sabato 30 novembre 2013

Indipendenti

sciascia

«Con queste parole di Amiel – “Noi ci serbiamo a un avvenire che non viene mai” – si chiude un curioso libretto autobiografico di Antonio Canepa, palermitano, professore di storia delle dottrine politiche nell’università di Catania, comandante dei gruppi armati del Movimento indipendentista nella zona etnea e in quella zona ucciso dai carabinieri. La breve autobiografia, pubblicata nel 1940, è presentata con ingenua e complicata mistificazione: ne è dato come autore un Jean Sorédan, chein una nota ringrazia un dottor Guido Colozza, segretario di Canepa, per i dati e le informazioni che gli aveva fornito; la traduzione dal francese è attribuita a un Federico Vitanza Scotti, al quale Canepa, in una lettera stampata su carta verde e allegata al libretto, blandamente rimprovera qualche inesattezza del Sorédan. Questo gioco mistificatorio, di mistificazioni che escono una dall’altra come scatole cinesi, è in parte frutto del temperamento di Canepa e in parte dettato dalla contingente necessità di dire e non dire, di dare ambiguità a certe affermazioni che nel 1940, diciottesimo dell’era fascista, potevano essere pericolose. Sotto le dichiarazioni di ortodossia fascista Canepa infatti velava l’affermazione di principi democratici: ‘Veramente grande è colui che sa ascoltare con paziente serenità le argomentazioni di un avversario…Sono tre le virtù, immensamente rare, che sole valgono a conciliare l’uomo con se stesso e col mondo: la tolleranza, la moderazione, la semplicità…Questa guerra, come tutte le guerre, è un giuoco temerario nel quale i veri interessi dei popoli non hanno parte…”; e quando il suo immaginario biografo gli domanda se crede che dalla guerra sorgerà l’ordine nuovo, sbandierato dai nazi-fascisti, recisamente risponde di no. Questa stessa ambiguità è nel suo voluminoso “Sistema di dottrina del fascismo” attraverso il quale riesce a far passare tanta dottrina allora proibita, tanto pensiero “eretico”.
Il ritratto che vien fuori dall’autobiografia è quello di un uomo fondamentalmente romantico ed anarchico, effettualmente autodidatta (e con tutta la confusione e presunzione dell’autodidatta, ma con pronunciate venature illuministiche. Parlando della sua formazione dice di aver esumato il “Dictionnaire philosophique” di Voltaire e persino gli scritti di Bayle: e veramente, in quegli anni, autori come Bayle e Voltaire erano così scarsamente frequentati che a buon diritto può dire di averli esumati.
Il suo gusto per l’avventura era straordinariamente vivo: aveva tentato, nel 1933, di occupare con le armi la Repubblica di San Marino e di resistervi per qualche tempo, per dire al mondo che in Italia l’antifascismo era vivo anche nella nuova generazione. Ma il complotto fu scoperto, e i congiurati furono arrestati parte in territorio italiano, parte a San Marino. In Italia, furono dati per pazzi; a San Marino si ebbero dure condanne. Di ciò Canepa tace nella sua autobiografia. Ma è chiaro che, finita l’avventura sammarinese, Canepa si diede a scalare la cattedra universitaria con uguale spirito di beffarda avventura: nel giro di tre mesi buttò giù il poderoso “Sistema di dottrina del fascismo”, suscitando la diffidenza del massimo organo di stampa dei fascisti, che vi notava la fede fascista ridotta a una aridissima categoria kantiana, e il consenso dei cattedratici, che invece vi riconoscevano esattezza metodologica.
Successivamente pubblicava uno studio sull’organizzazione del partito fascista che incontrava il consenso dei dottrinari e dello stesso “Popolo d’Italia” che lo aveva attaccato per il Sistema: per cui, giovanissimo, si trovò incaricato per la storia delle dottrine politiche prima nell’Università di Palermo e poi in quella di Catania. Aveva capito, come già i comunisti, che ai giovani antifascisti meglio conveniva operare da di dentro. Forse in questo periodo, intorno al 1940, egli ebbe modo di stabilire contatti col servizio segreto inglese: persone degne di fede, che gli furono vicine fin dal suo arrivo all’università di Catania e per tutto il periodo della guerra e dell’azione indipendentista, assicurano che questi contatti ci furono, e si concretarono in azioni di sabotaggio in Sicilia.
E crediamo che dalle stesse fonti provengano le informazioni che Filippo Gaja offre nel libro “L’esercito della lupara”. Gaja dice anzi che dopo un’azione di sabotaggio condotta contro l’aeroporto di Gerbini, Canepa passò nel nord d’Italia per svolgere una missione; e precisamente intorno a Firenze ebbe a partecipare, nei primi del ’44, ad azioni partigiane. Ma comandanti partigiani della Toscana, da noi interpellati, lo escludono; a meno che, come ci ha detto uno di loro, Canepa non sia stato uno di quegli elementi di collegamento dei servizi inglesi, i quali si muovevano da una formazione all’altra con assoluta autonomia e senza mai entrare in effettiva confidenza coi partigiani. Il che può essere appunto il caso. Certo è, comunque, che nell’estate del ’44 Canepa è di nuovo in Sicilia: indipendentista ma, afferma il Gaja, con la tessera del Partito Comunista in tasca. Affermazione questa, non comprovata da alcun documento o testimonianza, anche se sono indubitabili gli intendimenti effettivamente rivoluzionari, di rivoluzione sociale, che il Canepa portava dietro il Movimento Indipendentista. Prima la Sicilia indipendente, diceva Canepa, e poi le terre o le teste.
Ma a rimetterci la testa fu proprio Antonio Canepa, teorico e guerrigliero della rivoluzione indipendentista siciliana. Il 17 giugno 1945, alle porte di Randazzo, una pattuglia di carabinieri intimò l’alt a un motofurgoncino, proveniente da Cesarò, guidato da Giuseppe Amato (oggi consigliere comunale di Catania per il PSIUP) con a bordo Canepa, Nino Velis, Carmelo Rosano, Nando Romano e il giovanissimo Giuseppe Giudice. La sequenza del fatto, ansiosa e veloce, non risulta del tutto chiaro dal ricordo dei protagonisti: Amato ricorda di aver visto un carabiniere tirar giù dal furgoncino il ragazzo Giudice e di aver poi sentito il primo sparo; Velis ricorda invece prima lo sparo, forse da parte di Canepa contro i carabinieri. Discordanza abbastanza comprensibile, se si considera che Amato vide la scena voltandosi per un momento indietro e Velis l’aveva invece di fronte. La differenza dal punto di vista tra Canepa e Amato fu d’altra parte, con tutta probabilità, quella che segnò il tragico destino di Canepa, Rosano e Giudice; perché Amato sapeva di avere già guadagnato la curva, mentre Canepa vedeva ancora la pattuglia dei carabinieri. Sarebbero bastati un paio di metri ancora, e sarebbero stati fuori tiro: ma Canepa battè sulla spalla di Amato, che era il segnale stabilito perché si fermasse; Amato si fermò, sentì uno sparo e poi il grido di Canepa: “Perché sparate, che bisogno c’è di sparare?”; il che vuol dire che erano stati i carabinieri a sparare il primo colpo, forse per intimidazione. Poi seguirono altri scoppi, uno dei quali fu quello della bomba a mano che Canepa portava in tasca e che gli dilacerò la coscia (la bomba, evidentemente, fu colpita da una pallottola). A questo punto, Velis che scappava per i campi e Romano e Giudice a terra colpiti, Amato si lanciò col furgoncino nella discesa verso Randazzo, portando Rosano agonizzante e Canepa ferito. Alle prime case abbandonò il furgoncino, raccomandando alla gente di portare in ospedale i feriti. E così fu fatto: ma Rosano arrivò morto, e Canepa vi morì dissanguato. Pare che carabinieri e medici fossero convinti di avere tra le mani dei banditi. E che i carabinieri non si siano dati a preoccuparsi molto (o forse se ne preoccuparono anche troppo), lo dice il fatto che Romano, che era soltanto ferito, fu portato al cimitero di Giarre per essere seppellito: e soltanto la solerzia del becchino evitò la raccapricciante conseguenza.
Così, fortuitamente o deliberatamente, lo Stato italiano scese al primo compromesso con la destra indipendentista.»


- Leonardo Sciascia - “Quaderno”, su L'Ora di Palermo del 19 giugno 1965 -

venerdì 29 novembre 2013

il comune senso del pudore

socialismo Michea

Nel suo ultimo saggio, pubblicato nel mese di marzo di quest'anno, "Les mystères de la gauche" (I misteri della sinistra), con il sottotitolo "dall'illuminismo al trionfo del capitalismo assoluto”, Jean-Claude Michéa riprende la formula di Castoriadis secondo cui "è da molto tempo che il divario fra la destra e la sinistra, in Francia come altrove, non corrisponde più né ai grandi problemi del nostro tempo né a delle scelte politiche radicalmente opposte." Una valutazione assolutamente banale che però non sembra poi così condivisa a sinistra. Precisa l'autore, che il suo saggio trae origine da uno scambio epistolare con un militante del PCF/Front de gauche per il quale solo "la sempre più crescente indignazione della gente comune" (Orwell) nei confronti di una società sempre più amorale, ineguale ed alienante, può essere la cifra esclusiva della sinistra.
Ragion per cui, non sembra inutile a Michéa ricordare, fin dalle prime pagine - e sotto forma di invito a valutare la cosa -, che "né Marx né Engels si sono mai sognati, nemmeno una sola volta, di definirsi come uomini di sinistra"; aggiungendo inoltre che quando sono arrivati a fare uso di un tal genere di terminologia, per loro "la destra designa l'insieme dei partiti che rappresentano l'interesse (a volte contraddittorio) della vecchia aristocrazia terriera e della gerarchia cattolica. Mentre la sinistra , essa stessa molto divisa, costituisce il punto di incontro politico della classe media, della grande borghesia industriale e liberale - che di solito ha sposato i principi delle "libertà necessarie" di Adolphe Thiers - e fino alla piccola borghesia repubblicana e radicale.
Messa così, allora rimane da piazzare sulla scacchiera il movimento operaio socialista, in opposizione sia tanto alla "vecchia destra monarchica e clericale di un Joseph de Maistre", quanto alla "giovane sinistra liberale e repubblicana di un Benjamin Constant, di un Frédéric Bastiat o di uno John Stuart Mill".
Ed è proprio "nel contesto specifico dell'affare Dreyfus" che Michéa colloca l'inizio della dissoluzione della "specificità originale del socialismo operaio e popolare dentro quello che oramai viene chiamato il 'campo del progresso'", con una dinamica che la porterà a passare rapidamente sotto le bandiere della "filosofia dei lumi", creando in tal modo quella che può essere considerata "la genealogia rimossa della sinistra del XX secolo".
Quindi Michéa passa a rinfrescare la memoria del lettore di sinistra contemporaneo, ricordandogli che "le due più feroci e micidiali repressioni di classe che si sono abbattuti, nel corso del XX secolo, sul movimento operaio francese sono state operate, ogni volta, da un governo liberale e repubblicano (dunque di sinistra, nella prima accezione di questo termine):
1) le giornate del giugno 1848
2) con Thiers nel 1871, la Comune di Parigi

