venerdì 31 maggio 2013

latinoamericana

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All'età di 22 anni, l'argentino Dardo Cúneo oscillava fra l'attività di studente ed il mestiere di giornalista, quando gli arrivò, fra capo e collo, un'esclusiva a risolvergli il problema: l'equipaggio del Sant Tomé si ammutinò in alto mare, i marinai si erano rifiutati di sbarcare alle Canarie - lo scalo previsto - dal momento che queste erano cadute in mano ai franchisti che si erano sollevati contro la repubblica spagnola. Dardo Cúneo pubblicò su "Critica" un articolo in cui raccontava la storia di quella nave che alla fine sarebbe approdata in Senegal: del resto, lui si trovava a bordo! Quella fu solo la prima delle sue cronache in cui si raccontava la guerra civile spagnola di Dardo Cúneo, un giornalista che apparteneva a quella razza che ha l'intuito per trovarsi dove deve essere e che sa quello che c'è da sapere.
Dardo Cúneo è uno dei 200 argentini che compaiono nella collana "Hispanoamérica y la guerra civil española", un ambizioso progetto che riporta alla luce l'impatto che ebbe la guerra civile spagnola, in America Latina. Diciannove volumi, il risultato di otto anni di ricerche, che provano come il conflitto spagnolo venne vissuto come proprio, nei diversi paesi del Sudamerica, dove ci furono mobilitazione e campagne a favore degli uni e degli altri. Riferite alla Spagna, vennero rispolverate espressioni come "madre patria", ritenute stantie, che divennero invece patrimonio dei progressisti latinoamericani. Mai nei paesi del Sudamerica si era scritto tanto della Spagna: poesie, opere teatrali, opuscoli, articoli, relazioni, saggi. Tutti a favore della causa repubblicana, e qualcuno, in proporzione assai minore, in favore di Franco. "¡Cuídate, España, de tu propia España!”, ammonì il peruviano César Vallejo nel suo "España, aparta de mí este cáliz" - il libro di poesie che scrisse nel 1937, un anno prima di morire, a Parigi.
Il Cile ferveva di attività per la Spagna, soprattutto grazie a María Zambrano, che ne era il vero e proprio motore. " Generales/ traidores:/mirad mi casa muerta, mirad España rota" - gridava Neruda. Nei turbolenti anni '30, il consolato del Cile, a Madrid, era diventato una vera e propria sorta di porta girevole, attraverso cui passavano futuri premi Nobel. Nel 1935, Neruda (Nobel nel 1971) andava a sostituire Gabriela Mistral (Nobel nel 1945), che veniva destinata a Lisbona, dopo che aveva espresso un giudizio assai poco diplomatico sugli spagnoli. Comunque, la Mistral si commosse talmente al cospetto del dramma dei bambini baschi evacuati nei paesi europei, che destinò loro il profitto del suo libro, "Tala".
"Nell'ampiezza fisica e nella generosità naturale del nostro continente, vi è abbondanza di spazio per poter riceverli tutti, evitando loro quei paesi dalle lingue impossibili, i climi aspri e le razze strane" - argomentava nel suo libro di poesie, dove ringraziava Victoria Ocampo, un'altra letterata latinoamericana, argentina, che nelle prime settimane della guerra si era unita ad un comitato francese di aiuto alla repubblica, firmandone il manifesto. Anche la causa fascista trovò una piccola eco, in America Latina, seppure il numero e la reputazione dei suoi sostenitori non fosse paragonabile a quella dei difensori della repubblica. L'ecuadoriana Hortensia Pagés organizzò un comitato d'aiuto. In Argentina, risuonò la voce del figlio di Leopoldo Lugones, poeta modernista e primo intellettuale fascista del paese; mentre il padre taceva, asserendo che gli argentini non dovessero opinare sopra le questioni straniere, il figlio Polo (che era stato capo della polizia durante la dittatura di José Félix Uriburu) scrisse al governo di Franco, nel febbraio del 1939, una lettera in cui rigettava l'accoglienza ai rifugiati repubblicani: del resto, era già passato alla storia, assai meno letterariamente del padre, per aver perfezionato la tortura a mezzo delle scariche elettriche e del "techo" (bagno con le feci).

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E nel mezzo, Borges, che scrisse un necrologio per Unamuno, colui che per primo salutò la ribellione militare e che poi la condannò. Nel necrologio, evitò però di rammentare le circostanze dei suoi ultimi mesi di vita, nel 1936. E quando gli domandarono se l'arte doveva porsi al servizio dei problemi sociali, rispose: “E' una notoria ed insipida verità, quella che l'arte non deve essere al servizio della politica. Parlare di arte sociale è come parlare di geometria vegetariana, o di artiglieria liberale, o di pasticceria endecasillaba".

giovedì 30 maggio 2013

l’Internazionale

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Erano circa un centinaio, provenienti da diverse parti del mondo, i cinesi che lottarono come brigatisti nella guerra civile spagnola. Emigranti, operai, medici, giornalisti, piccoli commercianti ... "Noialtri, i cinesi, abbiamo combattuto su tutti i fronti, in tutti i luoghi." - diceva Zhang Ji, parlando con Yan Jiazhi, il primo cinese ad arrivare in Spagna, all'inizio del conflitto; un massaggiatore residente a Parigi, di cui i documenti degli archivi dell'Internazionale Comunista segnalano di non poter confermare la sua condizione di militante. Quelli che, in quei momenti, arrivavano in Spagna , per combattere, non erano evidentemente persone comuni. Alcuni di loro erano già sui cinquant'anni, con tutto quello che significava, in quegli anni, imbarcarsi in un'avventura simile, a quell'età! Altri più giovani, come il ventiquattrenne che cadde sul fronte di Gandesa: Chen Wenrao. Era arrivato da New York, nel giugno del 1937, dove faceva il cameriere. Appena giunto ad Albacete, al quartier generale delle Brigate Internazionali, era stato mandato in un campo vicino, per essere addestrato, poi venne aggregato al Battaglione Lincoln, quindi ad ingrossare le fila del 24° Battaglione della XV Brigada. Poi ... "i brigatisti attaccarono Gandesa, alla baionetta, ed i loro cadaveri cominciarono a ricoprire la valle. Lì morì Wenrao. Nessuno lo seppellì mai. Rimase, e rimane, in quel luogo a formare parte della terra spagnola."

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Chen Wenrao veniva da New York ed era originario di Guangdong, ma c'erano anche brigatisti provenienti da Quingtian, villaggio nell'est della Cina, da dove proviene circa il 70% dei cinesi che oggi vive in Spagna. Come Zhang Shuseng, "il quale doveva parlare bene lo spagnolo, e combatteva insieme a soldati spagnoli. (...) Aveva un fratello a Valencia che era anche lui nell'esercito repubblicano. Così compaiono altri nomi di cui si possono seguire le tracce. Infatti, molti di questi emigranti cinesi in Catalogna, che facevano parte di un'associazione che aveva sede a Tarragona, si sono impegnati per far costruire un piccolo monumento che ricordasse i loro compatrioti che avevano combattuto nella guerra civile spagnola."

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Il volto di un altro brigatista, Tchang Jaui Sau, finì sulla copertina della rivista "Estampa"; operaio alla Renault, era membro del Partito Comunista di Francia. Quando, dopo, tornò in Cina non riusci a sopportare la demolizione della società del suo paese, in seguito alla Rivoluzione Culturale, e, come racconta la figlia, cominciò a bere. Così una volta, uscendo ubriaco da casa, scivolò e rimase paralizzato. Morì, in solitudine, nel 1968.
Anche per Xie Weijing non ci fu un lieto fine! Membro del Partito comunista tedesco, era arrivato ad occupare il ruolo di commissario politico del Battaglione d'Artiglieria, la carica più alta occupata da un volontario cinese nelle Brigate Internazionali. Era un giornalista ed apparteneva anche al Partito comunista cinese. Coltivava l'idea di un'unità di combattimento tutta cinese, soprattutto per facilitare le attività amministrative, che mettesse insieme quel centinaio di cinesi, sparpagliati nell'esercito della Repubblica. Non riuscì mai a realizzarla. Anche lui, tornò in Cina in piena Rivoluzione Culturale. Si rifugiò in una piccola città nel Sichuan, accusato di slealtà solo per essere stato all'estero, anche se in un primo momento era stato ben accolto, fino a diventare vice-ministro della Difesa. Lo pensionarono anticipatamente e lo spedirono in un centro di rieducazione nei pressi della città dov'era nato. Lì trascorse tutto il periodo della Rivoluzione Culturale. In fondo, fu fortunato! Morì, liquidato come "revisionista".
Anche lui, come tutti gli altri, dalla Spagna ebbe un marchio destinato a durare tutta la vita. Nessuno di loro riuscì mai a scacciar via quell'esperienza dalla testa.

