modo, il libro alla fine vide la luce. Con mia enorme sorpresa, se ne vendettero più di quarantamila copie dell'edizione rilegata, e varie milioni di copie qualche anno più tardi quando il clima di terrore cominciò a dissiparsi. Il libro venne tradotto in 56 lingue e, alla fine, dieci anni dopo essere stato scritto, Kirk Douglas convinse gli Studi Universal a farne un adattamento cinematografico. Col passare degli anni, questo film è diventato estremamente famoso, e anche mentre scrivo queste righe lo si può vedere al cinema. Suppongo di doverlo anche al periodo che ho passato dietro le sbarre. La guerra e la prigione sono temi difficili da trattare per uno scrittore che non ha mai avuto esperienza di queste due cose. Non conoscevo il latino, così dovetti acquisire una buona conoscenza di questa lingua che, praticamente, avevo del tutto dimenticato, ed anche questo fu parte del processo di scrittura. Non ho mai rinnegato il mio passato e se la mia esperienza carceraria mi ha aiutato a scrivere Spartaco, credo che questa sia stata la cosa migliore che ne sia provenuta.
- HOWARD FAST -
Howard Fast Archival Photo

giovedì 16 gennaio 2014

didascalie

brecht barcellona

"Suonano le campane e le salve esplodono.
Rendete grazie a Dio come assassino e come Cristo!
Ci ha dato il fuoco per attizzare il fuoco.
Ascoltate: il popolo è feccia, dio è fascista."
- Bertolt Brecht - "L'Abicì della guerra" -

E' il 20 febbraio del 1939, nella Plaza de Cataluña, a Barcellona, sacerdoti e vescovi insieme al generale Yagüe, delle truppe franchiste, celebrano un Te Deum di ringraziamento per la conquista della capitale catalana. "Un'arma contro la verità", così Bertolt Brecht definiva l'uso strumentale della fotografia, e per questo nel 1938 cominciò a raccogliere, insieme a questa, le fotografie che venivano pubblicate sui giornali, accompagnandole con una didascalia sua. Fotogrammi simili a poesie, la voce che manca ai volti, ed ai luoghi, che le fotografie ci hanno consegnato. A volte un commento supplementare, assai più spesso una sorta di voce fuori campo che zittisce il fotografo, davanti al dolore degli altri, anche quello che non è mostrato ma è intrinseco, ad una foto come questa. Un'immagine cliché, per dirla con Deleuze, un'immagine che ci obbliga a vedere le cose come "dobbiamo" vederle, e non come potremmo vederle. Immagini che servono ad illuderci che possiamo "vedere tutto", mentre invece "rendono invisibili mille cose" (Godard). Una sovra-esposizione di immagini. Immagini che ci impediscono di vedere, anche perché ci nascondono così molto meglio quelle immagini che vengono censurate.