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L'autore de "L’empire du moindre mal" (L'impero del male minore) continua e insiste: "Si è così compiuta la maggiore operazione filosofica che ha permesso, in un tempo estremamente breve" la conversione della sinistra al liberalismo economico, politico e culturale e che affonda le sue radici in "questa metafisica del Progresso e del 'Senso della Storia' che ha definito, dopo il XVIII secolo, il nocciolo duro di tutte le concezioni borghesi del mondo".
Appoggiandosi a tal fine al socialismo cosiddetto scientifico (versione dogmatica e semplificata del marxismo originale) che si è caratterizzato per:
1) Un modo di produzione capitalista come costitutivo di una "tappa storicamente necessaria tra il modo di produzione feudale e la società comunista futura".
2) La convinzione che la grande industria "ha rappresentato il solo modello organizzativo della produzione - agricoltura compresa - capace di soddisfare le esigenze di una società comunista.
"Questa fede religiosa in un senso della storia e del progresso materiale illimitato" produrrà tre conseguenze:
1) La valutazione negativa delle tradizionali classi medie viste come reazionarie, perché cercano di "far girare al contrario la ruota della storia". E inoltre, "la celebrazione continua, da parte dei nuovi dirigenti dei partiti marxisti europei, del progresso tecnologico ad ogni costo non poteva che allontanare sempre più tali categorie sociali". E, "questa miope politica progressista ha spinto poco a poco queste classi medie tradizionali a rifugiarsi sotto l'ala protettrice della destra conservatrice dell'epoca (evidentemente, assai più lucida sulle ambiguità del progresso)".
2) L'abbandono delle analisi di Marx, in particolare quella per cui "la ricchezza delle società dove regna il modo di produzione capitalista si realizza come un'immensa accumulazione di merci" e dunque tale corollario si può riassumere nella formula di John Ruskin: "le merci non vengono fabbricate in funzione della loro utilità, ma solo al fine di essere vendute". Da cui le crisi ricorrenti dei mercati che hanno per conseguenza la trasformazione della società in società dei consumi ("perciò basata principalmente sul credito - in altre parole, sull'indebitamento strutturale del sistema)" E questo si tradurrà nella creazione senza sosta di nuovi pseudo bisogni e nel dogma della crescita perpetua.
3) La liquidazione dei fondamenti stessi del progetto socialista per sostituirgli gradualmente questa ideologia della libertà pure che rende tutti uguali, e che costituisce il marchio di fabbrica della filosofia liberale.

socialismo Pierre_Leroux

Il termine 'socialismo', introdotto da Pierre Leroux, intendeva opporsi all'ascesa di un individualismo generalizzato. Da qui, la propensione dei socialisti originari, argomenta Michèa, "a mantenere un'immagine del passato e delle civiltà anteriori molto meno negative, in generale, rispetto a quelle proposte dai liberali". Si può perfino arrivare a dire che "se questi pensatori si opponevano con tanta energia all'ideologia liberale, era soprattutto perché quest'ultima si fonda su una concezione della libertà individuale che conduce necessariamente, ai loro occhi, a dissolvere l'idea della vita comune".
Questo perché per un liberale (Benjamin Constant), "tutte le forme di appartenenza o d'identità che non sono state liberamente scelte da un soggetto, sono potenzialmente oppressive e discriminanti"; così anche la nozione di famiglia, di lingua materna o di paese d'origine.
Michéa vede, in questa rappresentazione fantasmatica (simbolizzata dall'uomo che si è fatto da solo e che non deve niente a nessuno) caratterizzata da "l'elogio liberale dell'individualismo assoluto", uno sdradicamento integrale, un'atomizzazione del mondo, che rappresenta le idee della "guerra di tutti contro tutti" e della "disintegrazione dell'umanità in monadi". Va sottolineato come la critica socialista di questa idea, a proposito di un'umanità ridotta in monadi, recupera in parte quella della destra tradizionale francese (ma non per gli stessi motivi).
Nel saggio, si arriva così alle tensioni contraddittorie del progetto socialista contemporaneo che vede, da una parte, una corrente erede dell'Illuminismo ("la più parte degli enciclopedisti approvarono con entusiasmo le nuove idee liberali, tanto sul piano politico quanto su quello economico") e della Rivoluzione francese, e, dall'altra, una critica radicale "di questo nuovo mondo liberale e industriale".
E se il socialismo originario, per usare la terminologia di Hayek, è "una reazione contro il liberalismo della Rivoluzione francese, si troverà ben presto invischiato nella definizione liberale della libertà, vista essenzialmente come "proprietà puramente privata inerente all'individuo isolato".
Ed è qui che interviene il concetto di "Common decency", ripreso da Orwell e caro a Michéa, per mezzo dell'evocazione di Mauss e della "logica dell'onore e del dono (base di ogni rapporto reale di fiducia, reciproca e di amicizia), logica che, una volta sviluppata in senso moderno (ossia, in modo da dare il suo giusto posto alla cura di sé ed al legittimo bisogno di solitudine e di intimità) definisce il principio ed il punto di partenza obbligato di ogni coscienza morale."

giovedì 28 novembre 2013

Velocità

auto ingorgo_stradale

L'ideologia sociale dell'automobile
di André Gorz

Il difetto fondamentale delle automobili è che esse sono come i castelli e le ville sulla costa: dei beni di lusso inventati per il piacere esclusivo di una minoranza molto ricca e che, per struttura e per natura, non erano affatto destinate al popolo. Al contrario dell'aspirapolvere, del televisore e della bicicletta, che mantengono tutto il loro valore d'uso anche quando tutti ne dispongono, l'auto, come la villa al mare, conserva il suo interesse ed il suo vantaggio solo nella misura in cui la massa non la possiede. Di fatto, per la sua concezione come per la sua destinazione originaria, l'auto è un bene di lusso. E il lusso, per natura, non si democratizza: se tutti raggiungono il lusso, nessuno ne trae più alcun vantaggio; al contrario: tutti imbrogliano, frodano e rubano, e sono a loro volta imbrogliati, frodati e derubati. La cosa viene comunemente ammessa, se si tratta di ville al mare. Nessun demagogo ha finora osato dire che democratizzare il diritto alle vacanze voglia dire applicare il principio di "una villa con spiaggia privata per ogni famiglia". Tutti possono capire che se ognuno dei tredici o quattordici milioni di famiglie dovesse disporre anche solo di 10 m di costa, ci vorrebbero 140.000 km di spiaggia per poter accontentare tutti. Attribuire ad ognuno la sua porzione, vorrebbe dire tagliare le spiagge in fette così piccole - o costruire le ville così vicine l'una all'altra - che il valore d'uso diverrebbe nullo, come diverrebbe nullo il loro vantaggio nei confronti di un complesso alberghiero. In breve, la democratizzazione dell'accesso alle spiagge non ammette che un'unica soluzione: quella collettivistica. E questa soluzione passa obbligatoriamente attraverso la guerra al lusso costituito dalle spiagge private (privilegio che una piccola minoranza si arroga a spese di tutti). Ora, perché ciò che è del tutto evidente per le spiagge, di solito non è ammesso per i mezzi di locomozione? Un'auto, proprio come una villa con spiaggia, non occupa forse uno spazio divenuto scarso? Non espropria gli altri utenti della viabilità (pedoni, ciclisti, coloro che prendono il tram o l'autobus)?
Non perde forse, l'auto, tutto il suo valore d'uso, quando ognuno usa la propria? E tuttavia non si contano più i demagoghi che affermano che ogni famiglia ha diritto almeno a un'auto e che è compito dello «Stato» che tutti possano posteggiare a proprio comodo, andare a proprio agio in città e partire, insieme a tutti gli altri, a 150 km all'ora, sulle strade del fine-settimana o delle vacanze. La mostruosità di tale demagogia salta agli occhi, e tuttavia la sinistra non disdegna di ricorrervi. Perché mai l'auto viene trattata come una "vacca sacra"? Perché, a differenza degli altri beni «privati», non è riconosciuta come un lusso antisociale? La risposta va cercata nei due seguenti aspetti dell'automobilismo.
1). L'automobilismo di massa materializza un trionfo assoluto dell'ideologia borghese a livello della prassi quotidiana: fonda e mantiene in ciascuno la credenza illusoria che ogni individuo può prevalere ed avvantaggiarsi a spese di tutti. L'egoismo aggressivo e crudele del guidatore che, ad ogni momento, assassina simbolicamente «gli altri», nei quali vede solo impedimenti materiali ed ostacoli alla propria velocità. Questo egoismo aggressivo e competitivo rappresenta l'avvento, grazie all'automobilismo quotidiano, di un comportamento universalmente borghese. «Non si farà mai del socialismo con questa gente», mi diceva un amico della Germania dell'Est, costernato dallo spettacolo della circolazione di Parigi.
2). L'automobile offre l'esempio contraddittorio di un oggetto di lusso svalutato dalla propria diffusione. Ma questa svalutazione pratica non ha ancora causato la sua svalutazione ideologica: il mito del piacere e dei vantaggi dell'auto persiste, quando i mezzi di locomozione collettivi, se venissero generalizzati, dimostrerebbero la loro superiorità schiacciante. Il persistere di questo mito si spiega facilmente: il generalizzarsi dell'automobilismo individuale ha emarginato i trasporti collettivi, modificato l'urbanistica e l'habitat, e trasferito sull'auto delle funzioni resesi necessarie a causa della sua diffusione. Ci vorrà una rivoluzione ideologica («culturale») per spezzare questo circolo. Non bisogna certo aspettarsela da parte della classe al potere (di destra o di sinistra che sia).

