sabato 31 agosto 2013

Chiaro di Terra

breton - plutot-la-vie

Piuttosto la vita come uno sfondo di disprezzo
Per questa testa bella abbastanza
Come antidoto a questa perfezione che chiama e teme
La vita, il belletto di Dio
La vita, come un passaporto vergine
Una piccola città come Pont-à-Mousson
E considerato che è già stato detto tutto

Piuttosto la vita


- André Breton -

venerdì 30 agosto 2013

Denaro senza valore!

kurz - robertkurz

Prefazione a "Geld ohne Wert", di Robert Kurz 

- di Anselm Jappe -

E' trascorso più di un anno da quel 18 luglio del 2012, quando, in seguito ad un errore medico, Robert Kurz è morto, all'età di 68 anni. Una morte prematura che ha interrotto un immenso lavoro durato più di 25 anni. Nato a Norimberga, dove ha trascorso tutta la sua vita, Kurz partecipò alla "rivolta degli studenti", al cosiddetto "1968", e alle discussioni che ne seguirono all'interno della "nuova sinistra". Dopo una brevissima adesione al marxismo-leninismo, e senza mai aderire ai "Verdi", nel 1987 fondò la rivista "Marxistische Kritik", ribattezzata dopo qualche anno "Krisis". La rilettura di Marx proposta da Kurz e dai suoi compagni (fra cui, Roswitha Scholz, Peter Klein, Ernst Lohoff e Norbert Trenkle) non creò loro molti amici nella sinistra radicale, dal momento che ne attaccava, uno dopo l'altro tutti i dogmi, dalla "lotta di classe" al "lavoro", rimettendo in discussione gli stessi fondamenti della società capitalista: valore di mercato, lavoro astratto, denaro e merce, stato e nazione. Ne "Il collasso della modernizzazione", scritto nel 1991, afferma che, nel momento stesso del "trionfo occidentale", conseguente alla fine dell'Unione Sovietica, i giorni della società del mercato mondiale sono contati, e che la fine del "socialismo reale" è stata solamente una tappa. Collaboratore regolare di importanti giornali, soprattutto in Brasile, Kurz sceglie di rimanere al fuori delle Università e delle altre istituzioni del sapere, procurandosi da vivere per mezzo di un lavoro proletario (autista di taxi per 7 anni e, soprattutto, presso una tipografia dove lavorava la notte all'imballaggio del giornale locale). La dozzina di libri e le centinaia di articoli che ha pubblicato, si situano, grosso modo, su due livelli: da una parte, un'elaborazione teorica di fondo, soprattutto costituita da lunghi saggi apparsi su Krisis e su Exit!; dall'altra, un commento continuo all'aggravarsi della crisi del capitale accompagnata da un'investigazione sul suo passato.
Da più di 25 anni, anche durante il momento di un'apparente vittoria definitiva del capitalismo nel corso degli anni 1990, Kurz sostiene, sulla base di una lettura rigorosa di Marx, che le categorie di base del modo di produzione capitalista si si trovavano sul punto di perdere del tutto il loro dinamismo, e di raggiungere quello che è il loro "limite storico": non si produce più abbastanza "valore". Ora, il valore (che contiene il plus valore e, dunque, il profitto), espresso in denaro, è il solo fine della produzione capitalista - la produzione di valore d'uso è solo un aspetto secondario. Il valore di una merce è dato dalla quantità di "lavoro astratto" necessario alla sua produzione, cioè di lavoro in quanto puro dispendio di energia umana. Meno lavoro contiene una merce, meno "vale" (e il lavoro deve corrispondere al livello di produttività stabilito ad un dato momento: 10 ore di lavoro di una tessitoria artigianale possono "valere" un'ora quando si produce in dieci ore quello che una tessitoria industriale produce in un'ora). Il capitalismo vive, fin dal suo inizio, questa contraddizione: la concorrenza spinge il capitalista a sostituire il lavoro vivo con delle macchine che gli assicurano un vantaggio immediato sul mercato (prezzi di vendita più bassi), ma, così facendo, è la massa tutt'intera del valore che va a diminuire, mentre le spese per investire in tecnologia - che non creano valore - aumentano. Di conseguenza, la produzione del valore rischia continuamente di strangolarsi da sé sola e di morire per mancanza di profitto. Il profitto - la faccia visibile del valore - a lungo andare, è possibile solamente in un regime di accumulazione. Per molto tempo, l'espansione interna ed esterna della produzione di merci (verso altri paesi del mondo ed all'interno della società capitalistica stessa) è riuscita a compensare il diminuito valore di particolari merci. Ma a partire dagli anni 1970, la "terza rivoluzione industriale", quella della micro-informatica, ha cominciato a rendere superfluo il lavoro, in proporzioni tali da vanificare qualsiasi meccanismo di compensazione. Da allora, il sistema del mercato sopravvive essenzialmente grazie al"capitale fittizio", cioè grazie ad un denaro che non è affatto il prodotto della creazione di un valore ottenuto per mezzo dell'impiego produttivo della forza-lavoro, ma che viene creato dalla speculazione e dal credito, e che ha per base nient'altro che dei profitti futuri ancora da realizzare (sempre più giganteschi e impossibili da realizzare).
kurz - Labor creates