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Non erano una folla, i cinesi nella guerra civile spagnola, ma erano certamente un numero significativo. Soprattutto se consideriamo quanti andarono in Spagna dai paesi vicini alla Cina, come quel solo giapponese, Jack Shirai, che era arrivato da San Francisco, e lo misero a fare il cuoco. "Sono venuto per combattere, e non per armeggiare con le pentole!" Lo uccise una pallottola vagante, mentre portava da mangiare in zona di combattimento.
E, curiosamente, dalla Cina e dal Giappone si è potuta ricostruire la partecipazione alla guerra civile spagnola di Tio Oen Bik, medico cinese. Faceva parte del gruppo dei "medici spagnoli" che avevano lottato nella cino-giapponese. Li chiamavano così perché tutti i medici avevano partecipato alla guerra civile spagnola, anche se fra di loro non c'era un solo spagnolo. Erano tutti cecoslovacchi, polacchi, tedeschi ... Dopo la Spagna se ne erano andati in Cina a continuare la lotta contro il fascismo. Recentemente, in Cina, si è tenuto un congresso cui hanno partecipato alcuni discendenti di quei medici. Un'altra storia di cui si sa molto poco.


fonte: http://www.elconfidencial.com/

Jack Vance

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Buon viaggio verso il Pianeta Tschai!

mercoledì 29 maggio 2013

Capitan Swing

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Inghilterra 1830: Captain Swing era il rappresentante dei braccianti. Caratteristica di rilievo del movimento di Swing era la sua multiformità nell’agire. Incendio doloso, lettere minatorie, volantini e manifesti sediziosi, brigantaggio, meeting per i salari, assalti ad ispettori dei poveri, a parroci e proprietari, distruzione di vari tipi di macchinari. Dietro queste diverse forme d’azione, gli obiettivi fondamentali dei braccianti-luddisti sono però particolarmente ben definiti: ottenere nell’immediato un salario sufficiente per vivere, porre fine alla disoccupazione ed impedire che le macchine agricole snaturino il rapporto uomo-terra. Per raggiungere questo scopo i mezzi usati variano a seconda dell’occasione e delle possibilità che si presentano. Possono seguire la via elementare dei meeting per decidere la somma da chiedere, redigendo un foglio o un documento da presentare ai datori di lavoro, e, nel caso incontrassero resistenza, accompagnano le loro richieste con assemblee illegali e minacce di violenza.
Una forma di brigantaggio che assunse proporzioni notevoli soprattutto nelle contee meridionali e centrali dell’Inghilterra, anche se non erano tanto le varie forme di agitazione, seppur rilevanti, quanto la distruzione di macchine ad imprimere il loro marchio a tutto il movimento dei braccianti. Infatti il segno distintivo di Swing non sono tanto gli incendi o le lettere minatorie quanto la distruzione delle macchine agricole.
Le fonti popolari raccontano di Captain Swing e della sua banda vestiti da gentlemen che viaggiano per le campagne su calessi verdi, fanno misteriose domande sulla misura dei salari e sulle trebbiatrici, distribuiscono denaro e danno fuoco ai pagliai con pallottole incendiarie, razzi, palle di fuoco e altri congegni diabolici (dai giornali dell’epoca: “Sembra che lo strumento incendiario abbia la caratteristica di esplodere lentamente, si accenda ed esploda dopo un certo periodo che è stato collocato sotto il covone”).

martedì 28 maggio 2013

vendo tutto!

vendo

Se Facebook o Google fanno soldi a spese nostre senza che questo ci porti niente, allora perché non vendere direttamente la propria vita privata alle compagnie interessate? Federico Zannier, uno studente di origine italiana che vive a New York, ha deciso di raccogliere tutti i propri dati personali e metterli in vendita sul sito Kickstarter! Un'iniziativa quanto meno originale, a mezza strada fra la performance artistica concettuale e il gesto politico volto a far prendere coscienza della situazione.

"Ho raccolto automaticamente i dati che mi riguardano. Ho violato la mia privacy. Adesso vendo tutto. Ma quanto vale tutto questo?
Io passo ogni giorno delle ore a surfare su Internet. Nel frattempo, le compagnie come Facebook e Google utilizzano i miei dati di navigazione (i siti web che visito, gli amici che ho, i filmati che guardo) a loro proprio beneficio. Nel 2012, i ricavi provenienti dalla pubblicità, negli Stati Uniti, sono stati intorno ai 30 miliardi di dollari. Lo stesso anno, io ho ricavato esattamente 0 (zero) dollari dai  miei propri dati. E se io mi tracciassi da solo? Potrei averne qualche dollaro, in cambio?
Ho cominciato a leggere i termini e le condizioni generali dei siti web che utilizzo spesso. Nelle loro politiche sulla privacy, ho trovato frasi come "Si concede una licenza mondiale, non esclusiva, gratuita, per l'utilizzo, la copia, la riproduzione, il trattamento, l'adattamento, la modifica, la pubblicazione, la trasmissione, la pubblicazione e la distribuzione di di tali contenuti su tutti i media e secondo tutti i metodi di distribuzione (sia attualmente conosciuti che successivamente sviluppati)." Allora, ho semplicemente accettato di avere diritto a vita, internazionale, da poter dare in concessione, all'utilizzo dei miei dati personali.
Qualcuno mi ha detto che viviamo nell'era dei dati, e che l'era del silicio è già terminata. "In questa nuova economia" - mi hanno detto - "i dati sono il petrolio".
Bene, ecco quello che posso fare.
Dal mese di febbraio, ho registrato tutte le mie attività online (le pagine che ho visitato, la posizione del puntatore del mouse, le schermate che ho catturato, le immagini di me che guardo lo schermo, riprese dalla webcam, la mia posizione GPS ed un registro delle applicazioni che ho utilizzato). Di tutto questo troverete una traccia su myprivacy.info.
Il pacchetto dei dati contiene:

    Pages webs
    websiteViewsLog.csv
    ScreenCaptures
    screenCaptures.csv
    WebcamPhotos
    webcamPhotos.csv
    applicationLog.csv
    applicationUsage.csv
    browserTabs.csv
    browserWindows.csv
    geolocation.csv
    mouseLog.csv
    websiteOfTheDay.csv
    wordsOfTheDay.csv

La suite di utility include:

    delle routine di pulizia dei dati
    utility di conversione ed analisi
    utility per statistiche di base
   
Vendo tutti questi dati a 2 dollari al giorno. Se più persone faranno lo stesso, credo che le compagnie di pubblicità potrebbero arrivare a pagarci direttamente, per i nostri dati. Può sembrare folle, ma regalare tutti i nostri dati senza alcuna contropartita lo è altrettanto.

Grazie! Thanks!”

Federico


Fonte: http://www.framablog.org

insurrezioni

Natta

Agosto 1874:
Nel frattempo si diffondevano in città voci allarmistiche sull'arrivo di una banda romagnola nel Mugello: truppe furono inviate dalle autorità a Borgo S. Lorenzo, Scarperia, Marradi e numerose perlustrazioni vennero eseguite sui monti dell'Appennino, ma delle "bande armate di tutto punto" nessuna traccia. Il giorno 12 il Natta spedì dall'Emilia la parola d'ordine per l'inizio dell'insurrezione. Immediatamente il Grassi ed il Lovari, componenti il Comitato rivoluzionario, riunirono alcuni degli affiliati fuori la Porta a Prato, decidendo di iniziare la sommossa alle ore 21 dello stesso giorno.
Il piano degli internazionalisti sembra fosse il seguente: al segnale dato da un incendio provocato in un punto della città, mentre il grosso degli internazionalisti si sarebbe riversato nelle vie dei quartieri popolari per chiamare a raccolta gli operai ed organizzarli, una banda armata avrebbe preso la via di S. Casciano per impadronirsi dei fucili della guardia nazionale depositati in quel comune; quindi, ingrossata da nuovi elementi, si sarebbe data alla campagna per richiamare le truppe di presidio in Firenze e distrarre l'attenzione delle autorità. Allo stesso modo una banda armata si sarebbe formata in Pontassieve per dirigersi a Firenze, interrompendo lungo la via le comunicazioni telegrafiche e ferroviarie.
In città gli insorti, organizzati per squadre in ogni quartiere, avrebbero dato l'assalto alle carceri per liberare tutti i detenuti, poi avrebbero attaccato, col getto di materie incendiarie e al grido di "fuoco!", il Palazzo Vecchio, la prefettura, la questura, il gazometro e le botteghe degli orefici sul Ponte Vecchio.

da: Elio Conti, Le origini del socialismo a Firenze, Rinascita, 1950

lunedì 27 maggio 2013

Decrescita?!?

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Tutti i partigiani della decrescita parlano di uscire dall’economia, anche se il modo per realizzarlo non passa per una rivoluzione e nemmeno solo per un’ecatombe economica. Deve invece passare attraverso un’uscita. La distruzione del capitalismo non è la condizione previa per il cambiamento. Questo deve essere «civilizzato», deve passare dalla porta e non buttarla giù, con l’aiuto inestimabile dell’informatica e di internet, strumenti «conviviali» che «attaccano il regno della merce» (Gorz) e ci aiutano a creare «spazi autonomi conviviali e parsimoniosi» pieni zeppi di «beni relazionali», grazie al cui fascino attrattivo il nostro immaginario ne risulterà decolonizzato.
Quindi non si tratta di sostituire un sistema con un altro, e ancor meno con la violenza, ma di creare un sistema buono all’interno di uno cattivo, che conviva con esso. Quando quelli della decrescita parlano di uscire dal capitalismo, la maggior parte delle volte intendono uscire dall’«immaginario capitalista»: un cambiamento di mentalità, non di sistema. Inoltre pensano che l’altro tipo di cambiamento, quello che comporterebbe la distruzione della democrazia borghese, la socializzazione della produzione, l’eliminazione del mercato, l’abolizione del salario e la scomparsa del denaro, provocherebbe «il caos», qualcosa di «insostenibile» che inoltre avrebbe il difetto di non porre fine all’«immaginario dominante». Siamo ben lontani dall’incamminarci verso quel che in altra epoca venne chiamato socialismo o comunismo. Quel che si pretende è molto più semplice: mettere a dieta il capitalismo. Non c’è il minimo dubbio che i suoi dirigenti, stimolati dall’esito di una «economia solidale» a cui lo Stato ha trasferito mezzi sufficienti, e limitati dall’esaurimento delle risorse e dalla scarsità dell’energia a buon mercato, si stiano convincendo della necessità di entrare «in una transizione socio-ecologica verso livelli inferiori di uso di materie prime e di energia» (Martínez Alier).
I milioni di disoccupati che provocherà questa transizione dovranno prendere il computer e andare in campagna, ricettacolo di un’infinità di «nuove attività», provvedimento che sorgerebbe da un «ambizioso programma di ridistribuzione» che includerebbe un «reddito di cittadinanza» (Taibo), alla portata solamente delle istituzioni statali. In quanto tentativo di uscire dal capitalismo senza abolirlo, nel passare all’azione ed entrando nel terreno dei fatti, quelli della decrescita confluiscono nel vecchio e abbandonato progetto socialdemocratico di abolire il capitalismo senza uscire affatto da esso. Se abolire il capitalismo in modo brusco e violento è una forma di “decrescita traumatica” che va contro la “decrescita sostenibile” (Cheynet), non parliamo di abolire la politica. Anche se non esiste più politica se non quella che persegue i disegni dell’economia e, quindi, della crescita, non si concepisce altro modo di «implementare» i mezzi necessari di fronte a una «transizione egualitaria verso la sostenibilità» se non quello di «riacquistare protagonismo come comunità politiche» (Mosangini), ad esempio attraverso «una proposta programmatica prima delle elezioni» (Jaime Pastor). Cosicché quelli della decrescita potranno mettere in discussione il sistema economico che hanno rinunciato a distruggere, però non metteranno in discussione i suoi sottoprodotti politici, i partiti, il parlamentarismo e lo Stato, strumenti conviviali e spirituali per antonomasia.
Anche se a casa propria si riempiono la bocca di «recuperare spazi di autogestione», una volta fuori reclamano a favore di un embrione di «democrazia partecipativa», ovvero della vigilanza e consulenza da parte delle istituzioni e delle imprese edili in materia di urbanizzazione e infrastrutture, con l’obiettivo di scongiurare le proteste radicali in difesa del territorio.