auto traffico

Ora analizzerò questi due punti più dettagliatamente. Quando è stata inventata, l'automobile doveva offrire a qualche borghese molto ricco un privilegio del tutto inedito: quello di andare molto più veloce di ogni altro. Nessuno ci aveva mai pensato: la velocità delle diligenze era proprio la stessa per i ricchi e per i poveri; il calesse del signore non andava più veloce del carro del contadino ed i treni portavano tutti alla stessa velocità (adotteranno velocità diverse solo in concorrenza con l’automobile e l'aeroplano). Non vi era dunque, fino alla svolta del secolo scorso, una velocità di spostamento per l'élite ed un'altra per il popolo. L'auto avrebbe mutato tutto: estendeva, per la prima volta, la differenza di classe alla velocità ed al mezzo di locomozione.
Questo mezzo di locomozione sembrò dapprima inaccessibile alla massa, tanto diverso era dai mezzi ordinari; non vi era niente di comune tra l'automobile e tutto il resto: il carro, il treno, la bicicletta o l'omnibus a cavalli. Esseri eccezionali se ne andavano a spasso su di un mezzo autotrainante, pesante una tonnellata ed i cui organi meccanici, estremamente complicati, erano tanto più misteriosi in quanto celati ad ogni sguardo. Vi era infatti anche questo aspetto che giocò pesantemente sul mito dell'automobile: per la prima volta gli uomini cavalcavano veicoli individuali, i cui meccanismi di funzionamento erano loro del tutto sconosciuti, la cui manutenzione e perfino l’alimentazione, dovevano venire affidate a degli specialisti.
Il paradosso dell'automobile: apparentemente questa offriva ai proprietari un'indipendenza illimitata, permetteva loro di spostarsi a ore, e secondo itinerari di loro scelta, ad una velocità pari o maggiore di quella del treno; ma in realtà tale autonomia apparente aveva come contropartita una radicale dipendenza. Al contrario del cavaliere, del carrettiere o del ciclista, l'automobilista sarebbe dipeso, per il proprio rifornimento di energia, come del resto per la riparazione del minimo guasto, dai commercianti e dagli specialisti della carburazione, della lubrificazione, della messa in moto e del ricambio di pezzi di serie. Al contrario di tutti i proprietari di mezzi di locomozione del passato, l'automobilista avrebbe avuto un rapporto di utente e di consumatore - e non già di possessore e di padrone - con il veicolo, di cui formalmente era il proprietario. In altre parole, questo stesso veicolo lo avrebbe costretto a consumare e ad utilizzare una mole di servizi commerciali e di prodotti industriali che solo terze persone avrebbero potuto fornirgli. L'autonomia apparente del proprietario di un'automobile celava la sua radicale dipendenza.
I magnati dei petrolio intuirono per primi il vantaggio che si sarebbe potuto trarre dal diffondersi dell'automobile: se la gente poteva essere spinta ad andare in macchina, si sarebbe potuto venderle l'energia necessaria per farlo. Per la prima volta nella storia, gli uomini sarebbero divenuti contribuenti, per la propria locomozione, di una fonte di energia commerciale. Ci sarebbero stati altrettanti clienti dell'industria petrolifera quanti erano gli automobilisti - e siccome ci sarebbero stati altrettanti automobilisti quante le famiglie, tutta quanta la gente sarebbe divenuta cliente dei petrolieri. Stava per realizzarsi la condizione sognata da ogni capitalista: tutti gli uomini sarebbero dipesi per i propri bisogni quotidiani da una merce, di cui una sola industria avrebbe avuto il monopolio.
Non ci restava che portare la gente a viaggiare in macchina. Il più delle volte questa non si faceva pregare: bastava, con la fabbricazione in serie e le catene di montaggio, abbassare sufficientemente il prezzo di un'auto e la gente si sarebbe precipitata a comprarla. E infatti si precipitarono davvero, senza rendersi conto di essere presi per il naso. Che cosa prometteva loro infatti l'industria automobilistica? Semplicemente questo: «Anche voi ormai avrete il privilegio di andare in macchina come i signori ed i borghesi, più velocemente di tutti. Nella società dell'automobile, il privilegio di un'élite è alla vostra portata». La gente si precipitò sulle auto fino a quando, arrivandovi anche gli operai, gli automobilisti si accorsero, frustrati, di essere stati bellamente raggirati. Era stato promesso loro un privilegio da borghesi; si erano indebitati per ottenerlo ed ecco che si accorgevano che tutti lo ottenevano nello stesso tempo. Ma che cosa è un privilegio, se tutti possono arrivarci? Un mercato di scemi. Peggio: è ognuno contro tutti. E la paralisi generale causa un alterco generale. Poiché quando tutti pretendono di marciare alla velocità privilegiata dei borghesi il risultato è che non marcia più niente, che la velocità di circolazione urbana crolla - a Boston come a Parigi, a Roma o a Londra - al di sotto di quella dell'omnibus a cavalli, e che la media su tutte le tangenziali a fine settimana scende al di sotto della velocità di un ciclista. Niente da fare: sono stati provati tutti i rimedi; finivano tutti, in ultima analisi, per aggravare il male.  Si moltiplichino pure le radiali e le circonvallazioni, le trasversali sopraelevate,  le strade a sedici corsie ed a pedaggio, il risultato è sempre lo stesso: più strade di servizio ci sono e più auto vi affluiscono e più è pesante la congestione della circolazione urbana. Fino a che ci saranno delle città, il problema non sarà risolto: per quanto larga e veloce possa essere una strada di svincolo, la velocità alla quale le auto la lasciano per entrare in città, non può essere maggiore di quella con cui queste si disperdono per la rete urbana. Fino a quando la velocità media, a Parigi, sarà da 10 a 20 km orari, secondo le ore, non si potranno lasciare a più di 10 o 20 km le circonvallazioni e le autostrade che alimentano la capitale. Bisognerà anzi abbassarle a velocità molto più ridotte quando gli accessi saranno saturi, e questo rallentamento si ripercuoterà a decine di km a monte se la strada di accesso sarà satura. Lo stesso dicasi per tutte le città. E’ impossibile circolare a più di 20 km orari di media nell'intreccio di strade, viali e corsi intersecantisi che, oggi, sono propri delle città. L'immissione di un qualsiasi veicolo più veloce disturba la circolazione urbana, provocando ingorghi ed infine la paralisi.
Se l'automobile deve prevalere, non c'è che una soluzione: sopprimere le città, vale a dire situarle su centinaia di km lungo strade monumentali e lungo periferie  autostradali. E’ ciò che è stato fatto negli Stati Uniti. Ivan Illich ne riassume il  risultato in queste cifre sbalorditive: «L'Americano medio dedica più di 1500 ore all'anno (cioè 30 ore settimanali o 4 ore giornaliere, domenica compresa ) alla sua macchina: questo comprende le ore che egli passa al volante, in marcia o fermo; le ore di lavoro necessarie per pagarla e per pagare la benzina, le gomme, i pedaggi, l'assicurazione, le contravvenzioni e le tasse... A questo Americano occorrono dunque 1500 ore per fare (in un anno) 10.000 km, al ritmo di 6 km all'ora. Nei paesi senza industria di trasporti, la gente si sposta a piedi esattamente a questa stessa velocità, con il vantaggio supplementare che può andare dove vuole e non solo lungo le strade asfaltate».
E’ vero, precisa Illich, che nei paesi non industrializzati gli spostamenti non assorbono che dal 3 all'8% del tempo sociale (ciò che in realtà corrisponde da 2 a 6 ore settimanali). Ecco la conclusione suggerita da Illich: l'uomo a piedi percorre in un'ora altrettanti km dell'uomo motorizzato, ma impiegando per questi spostamenti un tempo da 5 a 10 volte minore. Morale: più una società diffonde veicoli veloci e più - superato un certo limite - la gente ci passa, e ci perde, del tempo a spostarsi. E’ matematico.
La ragione? Ma l'abbiamo appena vista: si sono sparpagliati gli agglomerati lungo interminabili periferie autostradali, poiché questo era l'unico mezzo per evitare la congestione dei veicoli nei centri abitati. Ma questa soluzione ha un rovescio evidente: la gente può circolare a suo agio soltanto se è lontana da tutto. Per far posto all'auto si sono moltiplicate le distanze: si abita lontano dal luogo di lavoro, lontano dalla scuola, lontano dal supermercato - una situazione che renderà necessaria una seconda auto affinché la «casalinga» possa fare la spesa e portare i bambini a scuola. Distrazioni? Non se ne parla neppure. Amici? Ci sono i vicini... e ancora ancora. La macchina, tutto sommato, fa perdere più tempo di quanto non ne economizzi e crea maggiori distanze di quante non ne copra. Certo, potete andare al lavoro a 100 km all'ora; ma questo è perché abitate a 50 km ed accettate di perdere una mezz'ora per coprire gli ultimi 10 km. Bilancio: «La gente lavora una buona parte della giornata per pagare gli spostamenti necessari per recarsi al lavoro ». (Ivan Illich). 
Forse mi direte: « Almeno, in questo modo, una volta finita la giornata di lavoro, si sfugge all'inferno cittadino ». Ci siamo: ecco la confessione. «La città» è percepita come l'«inferno», non si pensa che ad evaderne o ad andare a vivere in provincia, quando, per generazioni e generazioni la grande città, oggetto di meraviglia, era il solo luogo dove valesse la pena di vivere. Perché questo rovesciamento? Per un'unica ragione: l'auto ha reso inabitabile la grande città. L'ha resa maleodorante, rumorosa, asfissiante, polverosa, ingorgata a tal punto che la gente non ha più voglia di uscire la sera. Allora, dal momento che le auto hanno ucciso la città, occorrono ancora più auto sempre più veloci per fuggire su autostrade verso periferie ancora più lontane. Circolo implacabile: dateci più auto per sfuggire alle catastrofi causate dalle auto. Da oggetto di lusso e da fonte di privilegio, l'auto è così divenuta oggetto di un bisogno esistenziale: ce ne vuole una per sfuggire all'inferno cittadino dell'auto. Per l'industria capitalistica la partita è dunque vinta: il superfluo è divenuto necessità. Inutile ormai tentare di persuadere la gente che desidera un'auto: la sua necessità è iscritta nelle cose. E’ vero che possono sorgere dei dubbi osservando l'evasione motorizzata lungo gli assi di fuga: tra le 8 e le 9,30 del mattino, tra le 5,30 e le 7 di sera per cinque o sei ore alla fine di settimana, i mezzi di evasione si allineano in processione, paraurti contro paraurti, alla velocità (nel migliore dei casi) di un ciclista, in un gran nuvolone di benzina al piombo. Che cosa rimane dei vantaggi dell'auto? Che cosa ne resta quando, come era inevitabile, la velocità di base sulle autostrade è limitata precisamente a quella che può raggiungere la più lenta vettura da turismo?