mercoledì 15 gennaio 2014

La democrazia degli azionisti

Le avventure della merce - di Anselm Jappe -

jappe strada

Anche se molti ancora si rifiutano di comprendere la logica inesorabile che ha ci ha portato ad uno stato di questo mondo così buio, si diffonde sempre più la convinzione che il capitalismo ha messo l'umanità davanti a dei grandi problemi. Quasi sempre, la prima risposta è la seguente: "Dobbiamo tornare alla politica per dare delle regole al mercato. Dobbiamo ristabilire la democrazia minacciata dal potere delle multinazionale e delle Borse". Ma la politica e la democrazia, sono davvero il contrario dell'economia autonomizzata? Sono davvero esse capaci di riportarla dentro i suoi "giusti limiti"?
La "politica e l' "economia" sono sfere della totalità sociale, sottosistemi, complementari fra di loro. Così come le società pre-capitalistiche non avevano nessuna "economia" nel senso moderno, esse non avevano una politica così come noi la intendiamo. Da quando si è imposto il valore, in quanto forma di realtà sociale, esso ha implicato la nascita di sottosistemi differenziati. Il valore, con la sua pulsione impersonale a crescere in modo tautologico, non è una categoria puramente "economica" alla quale si possa opporre la "politica" in quanto sfera del libero arbitrio, della discussione e della decisione in comune. Tale idea, è stata a lungo uno dei pilastri di tutta la sinistra, al fine di "democratizzare" la vita politica per imporre delle regole all'economia. Ma nella società feticista della merce, la politica è un sottosistema secondario. Essa è nata dal fatto che lo scambio di merci non prevedevano relazioni sociali dirette e, di conseguenza, necessitava una sfera per i rapporti diretti e per la realizzazione dell'interesse universale. Senza istanze politiche, i soggetti del mercato passerebbero immediatamente ad una guerra generale di tutti contro tutti e, naturalmente, nessuno, vorrebbe farsi carico di garantire le infrastrutture.
Gli uomini, nella loro qualità di rappresentanti delle merci, non possono incontrarsi nella loro individualità e dunque non possono incontrarsi al fine di formare una comunità. La logica del valore si basa su dei produttori privati che non hanno legami sociali fra loro, ed è per questo che bisogna produrre un'istanza separata che si occupi dell'aspetto generale. Lo Stato moderno viene dunque creato dalla logica della merce; le due cose sono legate tra loro come due poli inseparabili. Il loro rapporto è cambiato più volte, nel corso della storia del capitalismo, ma è un grave errore lasciarsi coinvolgere dall'attuale polemica dei neoliberisti contro lo Stato (contraddetta anche dallo loro pratica, laddove sono al comando) che vuol farci credere che il capitale sarebbe fondamentalmente avverso allo Stato.
D'altra parte, il marxismo del movimento operaio, e pressoché di tutta la sinistra, ha ha sempre puntato tutto sullo Stato, anche fino al delirio, ritenendolo il contrario del capitalismo. La critica contemporanea del capitalismo neoliberista, evoca spesso un "ritorno dello Stato", unilateralmente identificato con lo Stato-provvidenza dell'era keynesiana. A dire il vero, è stato il capitalismo stesso che ha fatto ricorso, assai massivamente, allo Stato e alla politica durante la fase della sua istallazione (tra il XV e la fine del XVIII secolo), e continua a farlo laddove le categorie capitaliste devono ancora essere introdotte - i paesi arretrati ad est e a sud del mondo durante il XX secolo. Infine, vi ha sempre ricorso  dappertutto nelle situazioni di disagio. E' solo nei periodi in cui il mercato sembra marciare sulle proprie gambe, che il capitale vorrebbe ridurre le spese accessorie richieste da uno Stato forte.
La sinistra si è tristemente sbagliata di grosso, attribuendo allo Stato dei poteri sovrani di intervento. Anche perché la politica è sempre di più politica economica. Così come in certe società pre-capitaliste tutto veniva motivato dalla religione, così qualsiasi discussione politica ruota intorno al feticcio dell'economia. Dopo la fine della seconda guerra mondiale, la differenza fra la destra e la sinistra consisteva essenzialmente nelle loro divergenti ricette di politica economica. La politica, lungi dall'essere esterna o al di sopra della sfera economica, si muove completamente all'interno di questa. E non per la cattiva volontà degli attori politici, ma per una ragione strutturale: la politica non ha alcun mezzo autonomo di intervento. Deve sempre servirsi del denaro, ed ogni decisione che prende dev'essere "finanziata". Quando lo stato cerca di creare il suo proprio denaro e stampa carta moneta, questo denaro si svaluta immediatamente. Il potere statale funziona solamente finché riesce a prelevare denaro dai processi di valorizzazione che hanno successo. Quando questi processi cominciano a rallentare, l'economia limita  e soffoca sempre di più lo spazio d'azione della politica.  Diviene allora evidente che nella società del valore, la politica si trova in un rapporto di dipendenza diretto con l'economia. Con la sparizione dei suoi mezzi finanziari, lo Stato si riduce alla gestione, sempre più repressiva, della povertà. Alla fine, anche i soldati scappano, se non vengono pagati, e le forze armate diventano proprietà privata dei resti imbarbariti delle istituzioni statali - è quello che è accaduto in numerosi paesi del terzo mondo, ma anche nella vecchia Jugoslavia.