 - Miguel Amoròs -

domenica 26 maggio 2013

appassionato

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Al momento in cui Nabokov si dispone a scrivere Lolita, aveva già scambiato la lingua russa per quella inglese, ed aveva scambiato il suo paese natale, prima con l'Europa, poi con gli Stati Uniti. E fu proprio negli Stati Uniti che finì per acquisire quelle che divennero a tutti gli effetti le sue nuove "origini" americane, disegnando percorsi che attraversavano quel vasto territorio. In un vero e proprio "On the Road" (e "Lolita", il libro di Nabokov, è contemporaneo del romanzo di Kerouac) si muove un perturbato protagonista, disposto a commettere, per passione, tutto quello che l'autore ha ritenuto di doverci raccontare. Precedentemente, Nabokov aveva già esplorato la questione, a fondo, come quando, partendo dalla sua passione per il gioco degli scacchi, aveva scritto "La difesa di Lužin", mostrando quel che può accadere quando ci si dedica completamente ad un'unica passione, lasciando che essa ci domini.
Ma la passione rimane l'unica cosa che si oppone all'indifferenza e alla morte, anche quando entra in conflitto con la giustizia, sembra dirci Humbert - il protagonista - nella sua confessione, che non è altro che l'intero romanzo. La traiettoria di un amore che sembra impossibile, viene descritto con virtuosismo, ma anche con una buona dose di autoironia, riuscendo a superare il tabù del tema ed arrivando, perfino, a proiettare una quota di felicità dentro il viaggio, pur disastroso, insostenibile alla lunga, catastrofico; dove il compito di Humbert è quello di trovare un idioma appropriato, un linguaggio attraverso il quale il personaggio Humbert possa riuscire a comunicare con il personaggio Lolita: un fallimento! Riscattato dall'impresa di riuscire, invece, a scrivere la propria confessione, raggiungendo così, non Lolita, ma il lettore. Così è proprio la scrittura a diventare l'unico spazio dove la passione riesce a dispiegarsi, senza entrare in contrasto con la norma, tralasciando e accantonando il senso della morale.

sabato 25 maggio 2013

negro, nègre, ghostwriter

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Gabriel Pélin, in "Les Laideurs du Beau Paris, histoire morale, critique et philosophique des industries, des habitants et des monuments de la capitale", edito nel 1861, pubblica la lettera di un editore che si dichiara disposto ad acquistare il manoscritto di un autore, a condizione di poterlo far firmare da un altro autore a sua scelta ("à la condition ... de le fair signer par telle personne dont le nom pourra être pour ma spéculation un élément du succèss").

Geografie dell'ingiustizia

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Il concetto di "Giustizia spaziale", enunciato da Henri Lefebrve nel 1968, nel suo "Il diritto alla città", non è altro che un tentativo, da parte della grande tradizione figurativa borghese, di risolvere, sul piano ideologico, tutti gli squilibri, le contraddizioni e le disfunzioni sociali delle città; e - alla maniera di Le Corbusier - vi si potrebbe aggiungere lo slogan "Urbanismo o Rivoluzione!". L'idea di una "Città Giusta" è la prova di una contorsione nevrotica pseudo-umanista; dal momento che si sa quanto sia illusorio proporre dei contro-spazi architettonici, se non addirittura urbani: è la ricerca di un'alternativa che risulta iscritta dento le stesse strutture liberali, che poi sono quelle che condizionano tutta la natura del progetto. Una contraddizione evidente e storica. L'arretratezza politica di questo gruppo di intellettuali si caratterizza a partire dal loro voler rilanciare una sorta di etica dell'architettura e dell'urbanismo, assegnandogli la missione politica di allentare le tensioni. Un riformismo che esige un "Minimo vitale", invece di esigere una città - una vita -ideale.
Il geografo Ed Soja, oggi il principale teorico di questo concetto di "Giustizia spaziale", riconosce pienamente i limiti politici di una tale visione ottimistica, e rilancia una critica politica dell'urbanismo e della geografia urbana.

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Edward w. Soja
La città e la giustizia spaziale

L'espressione "Giustizia Spaziale" si è diffusa solo recentemente e, ancora oggi, geografi e progettisti tendono ad evitare l'utilizzo esplicito dell'aggettivo "spaziale", quando analizzano la richiesta, da parte delle società contemporanee, di maggior giustizia e democrazia. O la spazialità della giustizia viene ignorata, oppure viene fondata (assai spesso svuotata della sua sostanza) su dei concetti apparenti come la giustizia territoriale, la giustizia ambientale, l'urbanizzazione dell'ingiustizia, la riduzione delle disuguaglianze regionali, oppure in modo ancora più ampio sulla ricerca generica di una città giusta e di una società giusta. Tutte queste variazioni su uno stesso tema sono importanti ed hanno un senso, ma più spesso tendono a distogliere la nostra attenzione da quello che una formulazione specificamente spaziale della giustizia può portare e, ancora più importante, ci privano di tutti i nuovi e numerosi sbocchi che un tale approccio è in grado di offrire ad un attivismo sociale e politico in grado di appoggiarsi su tale nozione. I benefici non si misurano solo in termini di apporto teorico, ma in termini pratici.
L'obiettivo di questa breve presentazione è quello di spiegare perché sia fondamentale il doppio punto di vista teorico e pratico di mettere l'accento su questa dimensione spaziale della giustizia, non solo nella città ma a tutti i livelli, dal locale al globale. Andrò ad organizzare la mia dimostrazione attorno ad una serie di proposte, a cominciare dall'emergere - da 5 anni - dell'espressione "giustizia spaziale", letteralmente dal niente, e dalle ragioni per le quali essa probabilmente continuerà ad essere l'espressione favorita nel futuro.

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Quale che sia il campo in cui si opera, la riflessione non può che beneficiare direttamente di una prospettiva critica fondata sull'analisi dello spazio. Questo postulato ha guidato la pressoché totalità del mio lavoro di scrittura da quarant'anni, e costituisce la prima frase dell'opera che sto scrivendo, che s'intitola "Alla ricerca della giustizia spaziale". Pensare spazialmente la giustizia non ci permette solo di arricchire le nostre prospettive teoriche, ma ci aiuta ad andare avanti, in pratica, su delle strade che danno una maggiore efficacia alla nostra ricerca di un una maggior giustizia e democrazia. Al contrario, se ci rifiutiamo di spazializzare esplicitamente la nostra riflessione, queste strade non saranno più accessibili.
Dopo un secolo e mezzo di storicismo sociale, da dieci anni, l'idea di pensare in modo spaziale si è diffusa in quasi tutte le discipline. Mai, fino ad oggi, una prospettiva critica spazializzata era stata, fino a tal punto, riconosciuta ed applicata in modo così vario, dall'archeologia alla poesia, agli studi religiosi, passando per la critica letteraria, il diritto e la contabilità. Questa "svolta spaziale", diciamo così, è la prima spiegazione della recente popolarità del concetto di giustizia spaziale e della spazializzazione delle nostre teorie sulla giustizia ed i Diritti dell'Uomo, cosa che si può verificare a partire dalla rinnovata popolarità della nozione di diritto alla città, sviluppato da Lefebrve. Fino a 5 anni fa, il concetto di giustizia spaziale non sarebbe stato così facilmente comprensibile. Oggi, interessa un pubblico assai più vasto di quello interessato alle discipline consacrate per tradizione all'analisi dello spazio, ossia la geografia, l'architettura e l'urbanistica. La riflessione sullo spazio è cambiata negli ultimi anni. Lo spazio non è più considerato come una semplice contenitore, cone la scena sulla quale si svolge l'attività degli uomini, vista come una semplice dimensione fisica, ma come una forza attiva che modella la nostra esperienza di vita. Oramai, per esempio, si riflette in maniera approfondita sulla causalità spaziale urbana, al fine di meglio misurare l'influenza delle metropoli sul nostro comportamento quotidiano, ma anche su un insieme di processi: l'innovazione tecnologica, la creatività artistica, lo sviluppo economico, il cambiamento sociale; ma anche il degrado dell'ambiente, la polarizzazione sociale, l'aumento delle disuguaglianze di reddito, la politica internazionale e, più specificamente, la produzione di giustizia e di ingiustizia.
Il moderno pensiero critico spaziale si basa su tre principi:
* quello della spazialità ontologica degli esseri umani (siamo tutti essere situati spazialmente, oltre che socialmente e storicamente)
* quello della produzione sociale della spazialità (lo spazio viene prodotto socialmente, e può essere trasformato socialmente)
* quello della dialettica socio-spaziale (lo spazio viene prodotto socialmente, e perciò è vero anche il reciproco: il sociale viene prodotto spazialmente)
Se ci interessiamo seriamente a quest'ultima dimensione dialettica, possiamo riconoscere che le geografie che viviamo nel quotidiano impattano sia in modo positivo che negativo su pressoché tutte le nostre azioni. Tutte queste idee mettono in evidenza anche il fatto che la giustizia e l'ingiustizia sono iscritte dentro la spazialità e ne sono indissociabili; nella geografia multi-scalare in cui viviamo, a partire dallo spazio dei nostri corpi, passando per lo spazio domestico, lo spazio delle città, delle regioni, dello stato-nazione, fino allo spazio globale.
Finché queste idee non saranno largamente comprese, bisognerà insistere per fare della spazialità della giustizia una realtà scientifica tanto esplicita e gravida di conseguenze quanto possibile. Ridefinirla diversamente significa mancare il punto essenziale e perdere di vista tutti i campi di possibilità che una tale riflessione può aprire.