Auto_fabbrica

Giusta rivincita delle cose: dopo aver ucciso la città, l'auto uccide l'auto. Dopo aver promesso a tutti che si sarebbe andati più in fretta, l'industria automobilistica raggiunge il risultato rigorosamente prevedibile che tutti vanno più lentamente del più lento di tutti, ad una velocità determinata dalle semplici leggi della dinamica dei fluidi. Peggio ancora: inventata per permettere al proprietario di andarsene dovunque, all'ora e alla velocità desiderate, l'auto diventa il più schiavo, aleatorio, imprevedibile e scomodo di tutti quanti i veicoli: scegliete pure un'ora stramba per partire, non saprete mai quando gli intasamenti vi consentiranno di arrivare. Siete in balìa della strada (dell'autostrada) tanto inesorabilmente, quanto il treno delle rotaie. Non potete, proprio come chi viaggia in ferrovia, fermarvi improvvisamente e dovete, ancora proprio come in un treno, marciare ad una velocità stabilita da altri. Insomma, l'auto ha tutti gli svantaggi del treno - più alcuni altri che le sono specifici: vibrazione, dolori di posizione, pericoli di collisione, necessità di guidare - senza alcuni dei suoi vantaggi.  E tuttavia, mi direte, la gente non va in treno. Perbacco: e come potrebbe?
Avete già provato ad andare da Boston a New York in treno? 0 da Yvry a Tréport? 0 da Garches a Fontainbleau? 0 da Colombo all'Isola Adam? Avete provato, in estate, di sabato o di domenica? Ebbene, provateci, coraggio! Costaterete che il capitalismo  automobilistico ha previsto tutto: nel momento in cui l'auto stava per uccidere l'auto,  esso ha fatto sparire le soluzioni alternative, in modo da rendere l'auto obbligatoria.  Così lo Stato capitalistico ha lasciato che decadessero, poi ha soppresso le comunicazioni  ferroviarie tra le città, le loro periferie e la loro corona di zone verdi.
Hanno incontrato i suoi favori soltanto le comunicazioni interurbane a grande velocità, che contendono al trasporto aereo la clientela borghese. L'aerotreno che avrebbe potuto  mettere le coste delle Normandia e i laghi del Morvan alla portata dei parigini che vanno a far merenda la domenica, servirà a far guadagnare 15 minuti tra Parigi e Pontoise ed a  rovesciare ai suoi capolinea più viaggiatori saturi di velocità di quanti ne potranno ricevere i mezzi di trasporto urbano. Questo è progresso!
La verità è che nessuno può veramente scegliere: non si è liberi di avere un'auto o di non  averla, perché l'universo suburbano è organizzato in funzione di questa - ed anche, sempre  di più, l'universo urbano. Perciò la soluzione rivoluzionaria ideale, che consisterebbe nella soppressione dell'auto in favore della bicicletta, del tram, del bus e del taxi senza guidatore, non è più applicabile neppure nelle città autostradali come Los Angeles, Detroit, Houston, Trappes o anche Bruxelles, modellate per, e dall'automobile. Città scoppiate si estendono lungo strade vuote dove si allineano villette tutte eguali e dove il paesaggio (il deserto) urbano significa: «Queste strade sono fatte per andare più velocemente possibile dal luogo di lavoro al proprio domicilio e viceversa. Ci si passa, non ci si ferma. Ognuno, terminato il proprio lavoro, non deve fare altro che starsene a casa sua e tutti coloro che si troveranno per strada, caduta la notte, dovranno essere sospettati di meditare qualcosa di brutto». In alcune città americane, del resto, il fatto di girare a piedi la notte per le strade è considerato una colpa.
Allora la partita è perduta? No; ma l'alternativa all'auto non può essere che globale. Infatti, perché la gente possa rinunciare alla propria vettura non basta affatto offrirle dei mezzi di trasporto collettivi più comodi: bisogna che possa non farsi trasportare per niente, sentendosi a casa propria nel proprio quartiere, nel proprio comune, nella propria città a misura d'uomo e godendo nell'andare a piedi dal lavoro al domicilio - a piedi o tutt'al più in bicicletta. Nessun mezzo di trasporto rapido e d'evasione compenserà mai la disgrazia di abitare in una città inabitabile, di non essere a casa propria in nessun posto, di passarvi solo per lavorare o, al contrario, per isolarsi e dormire.
«Gli utenti - scrive Illich - spezzeranno le catene del dominio del trasporto quando ricominceranno ad amare come un territorio la propria isola pedonale, ed a temere di allontanarsene troppo spesso». Ma, appunto, per poter amare «il proprio territorio», bisognerà che prima questo sia reso abitabile e non circolabile: che il quartiere o il comune torni ad essere il microcosmo modellato da e per tutte le attività umane, dove la gente lavori, abiti, si rilassi, si istruisca, comunichi, si dia da fare e gestisca in comune l'ambiente della propria vita in comune.
A chi gli chiedeva una volta che cosa avrebbe fatto la gente del proprio tempo dopo la rivoluzione, quando lo spreco capitalistico sarebbe stato abolito, Marcuse rispose: «Distruggeremo le grandi città e ne costruiremo di nuove. Questo ci terrà occupati per un po'». Si può pensare che queste città nuove saranno delle federazioni di comuni (o di quartiere), circondate da zone verdi dove i cittadini - e specialmente gli «scolari» - passeranno molte ore settimanali a far crescere i prodotti freschi necessari alla loro sussistenza. Per i loro spostamenti giornalieri essi disporranno di una serie completa di mezzi di trasporto adatti ad una città media: biciclette municipali, tram o filobus, taxi elettrici senza guidatore. Per gli spostamenti più grossi in campagna, come pure per il trasporto degli ospiti, un «pool» di automobili comunali sarà messo a disposizione nei garage del quartiere. L'auto avrà smesso di essere un bisogno. E tutto sarà mutato: il mondo, la vita, la gente. E ciò non sarà accaduto per caso.
Frattanto, che fare per arrivare a questo? Anzitutto, non porre mai il problema dei trasporti isolatamente; collegarlo sempre al problema della città, della divisione  sociale del lavoro e della parcellizzazione che questa ha introdotto tra le differenti dimensioni dell'esistenza: un posto per lavorare, un altro posto per « abitare », un terzo per approvvigionarsi, un quarto per istruirsi, un quinto per divertirsi. Lo spezzettamento dello spazio perpetua la disintegrazione dell'uomo iniziata con la divisione del lavoro in fabbrica. Esso taglia l'individuo a fette, taglia il suo tempo, la sua vita in pezzi ben divisi, affinché in ognuno di questi pezzi voi siate dei consumatori passivi in completa balia dei commercianti, affinché non vi venga mai in mente che lavoro, cultura, comunicazione, piacere, soddisfazione dei bisogni e vita personale possono e debbono essere un'unica e medesima cosa: l'unità di una vita sorretta dal tessuto sociale del comune.

André Gorz - (« Le Sauvage », settembre-ottobre 1973)

mercoledì 27 novembre 2013

quasi

misericordia

Due scene simili di quasi-morte: Dostoevskij davanti al plotone di esecuzione, il 1849, e Maurice Blanchot catturato dai nazisti e salvato all'ultimo momento da un'esplosione (che nel 1994 "finzionalizza" ne "l'istante della mia morte" – che può essere letto qui, comprensivo del commento di Derrida). Un filo sotterraneo sembra legare il regime repressivo di Nicola I con l'occupazione nazista della Francia; un filo che passa per il "18 Brumaio" di Marx e per l'Educazione Sentimentale di Flaubert, entrambi collocati nella Parigi del 1848. A ben guardare, tanto la rivolta di Dostoevskij quanto la repressione da parte dello zar Nicola sono in parte motivati dagli eventi della rivoluzione francese.
La scena della quasi morte di  Dostoevskij  prefigura in qualche modo la nascita di quella che sarà la biopolitica di Foucault - l'intensificazione e la prevalenza del “mettere a vita” sul "mettere a morte", ossia, la manutenzione e la coercizione piuttosto che l'eliminazione. Non tanto la decisione fra un estremo e l'altro - la sentenza definitiva, che sia "condannato" o "assolto" - ma uno spazio indeterminato di dubbio, quello stesso spazio che contiene Dostoevskji vivo e morto allo stesso tempo, come in sospeso, come il gatto di Schrödinger. Ed è proprio in tale spazio che il potere del sovrano si erge trionfante, e continua a riverberare anche dopo, dopo il perdono, dopo la misericordia. E questo atto di perdono, di misericordia, bisogna portarlo, come un fardello, per tutto il resto della vita del sopravvissuto.
La nozione di misericordia rimane strettamente correlata a quella di sovranità, solo il titolare del potere sovrano può concedere la misericordia.
Il regime pre-biopolitico, cui potrebbe corrispondere quella che viene definita "rigorosa giustizia ebraica", passa al regime biopolitco, quello della "misericordia cristiana", e il passaggio avviene nella zona grigia in cui si svolge la scena del perdono di Dostoevskji; la misericordia dello zar Nicola, la generosità che cela un carico immenso di colpa e di debito. Ed è su questo percorso che si innesta una sovrapposizione critica dell'aspetto religioso con l'aspetto politico (rivoluzionario) della narrativa di Dostoevskji e quella di coloro che a tutti gli effetti possono essere considerati i suoi discepoli, come Coetzee, che incrocia religione e politica in libri come "Il maestro di Pietroburgo", o come Aleksandar Hemon, che ne "Il Progetto Lazzaro" assume, e fa proprio, quel nesso fra destino (soggettività) e rivoluzione (Storia) che in un circolo di sovrapposizioni temporali riesce a mettere in contatto gli anarchici della Chicago del 1908 con la guerra di Bosnia del 1992.

martedì 26 novembre 2013

risentimento

celine Anselmm_Jappe

Da Céline al Videoclip
di Anselm Jappe

All'inizio dell'anno ho pubblicato in Francia una raccolta di saggi dal titolo Crédit à mort (1), incentrati specialmente sulla crisi finanziaria e sulle sue ripercussioni sociali. Il titolo è un ovvio utilizzo del metodo del "detournement" sul titolo del secondo romanzo di Louis-Ferdinand Céline (Morte a credito. NdR). Non c'era, comunque, un riferimento diretto al testo di Céline; il titolo del mio libro era soltanto un gioco di parole tra “morte” e “credito”. Ciò nonostante, in seguito ho realizzato quanto fosse realmente appropriato il riferimento a Céline, e che avevo fatto una buona scelta senza esserne inizialmente consapevole. Il mio libro è per sommi capi una denuncia delle false forme di critica sociale che sono emerse a causa della crisi della società capitalista. Nel libro ho denunciato soprattutto la polemica unilaterale contro la finanza, le banche e la speculazione, non considerate come l'aspetto visibile di una crisi più profonda — la crisi dell'accumulazione del capitale — ma come la causa stessa della devastante crisi dello stile di vita capitalista. Questa polemica contro la speculazione, che si trova sia nella sinistra che nella destra, attribuisce tutti i mali del mondo, non ad una struttura sociale, ma ad un gruppo ristretto di persone motivate dall'avidità e dal desiderio di potere. Gli operai e gli onesti investitori devono essere difesi dai parassiti della finanza: questo appello sembra aver generato un consenso che arriva fino a Barack Obama, George Soros e Mario Draghi.
Tale posizione è di gran lunga lontana dalla comprensione della connessione tra lavoro astratto e valore, tra merce e denaro, tra capitale e salario, che rappresenta la peculiarità del capitalismo ed è la causa degli sconvolgimenti attuali. Inoltre, risponde al bisogno ampiamente sentito di trovare qualcuno da incolpare, la cui scomparsa risolverebbe tutto, senza necessità di cambiare nient'altro nel resto della società. Tale visione del mondo esiste, con un certo numero di variazioni, da più di un secolo, ma ha assunto da sempre la forma di un certo tipo di populismo. E il populismo ha la caratteristica di essere presente sia nella destra che nella sinistra, talvolta con le stesse identiche argomentazioni. Proprio adesso sta vivendo una forte rinascita. Il populismo sostituisce quei sentimenti che portano alla critica, specialmente un sentimento che ha un potere incommensurabile: il risentimento. Non è un caso che uno dei pensatori più popolari del nostro tempo, Slavoj Zizek, abbia di recente riabilitato il valore politico del “risentimento”(2).