jappe borsa

Abbiamo indicato i maggiori elementi della crisi della socializzazione basata sulla forma valore: la società del lavoro si trova ormai senza lavoro. Lo stato nazionale in quanto meccanismo di regolazione è sul punto di scomparire. La crisi ecologica ci dice che, per continuare la creazione di valore, il mondo intero è stato gettato nel calderone della valorizzazione. I rapporti tradizionali fra i due sessi sono stati messi in discussione, dal momento che il lavoro femminile (domestico) in quanto "riserva oscura" della valorizzazione non può più essere integrato nella logica del valore. Questi problemi rimangono fuori dalla portata della politica, la quale comincia a girare a vuoto e degenera, definitivamente, in uno spettacolo pubblicitario che comprende i governi di unità nazionale che gestiscono ormai in tutti i paesi occidentali quella che è l'urgenza continua.
Il problema non risiede nel fatto che la politica non è abbastanza "democratica". La democrazia è l'altra faccia del capitale, non il suo contrario. Il concetto di democrazia in senso forte, presuppone che la società sia composta di soggetti dotati di libero arbitrio. Per avere una tale libertà di decisione, i soggetti dovrebbero trovarsi al di fuori della forma merce e disporre del valore come di un loro oggetto. Ma in una società feticista, non può esistere un simile soggetto autonomo e cosciente. Ne possono esistere solo dei frammenti, in formazione. Il valore non si limita ad essere una forma di produzione; esso è anche una forma di coscienza. Non solo nel senso che ogni modo di produzione produce allo stesso tempo delle forme di coscienza corrispondenti. Ma il valore, come pure le altre forme storiche di feticismo, è qualcosa di più; è una forma a priori in senso kantiano. E' uno schema di cui i soggetti non hanno coscienza, perché esso si presenta come "naturale", e non come storicamente determinato. In altre parole, tutto ciò che i soggetti del valore possono pensare, immaginare, volere o fare si mostra già sotto forma di merce, di denaro, di potere statale, di diritto. Il libero arbitrio non è affatto libero al cospetto né della forma merce né della forma denaro, né delle loro leggi. In una costituzione feticista, non esiste una volontà del soggetto che si possa opporre alla realtà "oggettiva". Dal momento che le leggi del valore si trovano fuori dalla portata del libero arbitrio degli individui, esse sono inaccessibili anche alla volontà politica. In questa situazione, "la democratizzazione non è altro che la sottomissione completa alla logica senza soggetto del denaro". All'interno della democrazia, non sono mai le forme feticiste di base a costituire l'oggetto della "discussione democratica". Esse sono già presupposte a tutte le decisioni, che non possono perciò concernere altro che il modo migliore di servire il feticcio. Nella società delle merci, la democrazia non è "manipolata", "formale", "falsa", "borghese". Essa è la forma più adeguata alla società capitalista, nella quale gli individui hanno completamente interiorizzato la necessità di lavorare e guadagnare soldi. Laddove è ancora indispensabile inculcare agli uomini, a colpi di bastone, la sottomissione al capitale, là il capitalismo si trova ancora in una forma molto imperfetta. Si manca di cogliere l'essenziale se ci si ostina, come ha fatto instancabilmente la sinistra, a mettere in rilievo che i gruppi economici, i media, le chiese, ecc. manipolano gli elettori e trasformano la democrazia in qualcosa di assai differente di quello che sta scritto dentro le Costituzioni - benché, evidentemente, tali manipolazioni esistano. La democrazia è completa quando tutto è soggetto a venire negoziato - salvo i vincoli che derivano dal lavoro e dal denaro. I soggetti per i quali la trasformazione del lavoro in denaro è il fondamento indiscutibile della loro esistenza, decideranno sempre - anche se sono "completamente liberi" di scegliere - a favore di quello che le leggi della merce imporranno sotto forma di "imperativo tecnologico" o di "imperativo del mercato". "Smascherare" i "veri interessi" che si nascondono dietro tali "imperativi" è uno degli sport preferiti della sinistra. Quando invece bisognerebbe piuttosto mettere in discussione il sistema feticcio che produce tali imperativi, che al suo interno sono reali.

Jappe Marx0

Le illusioni "di sinistra" sulla democrazia si sono rivelate particolarmente audaci quando si sono presentate come domanda di "autogestione operaia" delle imprese, quindi come estensione della "democrazia" al processo di produzione. Ma se quello che si deve autogestire, è un'impresa che deve realizzare dei profitti monetari, gli autogestenti non possono fare altro, collettivamente,  che quello che fanno tutti i soggetti del mercato: devono fare sopravvivere la loro unità di produzione contro la concorrenza. Il fallimento di tutti i tentativi di autogestione, anche quelli organizzati su grande scala, come in Jugoslavia, non possono essere imputabili solamente al sabotaggio portato avanti dai burocrati (anche se questo ha naturalmente luogo). Ma in assenza di un modo di produzione realmente socializzato, le unità di produzione separata sono condannate, che lo vogliano o meno, a seguire le leggi feticiste della redditività. Nella società di mercato pienamente sviluppata, gli individui, che non possono immaginare una vita al di fuori del lavoro e delle merci, fanno di loro propria iniziativa tutto quello che è necessario per fare avanzare questo sistema, senza bisogno di essere manipolati. In effetti, si nota che esistono sempre più soggetti che riuniscono in sé stessi le categorie logiche del proprietario di mezzi di produzione e del salariato: nel quadro dell'enorme aumento del numero di lavoratori "autonomi", che in alcuni paesi sono già diventati più numerosi dei salariati, questa figura di auto-sfruttato conosce un'enorme diffusione. Tra i salariati che rimangono, molti difendono effettivamente i loro "interessi" e si ammazzano di lavoro per mantenere la "competitività dell'impresa in cui hanno il loro "posto". L' "autogestione operaia" alla fine ha trovato una sua crudele parodia nell'idea di una "democrazia degli azionisti", vale a dire quella di un universo di salariati che, pagati in azioni, diventano, collettivamente, "proprietari delle loro imprese", realizzando così l'associazione, perfettamente riuscita, del capitale e del lavoro. Possiamo in effetti immaginare, almeno sul piano logico, una società capitalista dove la proprietà dei mezzi di produzione è distribuita fra tutti i soggetti, invece di essere concentrata nelle mani di pochi. Il fondamento di tale società riposa sul rapporto di appropriazione privata, non sul numero di proprietari. La "democrazia degli azionisti" non esisterà mai, ma la sola possibilità dimostra che il conflitto tra lavoro e capitale non costituisce affatto il cuore della società capitalista.

- Anselm Jappe, da "Les Aventures de la marchandise", Denoel, 2003, p. 166-172. -