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In senso più ampio, il termine giustizia (o ingiustizia) spaziale pone intenzionalmente l'enfasi sull'aspetto spaziale o geografico della giustizia e dell'ingiustizia. Per cominciare, questo significa prendere in considerazione tutto quello che concerne la distribuzione equa e giusta nello spazio delle risorse socialmente valorizzate e della possibilità di sfruttarle. La giustizia spaziale, in quanto tale, non si sostituisce, né tanto meno è un'alternativa, alla giustizia sociale, economica o altro, ma piuttosto consiste in un modo di esaminare la giustizia, adottando una prospettiva spaziale critica. Adottando questo punto di vista, si trova sempre una dimensione spaziale della giustizia che è rivelante e, al tempo stesso, tutte le geografie recano in sé un'espressione di giustizia e di ingiustizia.
La giustizia (o l'ingiustizia) spaziale può essere intesa sia come una conseguenza che come un processo, in quanto geografie o schemi di ripartizione che sono in sé stessi giusti o ingiusti, oppure in quanto processi che producono risultati. Se, da un lato, è relativamente facile trovare esempi di ingiustizia spaziale, è molto più difficile identificare e comprendere le cause soggiacenti che producono le geografie dell'ingiustizia.
Le discriminazioni legate alle localizzazioni, risultato di un trattamento ineguale nei confronti di certe categorie della popolazione in ragione della loro localizzazione geografica, si rivelano fondamentali nella produzione di ingiustizia spaziale e nella creazione di strutture spaziali perenni, fondate su privilegi e vantaggi. Le tre forze più note che agiscono per produrre discriminazioni locali e spaziali sono: la classe sociale, la razza e il genere, ma i loro effetti non possono essere ridotti solo alla segregazione. L'organizzazione politica dello spazio è una fonte potente di ingiustizia spaziale, cui attengono per esempio i brogli, le restrizioni degli investimenti municipali, i processi di esclusione o, addirittura, l'apertheid territoriale, la segregazione residenziale istituzionalizzata, processi che recano il segno delle geografie coloniali e/o militari al servizio del controllo sociale e la creazione, a tutti i livelli, di strutture spaziali di privilegio organizzate secondo il modello centro-periferia.
Il funzionamento normale di un sistema urbano. le attività quotidiane che fanno funzionare la città, sono una fonte privilegiata di ineguaglianza e di ingiustizia nella misura in cui l'accumulazione dell'economia capitalista tende alla ridistribuzione delle ricchezze in favore dei ricchi, e a detrimento dei poveri. Questa ingiustizia nella redistribuzione è ulteriormente aggravata dal razzismo, dal patriarcato, dal pregiudizio eterosessuale e dalle numerose altre forme di discriminazione spaziale e "locazionale". Bisogna notare anche come questi processi possono operare al di fuori della rigidità della segregazione spaziale.
Le ineguaglianze geografiche di sviluppo e sottosviluppo ci offrono un quadro di analisi supplementare, per interpretare i processi all'origine dell'ingiustizia, ma come nel caso di altri processi, è solo quando queste ineguaglianze si irrigidiscono in delle strutture più durevoli al servizio del privilegio e del vantaggio che diventa necessario intervenire. Uno sviluppo perfettamente uguale, un'uguaglianza socio-spaziale totale, una giustizia di pura redistribuzione, non sono realizzabili. Ciascuna delle geografie in cui viviamo è portatrice, ad un grado variabile, di ingiustizia, rendendo così particolarmente cruciale la questione della scelta dei siti di intervento.

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La ricerca di più giustizia, o di meno ingiustizia, è uno degli obiettivi fondamentali di tutte le società, un principio fondatore volto a preservare la dignità umana e l'equità. Il dibattito giuridico e filosofico appare spesso ispirato alla teoria della giustizia di Raels, ma tali dibattiti si riferiscono solo molto marginalmente alla spazialità della giustizia e dell'ingiustizia. Il concetto di giustizia, e la sua relazione con le nozioni associate di democrazia, uguaglianza, cittadinanza e diritti civici, ha assunto un senso nuovo nel contesto contemporaneo, e questo a causa di molte ragioni: vi si ritrova, fra l'altro, l'intensificazione delle ineguaglianze economiche e la polarizzazione spaziale, associate alla mondializzazione neoliberale e alla nuova economia, insieme alla diffusione transdisciplinare della prospettiva spaziale critica. Il termine specifico di "giustizia" ha acquisito uno statuto privilegiato nell'immaginario pubblico e politico, in rapporto a delle alternative come "libertà" (che ha oramai delle forti connotazioni di conservatorismo), "uguaglianza" (a causa delle politiche culturali odierne assai sensibili alla differenza) o "Diritti dell'Uomo universale", visti come staccati da ogni contesto storico e geografico.
La giustizia nel mondo contemporaneo è arrivata ad essere considerata come più concreta, meglio fondata rispetto alle sue alternative, maggiormente in grado di rispondere alle condizioni attuali e di essere investita di una forza simbolica suscettibile di attraversare efficacemente le divisioni di classe, di razza e di genere, per investire una coscienza politica collettiva ed un senso di solidarietà basato su un'esperienza largamente condivisa. La ricerca della giustizia è diventata un potente grido di battaglia ed una forza di mobilitazione di nuovi movimenti sociali e nuove coalizioni che abbraccino l'insieme dello spettro politico e che estendino la portata del concetto di giustizia  a nuove forme di lotta  e di attivismo, al di là dei domini tradizionali del sociale e dell'economico. Oltre alla giustizia spaziale, altre combinazioni sono apparse: giustizia territoriale, razziale, ambientale, monetaria; giustizia per i lavoratori, per i giovani, per la sfera locale, per quella globale, per le comunità, per la pace, per le frontiere, per i corpi.
La combinazione dei termini "giustizia" e "spaziale" apre un nuovo campo di possibilità per l'azione politica e sociale, come per la teoria della società e della ricerca empirica, che non sarebbero così evidenti se i due termini non fossero associati.
Una ricognizione geostorica sul concetto di giustizia spaziale ci riporta alla citta greca e all'idea aristotelica che l'essere politico è essenzialmente un essere urbano; possiamo da qui seguire l'ascesa della democrazia liberale ed i tempi delle Rivoluzioni, per fermarci alla fine sulle crisi urbane degli anni 1960. La Parigi degli anni '60, in particolare a causa della copresenza (ancora oggetto di studio) di Henri Lefebvre e di Michel Foucault, è diventata il terreno più fertile per lo sviluppo di una concettualizzazione radicalmente nuova dello spazio e della spazialità come concetto di giustizia specificamente radicato nello spaziale e nell'urbano. La sintesi di questo concetto risiede nell'appello di Lefebvre a riprendere il controllo della nostra città e il nostro diritto alla differenza. Questo procedere sulla strada della prospettiva spaziale critica è stata sviluppata e deviata da David Harvey, nel suo "La giustizia sociale e la città", pubblicato nel 1973. In questo libro, come in tutto quello che ha scritto poi, Harvey sceglie di utilizzare il termine di "giustizia territoriale", preso in prestito dall'urbanista gallese Bleddyn Davies, ma non ha mai utilizzato esplicitamente il termine di giustizia spaziale per esporre la sua teoria della spazialità della giustizia. Per mezzo delle sue "formulazioni liberali", Harvey ha fatto avanzare la concettualizzazione della giustizia e la prospettiva che da allora ha influenzato tutto il dibattito anglofono sulla giustizia e sulla democrazia. Nonostante sia stata riconosciuta l'importanza del contributo di Lefebvre all'elaborazione di una filosofia marxista dello spazio, il marxismo di Harvey si è allontanato dalle questioni di causalità spaziale e dall'importanza da assegnare alla giustizia in quanto tale. Harvey ha menzionato solo raramente, dopo, il termine di giustizia sociale, anche se la nozione di urbanizzazione dell'ingiustizia è stata ripresa da altri, e benché anche lui stesso sia recentemente tornato a scrivere sul diritto alla città.
La prima menzione esplicita del termine giustizia spaziale si ritrova nella tesi inedita di dottorato del geografo politologo John O'Laughlin, intitolata "Giustizia spaziale e voto nero americano: La dimensione territoriale delle Politiche urbane", tesi sostenuta nel 1973. Dagli anni 1980 fino alla fine del secolo, l'utilizzo del termine lo si ritrova quasi esclusivamente nei lavori di geografi e urbanisti di Los Angeles ... cosa che porta a certe conclusioni.
Recentemente, Los Angeles, e più significativamente il dipartimento di Urbanismo dell'UCLA, è diventato il luogo di un movimento nazionale centrato sulla nozione di Diritto alla Città. A partire da Lefebvre ed altri pensatori che hanno adottato una prospettiva spaziale critica, questo movimento localizzato di è diffuso a livello mondiale durante il Social Forum del 2005, dove è stata proposta una Carta Mondiale del Diritto alla Città.