celine1

Non è necessario richiamare l'attenzione sul fatto che Céline, anche disdegnando qualsiasi orientamento politico, fosse un bardo del risentimento, un risentimento di altissimo livello, diretto contro tutto e tutti, un risentimento su scala cosmica. Questa è stata la sua forza terribile: esprimere, senza mediazioni, in maniera nuda e cruda, i sentimenti che la vita nella moderna società borghese e capitalista può effettivamente suscitare. Da questo punto di vista, Céline è insuperato. Rappresenta una tentazione reale. La prima volta che leggi Viaggio al termine della notte, quando sei giovane, può essere tanto sconvolgente quanto la prima lettura di Nietzsche, o quanto la prima volta che vedi "Il grido" di Munch. E in ciascuno di questi casi è necessario avvalersi di un successivo distanziamento al fine di poter distinguere quanta verità tali esempi contengano al di là del loro semplice effetto scioccante.
Naturalmente, in quel segmento di critica populista alla finanza che utilizza un linguaggio di “sinistra”, non ci sono molti riferimenti diretti a Céline (3), specialmente non alle sue “idee” politiche. Ma era un tratto caratteristico del populismo di Céline quello di oscillare — almeno in apparenza — tra sinistra e destra. È risaputo molto bene che il "Viaggio" fu accolto da una larga parte della stampa di sinistra come una denuncia del capitalismo; Leon Trotsky stesso dedicò un articolo di base positivo (altrimenti piuttosto perspicace) al libro. Ovviamente questi ammiratori della prima ora, si sarebbero alquanto disillusi con la svolta a destra presa da Céline solo pochi anni dopo. Tutti sanno che l'opposizione rabbiosa tra un ego santificato e un mondo completamente “cattivo” può essere attraente sia per la destra che per la sinistra. Come si rivelò poi, l'apertura di Céline alla “sinistra” fu soltanto un impulso temporaneo e del tutto opportunista: già in vari articoli pubblicati su riviste scientifiche nel 1928, infatti, andava proponendo una pratica medica al servizio di una rigida disciplina di fabbrica, che facesse lavorare persino i malati, in quanto gli interessi dei datori di lavoro erano più importanti degli interessi del “popolo” (4). Céline non fu mai un anarchico né un comunista e, come dice Michel Bounan, “il problema non è capire come un ‘libertario’ possa essersi mischiato ai nazisti, ma perché uno come lui possa aver pensato che fosse una buona idea farsi passare per un ‘libertario’”.
Comunque, provare soltanto che Céline fosse sempre stato politicamente di destra  non è il punto vero e proprio. È chiaro che non era in alcun modo un “anarchico di destra”, o uno che si fosse “ nobilmente” smarrito. Il suo caso non sembra essere paragonabile a quelli di Martin Heidegger, Ernst Jünger, Carl Schmitt o Gottfried Benn, Drieu La Rochelle o Charles Maurras. Non si può distinguere in lui nemmeno un briciolo di ragioni argomentate, anche se incomprese, ma solo un gusto ineguagliato per il  sordido. Ecco perché il Céline che fu autore di pamphlet e collaborazionista (che denunciò ai tedeschi, con nomi e cognomi quegli “ebrei” che, secondo lui, dovevano essere arrestati) provoca un disgusto e una ripugnanza che rende minimo l'odio provocato dagli altri intellettuali del tempo che pure supportarono il totalitarismo.

celine junger

Possiamo qui notare la differenza tra scrittori e filosofi e le loro diverse responsabilità. Nonostante il tentativo fatto per decenni di interrogarsi su questa distinzione nel nome di un certo “pensiero poetico”, criticando l’esigenza del rigore concettuale nel nome di supposte verità considerate più profonde in letteratura, non sembra essere del tutto inutile mantenere questa distinzione basilare: la filosofia non può esimersi da una struttura logica e argomentativa. Il filosofo è più responsabile di qualsiasi sua affermazione, in quanto essa deve essere il risultato di una precedente catena di argomentazioni. Lo scrittore, d'altro canto, può semplicemente dire ciò che vede e prova riguardo qualsiasi cosa gli venga in mente, senza per questo essere obbligato a difendere ciò che ogni volta dice. Ha più di un diritto di contraddirsi. Naturalmente, ci sono autori (come Nietzsche) che appartengono a entrambe le categorie, ma in una tale forma di miscuglio che non va ad intaccare le differenze rispetto ai principi che esistono fra di loro. Comunque, non si può fare ricorso a questo diritto e al grado di relativa irresponsabilità dello scrittore nel caso di Céline, come hanno fatto i suoi numerosi difensori. I suoi pamphlet antisemiti non furono un'aberrazione temporanea, ma il punto culminante di un odio che non fu solo il prodotto di una patologia personale, ma l'espressione concentrata di un fenomeno sociale.
Ernst Jünger, che per parte sua fece uno sforzo per distanziarsi dal nazismo, incontrò Céline nel 1941, al tempo in cui Jünger era un ufficiale tedesco nella Parigi occupata. In un passaggio impressionante del suo diario, Jünger esprime il suo shock ed orrore verso Céline che accusava gli invasori tedeschi di essere troppo “moderati” e li incoraggiava a fare ricerche casa per casa a Parigi per scovare ebrei e comunisti. Secondo Jünger, per una persona come quella, la scienza stessa (in questo caso, il razzismo biologico, che pretendeva di essere scientifico) serviva solo come arma per uccidere più gente possibile. In verità, le idee che professava non importano: esse sono intercambiabili ed il loro unico scopo era quello di permettergli di arrampicarsi su una torre dalla quale avrebbe potuto seminare il terrore sparando sulla folla (5).
Indubbiamente Jünger afferrò un aspetto centrale in Céline e nella mentalità che Céline rappresentava. Persino il suo antisemitismo — che per Céline, in ogni caso, non si limitò al periodo dei pamphlet, ma si rivelò fin dall'inizio della sua carriera letteraria e anche il suo carteggio prova che non fu mai soltanto una posa, ma un'ossessione reale e autentica — sembrò essere la conseguenza di un più profondo impulso ad annichilire ciò che al tempo stesso si odia e si desidera. Da questa prospettiva, Céline sarebbe stato capace di porsi anche al servizio di una campagna stalinista contro la “borghesia” o contro i “trotskisti”. La sua scelta dell'antisemitismo come sfogo per il suo risentimento, comunque, non fu accidentale; la forza omicida del moderno antisemitismo deriva anche dal fatto che si adatta meglio di qualsiasi altra ideologia ad esprimere questo rancore contro il mondo intero così diffuso nell'era moderna. Piuttosto che essere simpatizzante a livello politico coi nazisti — Céline si vantò di averne disprezzato tutte le “idee” — Céline si ritrovò ad essere loro simpatizzante ad un livello psicologico (6) e a condividere con loro lo stesso “impulso di morte” e lo stesso desiderio di purgare la terra dagli “impuri”. Affermare che il caso di Céline non esprima un'ideologia politica nel senso stretto del termine, ma un certo approccio al mondo, una certa costituzione psicosociale, una certa “mentalità”, non è in alcun modo un tentativo di ridurre il suo caso ad una questione di “carattere” personale o ad una patologia individuale. Ciò che è interessante di Céline è la sua incontestabile abilità — lo si potrebbe vedere come una specie di merito — ad esprimere potentemente il diffuso odio per il mondo che non risulta accessibile alla coscienza critica e che sussiste a livello di confuse lamentele e lagnanze. Non ci sono dubbi che, paragonata alla compiaciuta mediocrità e alla convinzione che viviamo nel migliore dei mondi possibili, il sentimento di disgusto viscerale e di ribellione sembra molto più giustificato e costituisce il punto di partenza per  qualsiasi prospettiva critica del mondo. Ma troppo spesso nel corso della storia del XX secolo si è pensato che tutte le forme di scontento potessero evolversi in azione rivoluzionaria: dal leader della democrazia sociale tedesca, August Bebel, che alla fine del XIX secolo volle percepire il nascente antisemitismo popolare come  “il socialismo degli imbecilli”, ad una parte del movimento “altermondialista”, che crede si possa sviluppare una comune battaglia tra studenti inglesi e kamikaze palestinesi, o tra minatori boliviani e tifosi di calcio.

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Da questa prospettiva, Céline può sempre contare sui molti ammiratori nella sinistra. Trotskij aveva, comunque, già osservato che Céline non era un rivoluzionario (o che fosse rivoluzionario solo come scrittore), ma che era invece “scontento degli uomini e delle loro azioni”. Se Céline è un rivoluzionario, lo è allo stesso modo di quanto lo siano le rivolte nei slum delle periferie parigine o quanto lo sia stata la rivolta di Reggio Calabria nel 1970. Senza entrare nei dettagli della psicologia del risentimento, è necessario nondimeno richiamare il fatto che in essa le offese (reali o immaginarie) subite sono sentite sempre e soltanto come insulti alla propria persona; l'io vede sé stesso come la vittima del “mondo” o degli “altri” presi in blocco. L'invidia e il desiderio di vendetta ne sono il presupposto e la conseguenza. Il risentimento è pertanto strettamente connesso alla personalità narcisista che, nel profondo, riconosce sé stessa soltanto e nega l'esistenza indipendente del mondo esterno. In realtà, i documenti dimostrano che Céline, lontano dall'essere stato eternamente alla mercé degli eventi come il suo eroe Bardamu, inseguì tenacemente fama e ricchezza e odiò tutti quelli che non gli procurarono la soddisfazione narcisista che si aspettava: ecco perché girò le spalle alla sinistra dopo il fallimento del Viaggio a Goncourt nel 1933, e nel 1936 scrisse la sua denuncia dell'Unione Sovietica, Mea Culpa, dopo il ritorno da un viaggio in quel paese, dove era stata appena pubblicata una traduzione in russo del Viaggio e dove si sentì offeso perché fu accolto con meno fanfara rispetto ad André Gide.
Naturalmente, oggi, quasi nessuno difende il Céline autore del pamphlet o il Céline collaborazionista. Ma questo non presuppone la distinzione tra il grande e raffinato scrittore, da una parte, e le sue deplorevoli variazioni quando si è avventurato su un terreno per il quale non era portato, e di cui non capiva nulla, dall'altra? Nei confronti di un tale grande scrittore, uno dei più grandi scrittori francesi del XX secolo e, forse — secondo alcune voci “autorevoli” — il “più grande” scrittore francese del XX secolo, queste critiche non sono in qualche modo meschine? Dobbiamo abbandonare lo scrittore raffinato che ha fatto sì che la letteratura francese si dividesse in una letteratura pre e post-Céline? Non è sufficiente coprire i suoi gesti vergognosi con un velo di compassione dopo averli condannati?  Tale posizione incontra oggi un consenso ampiamente sostenuto. Ovviamente, è difficile definire cosa sia un “grande scrittore”, ma la maggioranza del mondo letterario francese sembra essere convinto che Proust e Céline siano gli esempi supremi dei “grandi scrittori” del XX secolo (e sappiamo che sono quelli che tengono vive le edizioni della Bibliothèque de la Pléiade, in quanto sono ai primi posti delle classifiche di vendita). Non è questo un modo per porre fine a qualsiasi ulteriore controversia? Non parleremo dell'indecenza del parlare di “persecuzione” o “censura” nel caso di una persona che, in maniera per nulla metaforica, ha invocato un pogrom in termini che non furono del tutto diversi dalla più volgare propaganda nazista. Dobbiamo chiederci, invece, se esiste una stretta connessione tra la sua scrittura e le posizioni che ha sposato.

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Durante il processo a Céline per collaborazionismo coi nazisti, che ebbe luogo a Parigi nel 1950 mentre lui era ancora in Danimarca, la rivista anarchica Le Libértaire realizzò un'inchiesta tra gli intellettuali con propensioni libertarie per scoprire cosa ne pensassero del processo (7). Mentre la maggioranza supportava lo scrittore contro la “repressione” esercitata dallo stato, ed era anche d'accordo in quasi tutti i casi sul valore letterario dell'opera di Céline e, più in generale, del valore del suo ruolo come autore di pubblicazioni anticapitaliste, i surrealisti André Breton e Benjamin Péret espressero la loro bassa considerazione non solo per l'uomo, ma anche per le sue opere. Breton confessò di non esser mai andato al di là di un terzo nella lettura del Viaggio e che era incapace di separare l'“indole” di uno scrittore dalle sue opere. Forse da quel momento fu in grado di comprendere più chiaramente ciò che Kaminski stesso o Victor Serge non furono capaci di comprendere del tutto prima della guerra(8) e che ancora nel 1938 — in occasione della pubblicazione di "Bagattelle per un massacro" — esprimevano la loro disillusione per ciò che essi avevano interpretato come un abbandono, da parte di qualcuno che solo pochi anni prima consideravano essere un compagno, o almeno un autore che aveva fedelmente descritto le tribolazioni dell'uomo comune in un mondo di oppressori.
La distinzione di cui parla Roland Barthes tra scriventi e scrittori, o la distinzione fatta da Luigi Pirandello(9) tra scrittori de “lo stile delle cose” e scrittori de “lo stile delle parole”, non può essere applicata a Céline. Céline sembra essere lo “scrivente” par excellence, uno “scrittore di parole”, ma in lui il linguaggio stesso diviene contenuto; molto più che in Joyce, per esempio. La sua destrutturazione del linguaggio è essa stessa un programma politico. Non stiamo parlando solamente del contenuto esplicito dell'opera di Céline. È stato osservato, molto più raramente, fino a che livello il suo stile, così spesso elogiato, si  ritrova ad essere, almeno dopo il Viaggio, consono alle sue chimere ideologiche. Céline ha ripreso i metodi delle avanguardie del dopoguerra, dei dadaisti e di Joyce, ma per un progetto del tutto differente: per precludere la possibilità di qualsiasi giudizio, per sedurre e violare il lettore, per rimpiazzare la distanza dal lettore e la sua possibilità di controllo — elementi che hanno caratterizzato il romanzo del XIX secolo — con ciò che Céline definì la sua “petite musique”: una melodia infinita che incanta e si insinua, martella e manipola. L'ellissi - il marchio di fabbrica dei suoi romanzi successivi - e l'assenza di una vera sintassi producono un flusso ininterrotto che non permette al lettore di fermarsi un attimo, e di riflettere su cosa sta leggendo. Céline non propone l'elaborazione di idee, nemmeno in forma letteraria, ma si propone di suscitare emozioni. E questa si chiama propaganda: non riguarda il convincimento, bensì il potere di suggestione. Hitler ne fa un riferimento esplicito in Mein Kampf. E per i nazisti, come per Céline, la ragione — che spesso porta al dubbio — è “ebrea”, mentre l'ariano si fa guidare dalle “emozioni”(10). Da questa prospettiva, i romanzi del dopoguerra di Céline (la cosiddetta “trilogia del nord”) giocano un ruolo storico transitorio di tutto interesse: nonostante la successione infinita di frammenti - quasi sprovvisti di significato se li si prende isolatamente - che intendono stimolare impulsi immediati e che ricordano le tecniche di Goebbels, essi prefigurano anche una tecnica totalitaria che avrebbe fatto la sua comparsa solo poche decine di anni dopo: il videoclip. Si potrebbe dire che la scrittura di Céline sia una sorta di rap letterario, che non fa mai una pausa per prendere fiato, e in cui a causa di questo slancio ci facciamo trascinare senza chiederci cosa ci prende e cosa significa, mentre le parole ci colpiscono sotto la cintura.
Non c'è dibattito: credi, obbedisci, combatti.

Anselm Jappe

Note:
 1. Anselm Jappe, Crédit à mort. La décomposition du capitalisme et ses ennemis, Edizioni Lignes, Parigi, 2011.
 2. Slavoj Zizek, “La colère, le ressentiment et l’acte”, in Penser à gauche. Figures de la pensée critique aujourd’hui, Edizioni Amsterdam,
Parigi, 2011.
3. In questo momento preciso si stanno svolgendo proteste davanti a Wall Street, che fu descritta da Céline nel Viaggio come la chiesa di una strana religione. Vedi Louis-Ferdinand Céline, Viaggio al Termine della Notte, p. 192.
4. Vedi Michel Bounan, L’Art de Céline et son temps, Editions Allia, Parigi, 1997, che cita le fonti.
5. Ernst Jünger, Strahlungen I (1949), Klett-Cotta-Verlag, Stuttgart, 1979, p. 320. Dopo la guerra, Céline provò a citare in giudizio Jünger  per queste affermazioni.
6. Notato precocemente dall'esule tedesco H. E. Kaminski nel suo saggio, Céline en chemise brune (1938), di recente ristampato per Editions Mille et une nuits, Parigi, 1999.
7. L'articolo che ne risultò è stato ristampato di recente nella rivista A Contretemps (Parigi), no. 40 (2011).
8. Victor Serge, “Pogrom en quatre cents pages” (1938), in Victor Serge, Retour à l’Ouest. Chroniques (juin 1936-mai 1940), Agone, Marsiglia, 2011.
9. “Discorso alla Reale Accademia d’Italia” (su Giovanni Verga) (1931), in Luigi Pirandello, Saggi, Poesie, Scritti varii, edito da Manlio Lo Vecchio-Musti, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1960, pp. 391-393.
10. Vedi Kaminski, op. cit.
 
 
Fonte: Ozio Produttivo

lunedì 25 novembre 2013

«Noi non votiamo, noi facciamo saltare le cose!»

mattick_aventure

Paul Mattick, militante e teorico marxista, non ha mai scritto un'autobiografia, ma questo libro, appena pubblicato in Francia, si basa su una lunga intervista rilasciata nel 1976 e serve allo scopo, colmando quella che sarebbe stata una grave lacuna storica. Un racconto molto vivido che parla, prima, della sua giovinezza nella Germania della Grande Guerra e della rivoluzione, e poi delle sue esperienze militanti in quel paese e negli Stati Uniti. La forma orale viene ben restituita, ed il libro è corredato da numerosi documenti fotografici.
Mattick, figlio di un operaio sindacalista e comunista, fin da giovanissimo entra in contatto col movimento operaio. Racconta, a proposito della sua infanzia, le punizioni corporali subite a scuola, e le loro conseguenze: "la paura ci impediva di pensare e di apprendere". Parla anche delle devastazioni causate dall'alcol, riferendosi espressamente al padre. A proposito della prima guerra mondiale, descrive gli effetti del blocco militare sulla Germania: i bambini, fra quali egli stesso, erano costretti a rubare il cibo, per poter mangiare, e molti di loro alla fine morivano a causa della denutrizione e delle loro condizioni di vita, " Dopo il 1917 ed il 1918, ci sono vere e proprie epidemie di tubercolosi. Nel nostro stabile, più della metà dei bambini che ci vivevano ne sono morti."
Da adolescente, viene assunto come apprendista alle officine Siemens e milita nella Freie Sozialistische Jugend a Charlottenburg, una città confinante con Berlino che in futuro sarebbe stata da questa integrata. E' a partire dal novembre del 1918 che partecipa alla rivoluzione tedesca e si ritrova ad essere eletto come rappresentante degli apprendisti in un consiglio operaio. In seguito farà dei piccoli lavoretti qua e là, senza mai smettere la sua attività militante, e sfuggendo per un soffio alla morte durante il putsch di Kapp, nel 1920. Nel corso dell'ondata di scioperi che si verificherà negli anni seguenti, viene arrestato e detenuto per breve tempo. Mattick, a partire dal 1920 milita nel KAPD (Partito Comunista Operai di Germania), scissione di ultra-sinistra del Partito Comunista.
Il racconto non si sofferma in modo dettagliato su quest'organizzazione, che nel giro di pochi anni verrà decapita, riducendo i suoi aderenti a qualche centinaio - da decine di migliaia che erano. La descrizione di questo periodo, nelle parole di Mattick, si sofferma a raccontare come il riflusso rivoluzionario, fra le altre cose, possa portare i militanti verso la criminalità.
Nel 1926, Mattick parte per gli Stati Uniti, dove troverà lavoro, prima come meccanico, poi come attrezzista. Arrivato in Michigan, va a vivere a Chicago, dove aderisce agli IWW (Industrial Workers of the World) e si avvicina al Proletarian Party of America. In seguito, parteciperà alla scissione di questo partito, e si unirà a quello che prenderà dapprima il nome di United Workers Party, e poi Groups of Council Communists. Nel corso della seconda metà degli anni '30, col riflusso delle lotte sociali, questo gruppo sparirà.
Ma per Mattick quello che rimane essenziale è la lotta sociale diretta. In seguito alla crisi del 1929, "si cominciano a costituire assemblee di disoccupati, per lo più spontaneamente". Partecipa a questi movimenti di disoccupati, che cominciano ad occupare dei locali rimasti vuoti in seguito alla crisi e ad utilizzarli come luoghi di riunione e di solidarietà pratica. I disoccupati organizzati danno anche sostegno attivo ai lavoratori in sciopero, tenendo assemblee e partecipando ai picchetti. Allo stesso tempo, lottano contro gli sfratti degli inquilini morosi. Mattick, di tutto questo continua ad esserne entusiasta, nel 1976, al tempo dell'intervista, e dice che quello fu "un periodo meraviglioso, un periodo che ancora oggi mi appare in sogno".
E' alla fine di quel periodo, nel 1934, che Mattick, con i suoi compagni, fonda la rivista Internacional Council Corrispondence, che si pone in linea con gli altri Comunisti dei Consigli in tutto il mondo. A questa rivista seguirà, a partire dal 1938, Living Marxism, che nel 1942 cambierà la testata in New Essays. Nella sua difesa di un "marxismo vivente", per Mattick si tratta di "opporsi alla teoria bolscevica, al capitalismo di Stato". In effetti, queste riviste si iscrivono in una corrente marxista che non solo è anti-staliniana, ma anche anti-leninista, e che considera l'Unione Sovietica come l'esempio, fin dall'inizio, di una dittatura capitalista di Stato.
Il racconto di Mattick si interrompe al momento in cui la sua esistenza diventa un po' meno agitata, seppure ancora dedicata alla lotta contro l'oppressione capitalista; tanto che, quando ormai prossimo alla fine della sua vita, ad un giornalista televisivo che un giorno a Boston lo vuole intervistare, e gli domanda per chi avesse votato, risponde: «Noi non votiamo, noi facciamo saltare le cose!»