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fonte: http://laboratoireurbanismeinsurrectionnel.blogspot.it

FOTO:
Existenz Minimum a Hong Kong : vi sono circa 100.000 abitanti che vivono in degli "appartamenti suddivisi", delle "cellule" con una superficie fra i 3 ed i 7 m².
Via Me-Fi e Things Magazine.

venerdì 24 maggio 2013

Gone to Yoknapatawpha

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William Faulkner è debitore, per ogni paragrafo che abbia mai scritto, alla Bibbia e all'alcol. Un'alleanza che si dimostrò oltremodo efficace. Anche il protagonista di Santuario, Popeye, lo scoprì in un bar, mentre si faceva un bicchiere insieme ad un amico. Avvenne la notte in cui una giovane donna gli si avvicinò per raccontargli l'incredibile storia di un impotente, un bullo che viveva nel suo villaggio e che violentava impunemente le ragazze, servendosi di ogni tipo di oggetto. Soprannominato Popeye (occhi sporgenti), era proprio come lo descrive Faulkner, "un ometto piccolo, con un viso cadaverico e capelli neri e occhi come se fossero senza vita, e un naso aquilino, delicato e senza il mento".
Insomma, questo scrittore del sud, dai baffi sottili e dalle maniere affettate, si ubriacava ogni notte, subito dopo aver finito di scrivere; abitudine cui mancò una sola volta, il giorno in cui sua figlia Alabama morì, appena un'ora dopo esser nata. Beveva finché non cadeva privo di sensi, alla ricerca di una sbornia perenne che lo aiutasse a creare, e forse per questo tutte le sue storie si sviluppano a partire da immagini quasi folli che, anziché cedere ad una logica narrativa, innescano eventi sempre peggiori, sempre più orribili, sempre più immersi in quei vapori che mescolano l'alcol alla luce abbacinante del sud, e che cercano la catarsi per mezzo della letteratura, e viceversa. Le mutandine intrise di fango di una bambina, che pendono dai rami di un albero, l'immagine di una donna incinta inseguita lungo un sentiero, un subnormale che gioca davanti ad una staccionata ... fotografie di immagini prive di qualsiasi logica, selvagge, che servono da punto di partenza quasi onirico, insensato, per le sue storie scioccanti.
Ne L'Urlo e il Furore riuscì a raccontare, fra le altre cose, la subnormalità, dando la voce ad un demente e provocando nel lettore uno strano fremito mettendolo faccia a faccia con la follia. Dimostrandosi così, a pieno titolo, parte di quella Generazione Perduta, capace di spezzare la realtà nei suoi vari piani (che, nel suo caso, sono voci, sempre voci); e senza che "Gertrude Stein gli accarezzasse la schiena"!
Perché Faulkner andò a Parigi, ma non se ne innamorò, recando con sé, come unica prova, una folta barba francesizzante. Disprezzò gli ambienti letterari, ossessionato com'era dalla sua propria caricatura di uomo rurale e rispettabile che sognava di ricostruire la sua magione: Rowan Oak, ad Oxford, Mississippi. Voleva tornare a quei tempi di splendore in cui il suo bisnonno, il colonnello William Clark Falkner, scrittore, banchiere e proprietario terriero, faceva delle lunghe passeggiate a cavallo, e gli abitanti del luogo si levavano il cappello, al suo passaggio.
Preferì isolarsi per poter rileggere, anno dopo anno, "Don Chisciotte" e, alla fine, si spense, ubriaco perso, quando ormai non era neanche più in grado di percorrere, nell'arco dello stesso giorno, tutti gli ettari di terra che, ossessivamente, era riuscito a rimettere insieme, nel suo Mississippi. Mori di un attacco di cuore e con la sua morte chiuse per sempre - chiudendovisi dentro - quel cerchio che per tutta la sua vita non aveva mai smesso di continuare a tracciare intorno alla contea di Yoknapatawpha. Un mondo immaginario.

giovedì 23 maggio 2013

Il Successo

cezanne

Ci fu una volta che alcuni amici di Cezanne intesero fargli una sorta di festa, un omaggio, a sorpresa, a casa sua. Il pittore li guardò inorridito e comincio a correre, letteralmente, uscì dalla casa dove viveva, lasciando un quadro incompiuto. Scappò, senza portarsi dietro niente. Chi erano i suoi amici? Altri pittori. Grandi pittori impressionisti, artisti con cui aveva condiviso varie esposizioni, persone che realmente lo apprezzavano e lo stimavano. Ma lui pensò immediatamente che lo stessero pigliando per il culo, che gli stessero giocando una burla. Mise una croce su di loro, e non ne volle più sapere. Non rivolse mai più loro la parola. Fuggì perfino da Parigi. Ritornò nella sua città natale, una piccola cittadina di provincia dove era ignorato e, quando la fama lo raggiunse, venne attaccato, respinto, dai suoi concittadini che diffidavano del suo successo tanto quanto ne diffidava lui stesso. Cezanne e i suoi vicini di Aix en Provence si trovavano d'accordo solamente su una cosa: la diffidenza.
Cezanne diventava tanto più solitario e antisociale, quanto più otteneva successo. Fino al punto di distogliere lo sguardo e accelerare il passo ogni volta che incrociava per strada un qualche vecchio amico. Per Cezanne, non si può dire che il successo gli abbia creato dei problemi, ma va detto che il successo era il problema, in sé stesso. E appare assai curiosa anche l'attitudine dei suoi vicini di Aix, che si liberano dei suoi quadri, o li nascondono, negando di avere in casa un suo quadro, proprio quando il pittore comincia a trionfare a Parigi.

mercoledì 22 maggio 2013

formiche

Sabato Expresivo
"Sono sempre stato affascinato dal problema del male, fin da quando, bambino, mi mettevo vicino ad un formicaio, armato di martello, e cominciavo ad uccidere le formiche in modo indiscriminato. Il panico si impadroniva dei sopravvissuti, che cominciavano a correre da tutte le parti; quindi cominciavo a versarci dentro acqua, con un tubo. Inondazione! Mi immaginavo la scena che si svolgeva all'interno: lavori di emergenza, corse, ordini e contrordini per cercare di salvare i depositi di cibo, le uova, la sicurezza della regina, ecc. Alla fine, con una pala, rimuovevo tutto, aprivo grandi buche, caverne, e  distruggevo freneticamente: Catastrofe Generale. Poi mi mettevo a riflettere sul senso generale dell'esistenza e a pensare alle nostre inondazioni e ai nostri terremoti.
Così, finii per elaborare una serie di teorie, e l'idea che fossimo governati da un dio onnipotente, onnisciente ed infinitamente buono, mi parve talmente piena di contraddizioni che non riuscivo a credere che qualcuno la potesse prendere sul serio. Conclusi, elaborando le seguenti possibilità:
1 - Dio non esiste
2 - Dio esiste ed è una carogna
3 - Dio esiste, ma a volte dorme: i suoi incubi sono la nostra esistenza
4 - Dio esiste, ma ha degli accessi di follia: questi accessi sono la nostra esistenza
5 - Dio non è onnipresente: non può stare dovunque
6 - Dio è un povero diavolo, con un problema troppo grande per le sue forze. Lotta contro la materia, come un artista con la sua opera. A volte, riesce ad essere un Goya, ma generalmente è un disastro."
- Ernesto Sábato (1911 - 2011) -

martedì 21 maggio 2013

Librerie e biblioteche

deleuze

Scacco matto!

Duchamp

La storiella, l'ha raccontata Man Ray, e dev'essere davvero andata più o meno così.
Siamo nel 1927 e Marcel Duchamp se n'è andato un'altra volta a giocare a scacchi. Lydie, la moglie, è rimasta sola; si è sposata da poco con quest'artista famoso che ha sovvertito l'ordine dell'arte. Solo che lui, invece di dipingere, sembra vivere solo per il gioco degli scacchi. E' stanca di questa storia, Lydie, e così escogita una vendetta. Incolla, uno ad uno, tutti i pezzi degli scacchi, ciascuno sulla casella dove si trova, pensando al pedone che non è stato mangiato, e che non verrà mai più mangiato nella prossima partita. Dopo aver effettuato con estrema cura tutto il lavoro, Lydie se ne va a letto.
E' tardi, la casa è al buio, quando Marcel torna. Si siede, si accende uno dei suoi sigari e si lascia andare contro lo schienale della sedia, davanti alla scacchiera. Comincia a riflettere. Pensa a come aprire la partita che dovrà giocare la mattina dopo. Vediamo - pensa - forse un'apertura di pedone di re. Si piega leggermente in avanti, verso la scacchiera, e si dispone a portare avanti di due caselle, con la stessa mano con cui tiene il sigaro, il pedone di re. Niente da fare. Il pezzo non si muove. Uno ad uno, li prova tutti, e tutti si rifiutano di essere spostati. Si rifiutano di fare quello per cui sono stati fatti: muoversi da una casella all'altra. Marcel riflette, e conclude: una scacchiera con i pezzi incollati è come un orinatoio nel bel mezzo di un museo!