Paul Mattick, La Révolution fut une belle aventure. Des rues de Berlin en révolte aux mouvements radicaux américains (1918-1934), L’échappée, 2013, 191 pages, 17 euros. Préface de Gary Roth, postface de Laure Batier et Charles Reeve.

fonte: La Bataille socialiste

domenica 24 novembre 2013

Lavorare stanca!

ozio

Lo scrittore Robert Louis Stevenson propone un Elogio dell'ozio (si può leggere e/o scaricare da qui) che si iscrive in una critica radicale del lavoro e dello sfruttamento capitalista. L'opuscolo, pubblicato per la prima volta sul Conrhill Magazine nel 1877, descrive il contesto dello sviluppo industriale dell'Inghilterra, con il suo lavoro in fabbrica e con la sua miseria sociale. La critica, del tutto pertinente ed attuale, denuncia una società di specialisti nella quale ciascuno rimane confinato nella sua piccola attività separata. Il rifiuto del lavoro provoca l'emarginazione di coloro che non vogliono sottomettersi alle regole.
Il romanziere, altresì, sviluppa una critica della scuola: la sottomissione alla disciplina scolastica lascia assai poco tempo per pensare, con le sue ore monotone perse a sonnecchiare in classe. La scuola della strada e della vita permette invece una scoperta sensuale del mondo, contro ogni scienza ufficiale, fredda e noiosa. La scuola serve soprattutto per imparare la disciplina, quando invece l'ozio permette di sviluppare immaginazione e creatività. E' l'arte di vivere, la materia di studio più appassionante e indispensabile.
Per Stevenson, è il diritto ad essere inattivi che contrassegna la coscienza della propria identità, mentre, al contrario, il lavoro consiste nel rinchiudersi nella routine e nella noia. Coloro che lavorano sono passivi e vuoti, non sono curiosi di niente, non si lasciano mai prendere da quello che il caso mette sul loro cammino e non traggono alcun piacere dall'esercitare gratuitamente le loro facoltà. Hanno un rapporto distaccato, comatoso, con la loro stessa propria esistenza, preoccupati solo degli affari e del rispetto della professionalità.

sabato 23 novembre 2013

irreversibile

campagne

La crisi finale del capitalismo
di Armel Campagne

Il capitalismo non è l'eterno ritorno dello stesso, bensì un processo storico dinamico, spiega Robert Kurz, in "Vies et mort du capitalisme". Il capitalismo, come accumulazione del capitale, come "processo di valorizzazione" o "valore che si valorizza", sbatte oggi contro il suo limite interno. Vale a dire che l'accumulazione del capitale si fonda sull'utilizzo della forza lavoro astratta intesa come "spendimento di materia cerebrale, di muscoli, di nervi", in una totale indifferenza di quello che è il suo contenuto (che si tagli legna o ci si prostituisca o si fabbrichi automobili, quello che interessa tanto lo sfruttatore quanto lo sfruttato è il denaro che si trae da tali attività). La quantità di lavoro astratto appare come quantità sociale di valore(quantità rappresentata in modo imperfetto dal denaro) e come "oggettività del valore"(valore rappresentato imperfettamente dal prezzo) dei prodotti. Più c'è "spendimento di energia umana astratta" remunerata (sfruttamento contro salario) più c'è valore. La domanda di merci proviene solo dallo sfruttamento remunerato dei lavoratori (salario o profitto). Una merce che non viene comprata non ha "valore di scambio", non ha valore di mercato, non ha valore capitalistico, e dal momento che solo lo sfruttamento remunerato dei lavoratori crea una domanda per tale merce, senza sfruttamento remunerato dei lavoratori non c'è valore. Più lavoratori remunerati sfruttati ci sono, più c'è sfruttamento remunerato, quindi più valore, quindi più crescita.
Il capitalismo - osserva Kurz - non è altro che l'accumulazione del denaro come fine in sé. La sostanza di questo denaro si trova nell'utilizzo sempre crescente della forza lavoro umana.
Il capitalismo non avrebbe alcun limite interno alla sua valorizzazione se non fosse concorrenziale e se non ci fosse un costante aumento della produttività.
La competizione porta ad una maggiore produttività (più si è produttivi, più si è competitivi, quindi più si riesce a vendere merci) e rende questa forza lavoro (i lavoratori salariati sfruttati) sempre più superflua (rimpiazzati da macchine sempre più potenti e sofisticate). Tale contraddizione interna sembrava sempre superata per mezzo dell'assorbimento massivo di forza lavoro da parte delle nuove industrie. Il "miracolo economico" dopo il 1945 ha fatto di questa capacità del capitalismo, un credo. Una produttività che aumenta, significa che minori energie umane creano più prodotti materiali. La contraddizione interna al capitalismo concorrenziale, quella per cui un costante aumento della produttività porta ad una costante diminuzione dell'utilizzo di forza lavoro astratta, di sfruttamento e, dunque, rimanda all'espansione dei mercati, grazie a dei nuovi settori di sfruttamento (per esempio, l'industria automobilistica, all'inizio del 20° secolo), ecc..
La "terza rivoluzione industriale", "nuovo standard irreversibile di produttività" (cioè, è impossibile tornare ad una minor produttività in seno al sistema capitalista), porta al suo termine questa tendenza, nel corso degli anni '80. La creazione sempre nuova di capitale-denaro (debito, creazione massiva di denaro) sembra essere l'unica soluzione: in realtà, questa pseudo-accumulazione senza sostanza, fatta attraverso le bolle finanziarie, l'indebitamento massivo ed una creazione enorme di moneta, ha raggiunto attualmente i suoi limiti ed entrerà in crisi ad intervalli sempre più regolari. Il limite interno storico del capitalismo non verrà risolto negli anni 1980/90: una gestione repressiva delle crisi sociali, una crescita senza sostanza per mezzo dell'espansione sfrenata del credito, dell'indebitamento e delle bolle finanziarie ed un'apertura mondiale delle valvole monetarie, non cambieranno niente e non faranno altro che ritardare un processo che è diventato inevitabile in senso a questo sistema economico. Oggi, assistiamo ad una sorta di ultimo stadio del capitalismo di Stato, capace, tutt'al più, di ritardare il crollo: le munizioni del keynesismo si sono di già esaurite. Questo nuovo deficit pubblico (legato al salvataggio delle banche) non può più permettere i grandi investimenti che avrebbero potuto rilanciare un po' il sistema.
La dinamica oggettiva del sistema capitalista si accompagna ad una dinamica soggettiva che contribuisce a modificarne l'aspetto. Le multinazionali hanno rafforzato tale dinamica spingendola ad una mondializzazione imperialista (FMI, Banca Mondiale, intervento delle grandi potenze) e competitiva (risultante in un'eliminazione ancora più rapida e violenta delle imprese meno competitive - piccole e medie imprese ed imprese del terzo mondo - e di un certo numero di sfruttati) che si è rivelata molto redditizia (crescita dei mercati e riduzione del costo della mano d'opera) ma che ha portato alla diminuzione ancora più rapida della massa di valore che già era in calo (in seguito ai fallimenti, alle delocalizzazioni, ai licenziamenti e ai massicci tagli salariali a livello mondiale). La finanziarizzazione dell'economia (l'inflazione degli attivi fittizi legati al capitale finanziario), vero e proprio Keynesismo da casinò che non crea alcun valore reale, nondimeno ha permesso di ritardare (e quindi di aggravare ulteriormente) il crollo del sistema capitalistico e, soprattutto, di permettere ad una minoranza di investitori, di banchieri e di speculatori finanziari di accaparrarsi un'enorme parte del processo di valorizzazione del capitale in declino (accelerando il suo declino e spostando somme importanti, dal processo di valorizzazione reale del capitale, verso processi di valorizzazione fittizia). I grandi capitalisti hanno inoltre beneficiato di queste dinamiche imponendo un vero e proprio diktat ai salariati spaventati (distruzione del movimento operaio/aumento dei profitti in rapporto ai salari). I ricchi, alla fine, hanno sofferto assai meno di questa "desostanzializzazione reale del capitale", come viene indicato dall'aumento spettacolare delle ineguaglianze nel corso degli ultimi quarant'anni. Una concentrazione della ricchezza e dei mezzi di produzione che, in virtù di una "propensione al consumo" più bassa, sia dei ricchi che dei poveri (e di un abbassamento dei salari assai decisivo), e di un accaparramento dei terreni agricoli, ha accelerato ulteriormente la crisi del capitale e quella del nostro livello di vita (meno salario/meno possibilità di soddisfare i nostri bisogni).
Il capitalismo ha oggettivamente raggiunto i suoi limiti storici assoluti, ma non è meno vero che, in assenza di una coscienza critica sufficiente,l'emancipazione non può essere raggiunta. Il risultato sarebbe allora un capitalismo senza valore, un capitalismo dove non si riuscirebbe più a vendere la propria forza lavoro (se non per impieghi servili e degradanti, come quelli legati alla prostituzione e al lavoro domestico) e dove si morirebbe in massa, dal momento che parallelamente si produrrebbe una concentrazione di mezzi di produzione (terreni agricoli, fabbriche), dacché non si riuscirebbe a produrre il proprio valore d'uso (a causa della confisca di quegli stessi mezzi di produzione a profitto di una minoranza) e non si riuscirebbe a vendere la propria forza lavoro (perché c'è sempre meno bisogno di forza lavoro). L'impossibilità di tornare indietro (e la mancanza di interesse a farlo: chi vorrebbe tornare oggi allo sfruttamento capitalista del 19° secolo?), di continuare a vivere in questo sistema di sfruttamento che crolla (chi vorrebbe seriamente rimanerci, quando è possibile un'emancipazione senza precedenti?), ci obbliga a prendere coscienza di un'opportunità storica inedita: quella di un socialismo senza valore, senza lavoro astratto, senza merci, senza concentrazione dei mezzi di produzione, dove ciascuno possa soddisfare i suoi bisogni fondamentali al di fuori di qualsiasi processo di sfruttamento e di qualsiasi processo di valorizzazione.
"La contraddizione è una contraddizione interna al capitale globale, e non già una contraddizione in grado di portarci al di là del capitalismo", ci avverte Kurz. Vogliamo un socialismo senza sfruttamento o un genocidio economico mondiale? Socialismo? O barbarie?


Fonte: Critique radicale de la valeur

venerdì 22 novembre 2013

tradurre

gide_congo-1

E' il gennaio del 1928, quando André Gide arriva a Berlino per tenere una conferenza. Ed è a Berlino, nella sua stanza d'albergo, che Gide si incontra con Walter Benjamin, inviato dal "Die literarische Welt". La conversazione, ben presto si sposta sulla figura di Proust, sull'amicizia di Gide con Proust, poi sulla traduzione della Recerche, cui Benjamin sta lavorando e, finalmente, sull'atto stesso di tradurre. "Gide ha fatto tutto quello che ha potuto, come traduttore, per riuscire a divulgare l'opera di Conrad, ed inoltre si è impegnato criticamente su Shakespeare e, in tal proposito, va citata la sua magistrale traduzione dell'Antonio e Cleopatra" - scrive Benjamin.
Poi, riportando le sue parole, Benjamin aggiunge che Gide non è riuscito a trovare, a Berlino, quella tranquillità necessaria a preparare la sua conferenza.
"Vorrei aggiungere qualcosa a proposito del mio rapporto con la lingua tedesca" - dice Gide, e scrive Benjamin. A quanto pare, dopo un periodo di studio, "intensivo ed estensivo", di quella lingua, Gide ha all'improvviso, e per dieci anni, interrotto qualsiasi rapporto con l'idioma tedesco. "La mia attenzione è stata catturata completamente dall'inglese", afferma, e continua: "Poi, l'anno scorso, ero in Congo e mi sono trovato ad aprire un libro scritto in tedesco, dopo tanto tempo. Le Affinità Elettive. E mi sono reso conto di una cosa: la lettura non era affatto difficile come immaginavo, era molto facile."
Benjamin annota che il tono di Gide, nel dire queste parole, si era fatto assai "insistente" e sottolinea più volte che tale insistenza non riguardava l'affinità fra inglese e tedesco, bensì il fatto che Gide si fosse sentito "drammaticamente respinto dalla mia lingua materna".
Per tradurre - afferma Gide, e Benjamin scrive - o anche solo per padroneggiare una lingua straniera, non conta tanto la lingua che si sceglie, quanto, piuttosto, la capacità di abbandonare la propria lingua, la lingua d'origine.

giovedì 21 novembre 2013

Giornalismo

Le_Père_Peinard_1898

«Senza nessuno sfoggio di filosofia (il che non vuol dire che non ne abbia) ha giocato apertamente con gli appetiti, i pregiudizi ed i rancori del proletariato. Senza riserve o inganni, ha incitato al furto, alla contraffazione, al rifiuto di tasse e affitti, all’omicidio e all’incendio. Ha consigliato l’immediato assassinio di deputati, senatori, giudici, preti e ufficiali dell’esercito. Ha invitato gli operai disoccupati a prendere cibo per se stessi e le loro famiglie ovunque lo trovassero, a fornirsi di scarpe al negozio di scarpe quando la pioggia primaverile bagnava loro i piedi, ed a coprirsi al negozio di vestiti quando i venti invernali li pungevano. Ha invitato gli operai a mettere alla porta i loro datori di lavoro tirannici, e ad appropriarsi delle loro fabbriche; i braccianti ed i vignaioli ad impossessarsi delle fattorie e delle vigne, e trasformare i proprietari dei campi e delle vigne in fosfati fertilizzanti; i minatori ad impadronirsi delle miniere e ad offrire picconi agli azionisti nel caso in cui questi avessero mostrato disponibilità di lavorare come loro amici fraterni, altrimenti a scaricarli in pozzi inutilizzati; i coscritti ad emigrare piuttosto che fare il loro servizio militare, i soldati a disertare o a sparare agli ufficiali. Ha esaltato i bracconieri ed altri deliberati trasgressori della legge. Ha raccontato le gesta di antichi briganti e fuorilegge, e esortato i contemporanei a seguire il loro esempio».

(a proposito di "Le Père Peinard", giornale fondato da Émile Pouget nel 1889)

mercoledì 20 novembre 2013

Ebro

ebro

Il 13 novembre 1938, 75 anni fa, terminò l'ultima grande battaglia della guerra civile spagnola, la battaglia dell'Ebro; l'ultima speranza della Spagna repubblicana di far girare la sorte di un conflitto che sembrava ormai a tutti irrimediabilmente compromesso e perduto. Alla fine vinsero i franchisti e, da allora, la caduta della Catalogna prima, e della repubblica poi, diventarono solo una questione di tempo.
La battaglia era cominciata più di tre mesi prima, il 25 luglio, quando, di notte, le truppe repubblicane erano riuscite a sorprendere il nemico attraversando il fiume nella zona di Tortosa. I franchisti non credevano che potevano essere attaccati e poi, Franco era occupato a cercare di conquistare Valencia. Non era capace, il futuro dittatore, di riuscire a prestare attenzione a più di un fronte. Ragion per cui, le sue truppe sull'Ebro in un primo momento furono vittime dell'incuria e dell'abbandono, dettato anche dal profondo disprezzo che Franco nutriva nei confronti di un esercito popolare che era nato dalle milizie operaie dei partiti di sinistra e dei sindacati. Lo stesso esercito popolare che era riuscito ad attraversare in una notte l'Ebro, con una manovra militare di altissimo livello - mantenendo segreta la presenza di un esercito di centomila uomini e mettendo a frutto un'incredibile sforzo ingegneristico - che aveva permesso di invadere la riva opposta ed avanzare per cinquanta chilometri. Ma lì si erano fermati, alle porte di Gandesa e della Sierra di Pandolis, per trincerarsi, rimanendo a subire la reazione di un esercito franchista che dapprima aveva avuto paura  e che poi si era sentito umiliato per la sorpresa.

ebro Vicente_Rojo

Era Vincente Rojo, il capo di Stato Maggiore dell'esercito popolare, la mente che stava dietro quell'offensiva e che si era distinto, fin da subito, nella difesa di Madrid nel novembre del 1936. Rojo sapeva che la repubblica aveva tutto da perdere, ancor più dopo la tremenda offensiva franchista dell'aprile del 1938 che aveva tagliato in due il territorio repubblicano. Con un territorio diviso in due zone, ed i franchisti in mezzo, e con un esercito praticamente privo di qualsiasi rifornimento di armamento, non c'era altro da fare che tenere duro fino allo scoppio della seconda guerra mondiale contro i nazisti e i fascisti. E fu quell'imminenza a determinare la strategia del governo repubblicano; la repubblica scommetteva sul fatto che la politica di Hitler avrebbe inevitabilmente portato alla guerra, per cui bisognava resistere fino a quando le democrazie europee, Gran Bretagna e Francia soprattutto, sarebbero diventate alleate della repubblica nella guerra con Franco che era, a sua volta, alleato di Hitler.
Gli eventi internazionali facevano ben sperare. Nel marzo 1938, la Germania si era annessa l'Austria e, in piena battaglia dell'Ebro - fra il 26 ed il 30 settembre di quell'anno - la pace mondiale stava appesa ad un filo: Hitler minacciava di invadere la Cecoslovacchia con la scusa di difendere la minoranza tedesca, i Sudeti, da una presunta aggressione ceca. Ma con l'accordo di Monaco, Francia ed Inghilterra decisero di salvare la pace in Europa, sacrificando i loro alleati cechi. La repubblica spagnola era così condannata. Alla fine di ottobre, mentre l'esercito popolare continuava a resistere asserragliato sulle rocce della Sierra di Pandolis, Negrin decise di liquidare le Brigate Internazionali, assentendo così alla decisione del Comitato di Non Intervento; quello stesso comitato che impediva l'importazione da parte della repubblica e che aveva la vista assai corta quando si trattava degli aiuti nazisti e fascisti nei confronti di Franco. Negrin, si illudeva così di forzare la situazione e di obbligare - con lo spettacolo della marcia delle Brigate Internazionali che lasciavano la Spagna - l'opinione pubblica internazionale a focalizzarsi sulla presenza di tedeschi ed italiani nell'esercito franchista, per condannarli. Il 28 ottobre del 1938, i brigatisti internazionali sfilarono per l'ultima volta lungo le strade di Barcellona.

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Ovviamente, fascisti e nazisti rimasero a combattere con i franchisti; fino alla sconfitta della repubblica. E la sconfitta era oramai vicina. Privo di rifornimenti e con le truppe decimate, l'esercito popolare si ritirò alla posizione precedente all'offensiva di luglio. Il 13 novembre l'ultimo soldato repubblicano tornò ad attraversare l'Ebro. La battaglia era finita. C'erano stati 17.000 morti, da entrambi i lati, e più di 60.000 feriti. Prima il caldo asfissiante, la sete e la fame, e poi il freddo e l'umidità a torturare soprattutto le milizie repubblicane, trincerate ad aspettare con la speranza di una guerra mondiale contro nazisti e fascisti, mentre venivano attaccati per terra e dall'aria, bombardamenti, esplosioni, mitraglie. Alla fine si ritirarono. L'ultima grande battaglia della guerra civile era finita.

LA BATALLA DEL EBRO, documentario di Jorge Martínez Reverte

martedì 19 novembre 2013

Mitologie

MURATORI

L'origine del mondo
di Eduardo Galeano

La guerra di Spagna si era conclusa da pochi anni e la croce e la spada regnavano sulle rovine della Repubblica. Uno dei vinti, un operaio anarchico, da poco uscito di galera, cercava lavoro. Aveva rivoltato invano il cielo e la terra. Niente lavoro per un rosso. Lo guardavano male, tutti, si stringevano nelle spalle e giravano il culo. La sera, davanti ai piatti vuoti, doveva sopportare senza dir niente i rimproveri della pia donna di sua moglie - una donna da messa quotidiana -  mentre il figlio, un bambino piccolo, recitava il catechismo.
Tutto questo, molto tempo dopo, me lo raccontò Josep Verdura, il figlio di quell'operaio maledetto. Me lo raccontò a Barcellona, quando tornai dall'esilio.
Mi raccontò: lui era un bambino disperato che desiderava salvare il proprio padre dalla dannazione eterna, lui che era molto ateo, molto testardo e non intendeva ragione.
"Ma papà" - gli aveva detto Josep, piangendo - "Se Dio non esiste, allora chi è che ha fatto il mondo?"
"Coglione" - gli rispose l'operaio, sottovoce, quasi in segreto - "Coglione. Il mondo lo abbiamo fatto noi, i muratori."

lunedì 18 novembre 2013

"Finché li cerco io, i latitanti sono loro"!

comunicato

Alla fine, la rivendicazione è arrivata, a ricordare - con le parole di Buenaventura Durruti - che "Nessun governo combatte il fascismo per distruggerlo. Quando la borghesia vede che il potere le sta scivolando dalle mani, chiede aiuto al fascismo per mantenere i privilegi."
La rivendicazione è arrivata, a sottolineare, con i fatti che la parola "vendetta" può anche non essere vuota di significato.
La rivendicazione è arrivata, dicevo, e puntuali (per la seconda volta) sono arrivate le voci querule dei grilli parlanti, dai rossobruni di "donchisciotte" ai fini analisti di "contropiano". I teorici innamorati del vittimismo (degli altri, naturalmente), quelli che negli anni '70 piagnucolavano tutti in coro che "ci ammazzano, ci sfruttano, ci buttano in galera ..."
La rivendicazione sta lì - scritta in greco, ma può essere tradotta - pronta a farsi fare a pezzettini dalla burocrazia devota della "Strategia della Tensione", magari anche mettendo in atto qualche "piccola correzione" alla verità (dalla traduzione "fantasiosa" all'affermazione circa il fatto che la polizia avrebbe sdoganato immediatamente il documento, come autentico, a dilatare fino a raddoppiarlo, il tempo intercorso fra l'azione e la rivendicazione) di modo da riuscire a convincerci meglio che il nostro destino è quello di essere inermi, sempre, e che qualsiasi tentativo di sfuggire a tale sorte cadrà inesorabilmente vittima delle loro analisi linguistiche e caratteriali. Non può mancare, alla fine di queste brillanti analisi improntate alla più stringente logica, l'esibizione del metodo doxa, per cui - a conferma e a conforto - la "stragrande maggioranza" sarebbe scettica riguardo la genuinità di quella che come ai bei tempi andati rimane una "sedicente" organizzazione rivoluzionaria.
E' il sondaggio, baby, e non ci puoi fare niente!