Duchamp-y-su-fuente

lunedì 20 maggio 2013

foto sbiadite

monna

Era il 1972, e Firenze era tutta lì. Nel quartiere di Santa Croce, dove c'era il carcere delle Murate. Fra Borgo Allegri e l'arco di San Pierino. Fra la sede di Lotta Continua di Via Ghibellina(dopo che aveva fatto finta di essere stata sfrattata per insinuarsi, facendosi ospitare, nella sede anarchica de "Il Vecchio Ponte", e portargli via un po' di militanti - vecchia tattica), e la sede de "Il manifesto" in via Mozza. Potere Operaio, no, stava in San Frediano, in Via dei Serragli. C'erano anche i trotskisti e il Centro di Documentazione (una realtà solo fiorentina) e, alla fine, ci sbarcò anche il Collettivo Jackson. Ma quest'ultima è un'altra storia. Dicevo di Santa Croce, e della sua piazza che era una vera e propria sede politica allargata, all'aperto e non-stop. Vicino, in Borgo Santa Croce c'era il bar di Gastone (che avrebbe avuto un momento di notorietà cittadina, qualche anno dopo, interpretando sé stesso nella scena di apertura di Amici Miei; il bar in cui entra Noiret all'inizio, appena uscito dalla sede de La Nazione. Ah già, c'era anche La Nazione, le cui vetrate venivano sistematicamente infrante da qualche malintenzionato). Sto divagando, e mi rendo conto che è difficile non farlo. Dov'eramo? Ah! In Borgo Santa croce. Ecco, in fondo, proprio all'angolo con Via de' Benci, c'era il Bar Le Colonnine dove spesso si andava a giocare a biliardo, stecca o boccette che fossero, e lì ci ho conosciuto Carlo Monni. Era il 1972 e "il Monna" non aveva ancora girato neanche un film, non aveva partecipato a Televacca, non so bene cosa facesse a livello di spettacoli, certo qualcosa faceva, ma quello era un tempo in cui Alessandro Benvenuti faceva il teatrino dei Giancattivi e Paolo Hendel si divertiva a girare sui pattini con il fil di ferro infilato nella sciarpa, mentre David Riondino cantava solo per pochi intimi. Il bar Le Colonnine, lo si poteva definire un luogo malfrequentato (o benfrequentato, dipendeva dai punti di vista, e di classe), allora. Adesso i biliardi non ci sono più, i biliardi alle Colonnine, non c'è più nemmeno il bar. E' diventato, da tempo, un ristorante per turisti. Oddio, a dirla tutta, praticamente non c'è più nemmeno il quartiere di Santa Croce, come non c'è più il carcere delle Murate. Da ieri non c'è più nemmeno il Monna. Salud!

diari

diari gide

E' curioso che Susan Sontag si occupi cosi tanto di André Gide già nei suoi primi anni da lettrice. Nel settembre del 1948, quando ha solo quindici anni di età, scrive: "Mi sono immersa in Gide un'altra volta" - enfatizzando quel "un'altra volta"  -" che chiarezza, che precisione! Indubbiamente gli proviene dalla propria natura, che non ha paragoni". Giorni dopo, sempre la Sontag, commenta la sua lettura dei Diari di Gide: "Ho finito di leggere questo libro alle due di notte dello stesso giorno in cui l'ho comprato ... Gide ed io realizziamo una comunione intellettuale tanto perfetta che riesco a sentire le doglie del parto per ogni pensiero che lui dà alla luce!"
Questo tragico paradosso del diario, che si trova in Gide, come si trova in Paul Valéry e nei suoi Quaderni, ossia questo annientamento della vita a favore della scrittura, questa canalizzazione della "realtà" verso "l'irrealtà" del racconto privato, personale, "lo straniamento del vivere nella e per la letteratura" - per dirla con Blanchot - finisce per raccontare sempre la stessa storia: la storia della persona che ha speso la propria vita a cercare di scrivere il capolavoro che non è mai riuscito a scrivere! E poi, paradossalmente, invece questo grande libro, questo suo capolavoro finisce per essere proprio il "diario". Il capolavoro è il libro in cui racconta, e riflette sulla ricerca quotidiana di questo capolavoro.

domenica 19 maggio 2013

eretico

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"Qui Dick identifica il suo pensiero con l'idea marxista che la storia sia una dialettica che culminerà nella rivoluzione comunista. In parte, Dick sta tentando di coinvolgere i critici letterari di sinistra, il cui interesse verso il suo lavoro, a partire dagli anni '70, lo intriga e lo innervosisce allo stesso tempo. Mentre, il pensiero di Dick fa già uso di un modello dualistico che interpreta la storia come un conflitto dialettico fra le forze dell'Impero e coloro che combattono per la libertà - la quale, altrove nell'Esegesi, viene descritta come una lotta fra Dio e Satana. Bisogna anche sottolineare come, in Dick, sia frequente pensare il vero cristianesimo come rivoluzionario, e Cristo come una figura rivoluzionaria. In tal modo, recupera il legame storico che spesso ha tenuto insieme movimenti quasi-gnostici di ribellione, come i Catari o l'Eresia del Libero Spirito, e forme di populismo politico insurrezionale e certamente comuniste. Giordano Bruno, uno degli altri eretici da cui Dick è attratto, professava un panteismo carismatico ancora ermetico che per lungo tempo si è legato a forme di insorgenza radicale contro la Chiesa. Ecco perché, in molte piccole città italiane, si trova una statua di Giordano Bruno, spesso eretta dal Partito Comunista locale, che si erge di fronte alla principale chiesa cattolica."

SIMON CRITCHLEY sull'Esegesi di Philip K. Dick

sabato 18 maggio 2013

al bar

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Si conserva, in Argentina, una certa tradizione di scrivere seduti al tavolino del bar. Così, nelle caffetterie di Plaza Dorrego, a Buenos Aires, capitava spesso che si incontrassero Osvaldo Soriano e Jorge De Paola. Uno di fronte all'altro, stavano seduti allo stesso tavolino, ciascuno lavorando sui propri scritti, ignorandosi. Tranne una volta, quando Soriano si trovava sul punto di scrivere il finale di "Triste, Solitario y Final". Era rimasto bloccato, non sapeva come chiudere la storia. Jorge afferrò il manoscritto, lo lesse e decretò: "Il romanzo è finito, e non te ne sei accorto." Soriano lo guardò, mentre gli occhi si riempivano di stupore, come se gli avesse parlato un cane. "Hai scritto un capitolo e mezzo di troppo!" - precisò De Paola. Solo così Osvaldo Soriano riuscì a pubblicare il suo primo romanzo da bar.

venerdì 17 maggio 2013

Trigger & Willie

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Era il 1969,e Willie Nelson si trovava su un palco ad Helotes, Texas. Il concerto era appena finito e Willie aveva appoggiato la sua chitarra, una Baldwin, sul pavimento, quando uno dei suoi musicisti, probabilmente ubriaco, ci camminò sopra, rompendola. Tornato a Nashville, Willie portò lo strumento dal suo amico Shot Jackson, un riparatore di chitarre, per vedere se era possibile farla tornare a suonare. Niente da fare, il danno era troppo grave e sarebbe stato del tutto inutile cercare di aggiustare la chitarra. Vedendo l'amarezza negli occhi dell'amico, Jackson si offrì di vendergli, per 750 dollari, una Martin N-20, una chitarra classica. Nelson ne fu talmente entusiasta che decise di dare un nome a quello strumento; "Trigger", il nome del cavallo di Roy Rogers. Poi chiese a Shot di montare sulla sua nuova chitarra il pickup della Baldwin.

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"Uno dei segreti del mio sound è qualcosa che va quasi al di là di qualsiasi spiegazione. Trigger, la mia vecchia e malconcia Martin, ha la migliore tonalità che io abbia mai sentito provenire da una chitarra (...) Se io prendessi in mano la più bella chitarra costruita quest'anno e provassi a suonare i miei assolo nello stesso preciso identico modo in cui li puoi sentire alla radio, o anche al mio ultimo concerto, finirei per essere sempre e solo una copia di me stesso, ed annoierei tutti. Ma se suono uno strumento che ormai è davvero parte di me, e lo faccio in base al modo che sento essere giusto per me (...) allora riuscirò ad essere sempre originale, l'originale." Trigger ha così finito per diventare uno degli oggetti più preziosi di quelli che Willie possiede, e lui ha continuato sempre a fare di tutto perché la chitarra rimanesse con lui. Appena un anno dopo averla comprata, nel ranch di Nelson scoppiò un incendio e lui rischiò la pelle per salvarla dalle fiamme, trascurando il resto della maggior parte dei suoi averi che si trasformarono in cenere. Nel 1991, quando Willie finì sotto inchiesta, da parte del governo, per evasione fiscale, era assillato dalla preoccupazione che potessero pignorare la sua vecchia amica, così chiese alla figlia, Lana, di prendere Trigger, prima che arrivassero gli agenti del fisco, per portarla nella sua casa di Maui. Quando fu sicuro di essere scampato al pericolo, la fece avere al suo manager che la nascose fino al 1993, quando ebbe finito di pagare il suo debito.

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Uno degli aspetti più caratteristici che riguardano questa chitarra, attiene all'incredibile numero di firme che adornano la sua cassa. La prima firma venne apposta da Leon Russell. Questi chiese a Willie se poteva firmargli la chitarra e quando stava per scriverci sopra con un pennarello, Russell gli domandò se, invece, poteva incidere il suo nome nel legno. Spiegò a Willie che questo avrebbe reso la chitarra ancora più preziosa. Dopo questa prima firma, Trigger è stata firmata da centinaia di persone. Persone di tutti i tipi, colleghi musicisti, atleti, amici.
Un'altra cosa che salta subito all'occhio, guardando la chitarra, sono le sue condizioni; appare quasi martoriata, appena sotto la buca si apre un grosso buco. Fatto sta che, essendo una chitarra classica da suonare con le dita, non è dotata di un batti-penna. Ma Willie suona con il plettro, e dopo oltre quarant'anni se ne possono vedere gli effetti.
In definitiva, si può senz'altro dire che ben pochi chitarristi sono arrivati ad identificarsi fino a tal punto con lo strumento che suonano. E Willie Nelson è andato anche oltre, arrivando a dichiarare che quando Trigger si romperà definitivamente, allora anche lui smetterà di suonare e di cantare. Diversamente, moriranno insieme. Insomma, una vera storia d'amore!

giovedì 16 maggio 2013

nazionalcomunismo

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“Uno dei fenomeni più rilevanti del periodo, è la scoperta della 'Patria' in Unione Sovietica, avvenuta qualche tempo dopo il trionfo del nazionalsocialismo in Germania, ed è stato il risultato di un grave errore di calcolo da parte di Stalin. Egli, in un primo momento, sperava di addivenire ad un accordo con Hitler, come aveva già fatto con Mussolini, nonostante le differenze ideologiche verbali, e sulla base di quella che era la somiglianza dei metodi usati dai partiti del pugno di ferro. Da quando il Duce era stato ricevuto dall'ambasciatore sovietico a Roma, all'indomani del delitto Matteotti, e poi, più tardi, col pretesto della cortesia, le congratulazioni a Mussolini da parte di Rykov, dopo il suo soggiorno a Sorrento (dove Gorky aveva trascorso parte della sua vita), le relazioni fra l'URSS e l'Italia cominciarono a diventare sempre più intime e cordiali. Mussolini non nascondeva la sua discreta ammirazione per Lenin, e gli scambi reciproci fra i due regimi totalitari aumentavano, di pari passo col progredire delle loro relazioni economiche. Nel 1933, l'anno dell'avvento al potere di Hitler, a Maggio, venne concluso un patto commerciale italo-sovietico, seguito a Settembre da un patto di amicizia, non-aggressione e neutralità. Uno squadrone marittimo della flotta sovietica rimase ancorata, ad Ottobre, nel porto di Napoli, e l'anno successivo una delegazione militare italiana venne accolta a Mosca. La Russia effettuò anche un acquisto di navi da guerra in Italia. Telegrammi cordiali da parte di Litvinov, testimoniano ai posteri tale mutua comprensione... Mussolini era lusingato dall'aver stabilito un modello di intesa con i bolscevichi, sopprimendo il comunismo in casa mentre negoziava vantaggiosamente con il cosiddetto stato sovietico. Allo stesso modo, pertanto, Stalin pensava di poter concludere un simile patto con Hitler, sulle rovine del movimento comunista tedesco. Il rinnovo del Trattato di Rapallo lo aveva rafforzato in questa speranza, così come i nuovi crediti concessi dall'industria tedesca all'Unione Sovietica. Ma la canzone cambiò quando il terzo Reich assunse un atteggiamento di ostilità verso il bolscevismo dello stato russo e verso l'esportazione del comunismo. L'intuizione di Hitler, alla fine, prevalse sulla tesi contraria: quella di un punto di vista, condiviso sia dal 'Reichswehr' che dai circoli diplomatici, che opponeva al 'Drang nach Oesten' l'idea bismarckiana di un'alleanza on la Russia. Invano, Stalin incaricò il caucasico David Kandelaki, nominato inviato commerciale a Berlino, di moltiplicare le sue offerte.  Il Führer fece orecchio da mercante e perseverò nel suo attacco alla Russia e all'Internazionale Comunista. Alla fine, Stalin, deluso, non ebbe altra scelta che quella di rivolgersi alla Francia e all'Inghilterra, e alla Lega delle Nazioni, per giocare una partita diversa, e risvegliare nel popolo sovietico la coscienza del dovere patriottico e del pericolo fascista.”

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“Mussolini era stato preso da un così vivo interesse per questa contro-rivoluzione così unica, da dedicarle i commenti che scriveva di suo pugno sul 'Popolo d'Italia'. Dopo la sensazionale esecuzione dei generali, fatta da Stalin, in un suo articolo intitolato 'Crepuscolo' (13 giugno 1937) criticò severamente il regime di Stalin dove "il massacro è all'ordine del giorno e della notte". Ma un mese più tardi, su "Critica Fascista" (15 luglio), in uno studio sul Fascismo di Stalin, considerava che le riforme fasciste di quest'ultimo erano la prova della naturale forza di espansione, e dell'universalità, dell'ideale delle Camicie Nere. E, durante il Processo dei Ventuno, lo stesso Mussolini si chiedeva (Popolo d'Italia del 5 marzo 1938) se "in previsione del crollo del sistema di Lenin, Stalin non fosse diventato segretamente un fascista", e rispondeva che in ogni caso "Stalin sta rendendo un notevole servizio al fascismo, falciando i suoi nemici, dopo averli ridotti all'impotenza". Così facendo, infatti, Stalin falciava non solo i suoi nemici, dichiarati o segreti, presunti o reali, ma anche i suoi "amici", le sue creature, i suoi complici. Nelle sue due ultime esibizioni pseudo-giudiziarie, egli aveva falciato non solo la vecchia guardia del partito ed il fior fiore della gioventù comunista, ma, insieme allo stato maggiore dell'Armata Rossa, tutti i capi del governo sovietico e delle amministrazioni nazionali e locali.”


da:  "Stalin" di Boris Souvarine (estratti dal post-scriptum “La contro-rivoluzione”)

mercoledì 15 maggio 2013

categorie

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“……… e quella che diciamo l’umanità, e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà. Pochissimi gli uomini; i mezz’uomini pochi, che mi contenterei l’umanità si fermasse ai mezz’uomini. E invece no, scende ancora più giù, agli ominicchi: che sono come i bambini che si credono grandi, scimmie che fanno le stesse mosse dei grandi. E ancora più in giù: i pigliainculo, che vanno diventando un esercito. E infine i quaquaraquà: che dovrebbero vivere con le anatre nelle pozzanghere, ché la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre.”

da - Il giorno della civetta (L. Sciascia) -

(cliccare sull’immagine per saperne di più)

permette? André Breton!

breton

La sera del 14 giugno 1935, André Breton camminava, insieme alla moglie, Jacqueline, e ad alcuni amici, lungo il boulevard Montparnasse, diretto alla Closerie des Lilas. Era in uno stato di grande eccitazione, anche se, come sempre, lo nascondeva. Stava pensando all'imminente Primo Congresso Internazionale degli Scrittori per la Difesa della Cultura: sarebbero arrivati scrittori da 14 paesi, e lui aveva il suo discorso pronto. Quando parlava ad una folla, sapeva che poteva "far volare scintille e appiccare incendi".
Vestito, come sempre, con un abito nero, la camicia verde scuro ed una un po' eccentrica cravatta rossa, la sua preferita. Camminava, l'andatura controllata, quasi scivolava. Camminava, gli occhi attenti, lo sguardo beffardo. Erano un gruppo di amici, e si stavano recando al loro Café preferito per il rituale aperitivo; un appuntamento quotidiano che era una cerimonia di fedeltà per il movimento artistico che aveva fondato. Si affrontavano le questioni e venivano introdotti nuovi surrealisti.
Arrivati alla caffetteria, qualcuno si accorse che Ilya Ehrenburg ne stava uscendo. Breton sbiancò. Eppure una vita di abitudine al distacco e alla moderazione gli avevano insegnato che, ad intimidire, servivano assai più il sarcasmo e l'umorismo. La rabbia andava gestita con parsimonia. Ma quando sentì fare il nome di Ehrenburg, non poté fare alto che correre verso quell'uomo.
Quell'uomo che l'anno prima aveva pubblicato un libro in cui accusava gli scrittori francesi di essersi venduti agli interessi capitalisti, riservando proprio ai surrealisti le invettive più feroci, deridendoli in quanto "occupati a studiare la pederastia ed i sogni" mentre "spendono le eredità e le doti delle loro mogli". "Essi preferiscono l'onanismo, la pederastia, il feticismo, l'esibizionismo, e perfino la sodomia" - aveva scritto. Aggiungendo che "l'Unione Sovietica li disgusta perché la gente lavora in quel paese".
Breton si rivolse a Ehrenburg:
"Sono venuto a regolare i conti con lei, signore" - mormorò.
"E chi è lei, signore?" - rispose Ehrenburg.
"Sono André Breton."
"Chi?"
Breton ripeté il suo nome più volte, ed ogni volta che lo ripeteva vi aggiungeva uno degli epiteti che aveva usato Ehrenburg. E ciascuna presentazione era seguita da un sonoro ceffone. Ehrenburg non provò nemmeno a difendersi. Se ne stava lì, cercando di proteggersi il viso con le mani. "Si pentirà di questo" - fu l'unica cosa che riuscì a borbottare.

martedì 14 maggio 2013

mutilazioni

sontag

In una delle pagine del suo diario, quella che corrisponde al 7 settembre del 1962, l'anno in cui sono morti Faulkner e Bataille (a due giorni di distanza l'uno dall'altro); quel 7 di settembre, Susan Sontag scrive sul suo diario alcune annotazioni a proposito della forza di volontà. La forza di volontà è il filo conduttore di tutto il suo diario, ma anche della sua vita e delle sue opere. E Sontag scrive che "Tutti gli eroi di Freud sono eroi della repressione", portando poi gli esempi di Mosè, di Dostoevskij e di Leonardo da Vinci. "Questo è ciò che per lui significa essere eroici", conclude.
Poi, continua: "Lavoro e gioco. L'io contro il corpo pigro. Freud era un formidabile paladino della volontà 'eroica' auto-mutilatrice. La psicoanalisi da lui creata, è una scienza di compiacenza verso il corpo, verso gli istinti, verso la vita naturale - nella migliore delle ipotesi".
Persistere nella lettura, nella visione, nella riflessione, nella scrittura, anche quando il corpo dice, vuole, il contrario. Quando si rifiuta, quando vacilla. I diari sono intrisi della voluttà che porta a compensare l'inadeguatezza (un'inadeguatezza spesso immaginaria, delirante) mettendo in campo la forza di volontà, l'impegno, la disciplina.

lunedì 13 maggio 2013

Opposizioni e giochi di specchi

Juicio Final Hans Memling

Quando si affronta, anche, e soprattutto, politicamente, il concetto di "opposizione", o "contrapposizione", si finisce sempre per dover fare i conti con il binomio "sinistra/destra". Di solito, proprio a causa della sua valenza politica, si colloca la nascita dell'uso di tale contrapposizione a partire da situazioni quali un qualche parlamento inglese o una qualche assemblea che ha avuto luogo durante la Rivoluzione francese. Ma la cosa, a quanto pare, viene da molto più lontano, come si può benissimo vedere dalle immagini di questi dipinti raffiguranti il Giudizio Universale, o finale che dir si voglia!

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Come è ovvio ed evidente, i condannati si trovano tutti da una parte, rispetto a Gesù Cristo, ed i "salvati" dall'altra. Così sembra normale (si potrebbe addirittura usare il termine "legale") che i condannati si trovino alla "mano sinistra" del Signore, ed i salvati alla destra. La mano cattiva, quella funesta, quella, per l'appunto, sinistra ...Però, però c'è un però. La pittura è fatta per essere vista, per essere guardata, e quelli che guardano (nel caso di queste opere di solito esposte sugli altari delle chiese: i parrocchiani) vedono le cose dal lato dello spettatore, ed il lato dello spettatore è speculare. Così, per lo spettatore, la destra diventa la sinistra, e viceversa. E non solo, perché, per chiarire ulteriormente la cosa, bisogna aggiungere che anche per l'autore dell'opera, per il pittore, la mano destra diventa la sinistra. Considerando anche che, nel caso di pittori mancini, il casino aumenta.
Ugualmente, le considerazioni suesposte investono il campo politico, dove la politica dei politici si contrappone alla politica del popolo, allo stesso modo in cui si contrappone il quadro ai parrocchiani. Una contrapposizione di menzogne, le stesse menzogne con cui i politici intrattengono la massa di individui (in attesa che arrivi la morte promessa), e che non servono altro che a dissimulare quelle verità che il popolo (lo spettatore, il parrocchiano) continua a mormorare, e che parla del fatto che gli uni sono uguali agli altri, non importa con che nome - destra o sinistra - si travestano i servi dello stato e del capitale.

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L'unica contraddizione, l'unica contrapposizione vera, allora è proprio quella fra chi sta dentro la pittura e chi ne sta fuori, e la guarda. Quelli fuori dal dipinto, e a cui sempre il dipinto stesso è rivolto, perché vi si oppone, e proprio perché vi si oppone, dentro il dipinto viene rappresentato; si cerca di dargli un nome, si trovano per l'appunto parole come "popolo", mentre, allo stesso tempo, si cerca di dividerlo, dividere gli uni dagli altri, sinistri e destri, bianchi e neri, condannati e salvati. In modo che, come tali, possano rimanere. Nei tribunali, nei salotti televisivi, nei quadri. Nelle loro false opposizioni.

domenica 12 maggio 2013

Campagne

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Difendere il feto!! Proteggere l’embrione!!!

Blues Pericoloso

"You keep on talking 'bout the dangerous blues.
If I had a pistol I'd be dangerous too.
Say, you may be a bully, say but I don't know.
But I fix you so you won't give me no trouble in the world I know.
She won't cook no breakfast, she won't wash no clothes.
Say, that woman don't do nothin' but walk the road.
My knee bone hurt me, and my ankle swell.
Says, I may get better but I won't get well.
Say, Mattie had a baby, and she got blues eyes.
Say, must be the captain, he keep on hanging around.
He keep on hanging around, keep on hanging around."

Parchman post office

Era il 1939, quando l'antropologo Helbert Halpert visitò una prigione nel profondo sud degli Stati Uniti; non importa il nome, per ora. Intendeva conoscere alcuni aspetti del folclore locale. Vi si fermò per due giorni. Durante quel periodo conobbe una detenuta con cui ebbe una breve conversazione:
  "- Nome.
   - Mattie May Thomas.
   - E come si chiama la canzone?
   - Dangerous Blues."

Helbert non le domandò quale fosse stato il suo reato. Sapeva solamente che Mattie May Thomas stava scontando la sua terza condanna. Senza alcun accompagnamento, solo la sua voce, cantò nella Sala del Cucito del carcere il suo Blues Pericoloso. Risuonava come un eco solitario, profondo ed inquietante, la canzone che veniva registrata sul rudimentale impianto di registrazione. Le parole, come lacrime, risalivano direttamente dai recessi più ruvidi dell'anima. Schiette ed immediate, veementi, fino a far rabbrividire anche chi è abituato alla rudezza delle storie che il blues ha saputo raccontare.
Cantò un altro paio di canzoni, "Workhouse Blues" e "No mo' Freedom". Non erano spiritual, e nemmeno canzoni tradizionali, non erano affatto elaborate, ed anche le doti vocali non erano particolari. Tuttavia, nella sua inflessione, come nei suoi giri vocali, c'era molto di più che le semplici note caratteristiche del blues. Veniva fuori un lamento che raccontava una storia - si sentiva la rassegnazione avvolta dentro la delusione - quasi una confessione perversa, la confessione di chi ha commesso un omicidio, forse due, o anche tre, chi lo sa. Il blues era la sua dichiarazione, la prova del suo delitto e anche la sua redenzione. Cantava, e la canzone era come scavare per tirare fuori un tesoro tutto ricoperto di terra, la terra delle voci dei tanti testimoni muti, le voci di chi ha subito centinaia di anni di schiavitù e sottomissione. Veniva fuori, alla luce, quando meno te lo aspetti, dove meno te lo aspetti, il blues. Per questo è pericoloso.

Parchman-Sala-de-Costura

"Continui a parlare del blues pericoloso
Se avessi una pistola anch'io sarei pericolosa.
Potresti essere uno tosto, ma io questo non lo so
Perciò ti sistemo così non mi darai problemi nel mondo che conosco.
Lei non vuole cucinare e non vuole lavare i panni.
Dici che quella donna non fa nient'altro che andarsene in giro
Mi fanno male le ginocchia, ed ho le caviglie gonfie
Dice, potrei stare meglio ma non voglio farlo.
Tu dici, Mattie ha avuto una bambina con gli occhi azzurri
Tu dici, potrebbe essere del capitano, lui gira qui attorno
Lui gira qui attorno, gira qui attorno."

"... Sei mesi non sono una condanna. Tesoro, nove anni non sono niente. Ho una collega che è entrata in prigione a 14 anni e c'è rimasta fino ai 29. Il carcere è stato il mio inizio; il penitenziario si avvicina ad essere la mia fine. La sedia elettrica sembra sia troppo, per me. E voglio dirtelo, tesoro: se non ti piaccio, ci sono cose tue che nemmeno a me piacciono"

Mattie May Thomas non registrò mai più niente. Nessun produttore pensò di dover scommettere sulla carriera discografica di una detenuta. E così sparì, letteralmente, nel nulla. Nel sud, in tutti i sud del mondo, le cose funzionavano, e funzionano, in modo diverso ...
Ah, dimenticavo, la prigione era quella di Parchman, Mississippi, tutt'ora attiva.

sabato 11 maggio 2013

Memoria

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La Retirada non segna affatto la fine della guerra civile spagnola. Al loro arrivo in Francia, gli oppositori della dittatura di Francisco Franco riprendono subito la lotta contro quel regime. Non si fermeranno per trent'anni, senza mai smettere di denunciare il franchismo ed i suoi crimini, cercando in tutti i modi di porvi fine. In modo diverso e seguendo strade diverse, a partire dalla loro storia politica e secondo i tempi e le circostanze, parteciperanno alle manifestazioni di protesta, faranno propaganda, organizzeranno quelle azioni volte al sostegno di quanti sono rimasti in Spagna, a lottare. Ma questa lotta non è stata monopolio degli spagnoli. L'anti-franchismo è stato un crogiolo in cui hanno confluito antifascisti spagnoli e francesi che, mentre si battevano contro il regime di Franco, ne denunciavano le collusioni con il governo francese. Quasi tutte le città della Francia, soprattutto le città della Francia del sud, terra d'esilio per gli spagnoli, hanno visto sfilare questi cortei cosmopoliti, più o meno numerosi, più o meno animati e combattivi, secondo i diversi momenti storici.
Ma la storia ha sepolto questi episodi, ha zittito questa memoria, con il suo silenzio e la sua mancanza d'interesse. Diversamente, la cultura dell'esilio è rimasta associata all'antifranchismo, ed oggi continua ad essere supportata da numerose associazioni di esiliati, costituite principalmente dai figli e dai nipoti di coloro che varcarono la frontiera nel 1939. In tutto il sud della Francia, questa trasmissione della memoria continua ad essere assicurata e trasmessa da alcune istituzioni locali.
Perché, dimenticare significherebbe accettare di essere sepolti sotto il peso di una tripla sconfitta: quella della guerra, quella dell'esilio e quella dell'oblio. Significherebbe azzerare la storia di tutti quei militanti per inchiodarla al loro status di sconfitti, dimenticando così anche il senso del loro esilio ed il significato politico che queste lotte hanno avuto, e continuano ad avere. Per continuare, per capire, per continuare a capire.