Secondo Kurz, questa teoria della crisi ineluttabile è presente in Marx, ma in modo frammentario ed ambiguo (nel "frammento sulle macchine" dei Grundrisse c'è il passaggio più significativo): l'accumulazione del capitale non è un processo stabile che può continuare all'infinito, e al quale solo la "lotta degli oppressi" potrebbe mettere fine; così come ha proclamato tutto il marxismo dopo Marx. Kurz dimostra che la "teoria del crollo", lungi dall'essere oggetto di largo consenso presso i marxisti, è stata piuttosto un "serpente di mare": alcuni teorici si accusavano vicendevolmente di appoggiarvisi, ma nessuno ammetteva che il capitalismo potesse andare a sbattere contro i suoi propri limiti prima che avesse luogo una rivoluzione proletaria. Le sole teorie che hanno analizzato questo limite (quella di Rosa Luxemburg ne "L'accumulazione del capitale", 1912, e quella di Henryk Grossman ne "Il crollo del capitalismo “. La legge dell'accumulazione e del crollo del sistema capitalista", 1929) restano, secondo Kurz, a mezza strada e non esercitano alcuna reale influenza sul movimento operaio. Kurz presenta perciò la sua teoria della crisi come una novità assoluta, resa possibile dal fatto che il limite interno alla produzione di valore, previsto sul piano teorico da Marx, è stato realmente raggiunto negli anni 1970. Da qualche anno, dopo essere stata negata per molto tempo anche a sinistra, questa crisi è esplosa alla luce del sole. Ma per Kurz, le spiegazioni che attualmente vengono date dagli "economisti di sinistra" (neo-keynesiani, a dire il vero), che riconducono la crisi al sotto-consumo, hanno le gambe corte.Non ci sono soluzioni possibili all'interno del quadro della società di mercato, la quale non riesce più ad entrare nella camicia di forza del valore, dal momento che le tecnologie hanno reso quasi interamente superfluo il lavoro umano. Nel momento in cui ciascuna merce non contiene che delle dosi "omeopatiche" di valore - e dunque di plus-valore, e dunque di profitto - anche se non cambia niente per quel che attiene alla sua (eventuale) utilità per la vita, questa situazione si rivela mortale per un modo di produzione basato sul valore; e in una società totalmente sottomessa all'economia, un tale crollo rischia di piombare la società intera nella barbarie.
Analizzando in dettaglio l'evoluzione della crisi, Kurz legge le statistiche ufficiali e prova che, ad esempio, la Cina non salverà affatto il capitalismo, che la ripresa tedesca è basata, come tutto il resto, su dei nuovi debiti, che dopo la crisi del 2008 non si è fatto altro che spostare i "crediti tossici" dal settore privato verso gli Stati e che i servizi sono generalmente dei settori improduttivi (nel senso che non producono valore) e non possono sostituire i posti di lavoro persi nell'industria, ecc. Né i "programmi di rilancio" neo-keynesiani  né le cure di austerità hanno alcuna possibilità di risolvere la crisi, e meno che mai le proposte per creare nuovi posti di lavoro: il problema di fondo - ma anche la ragione di sperare! - è costituito dalla "fine del lavoro".
Lavoro e valore, merce e denaro non sono aspetti eterni della vita umana, ma invenzioni storiche relativamente recenti. Noi, attualmente, stiamo vivendo la loro fine - che non avverrà in un giorno, evidentemente, ma nello spazio di qualche decennio.
La finanziarizzazione dell'economia e la speculazione, lungi dal costituire le cause della crisi, hanno contribuito a lungo ad allontanarla, e continuano in tale compito. Ma così facendo, si accumula un potenziale di crisi ancora più grande, con la possibilità di un'esplosione inflattiva mondiale gigantesca, segno della svalorizzazione del denaro in quanto tale. Dare la colpa ai "banchieri" o ad una sorta di cospirazione neo-liberista, come fanno praticamente tutti i critici di sinistra, significa, secondo Kurz, significa semplicemente evitare perfino di sfiorare il problema, ecco perché rimane sostanzialmente scettico riguardo al potenziale emancipatorio dei nuovi movimenti di protesta. Kurz accusa la sinistra di non voler realmente uscire dal quadro capitalista, che essa considera, di fatto, come eterno. Per cui, propone solamente una distribuzione "un po' più giusta" del valore e del denaro, senza tener conto del ruolo negativo e distruttivo di tali categorie, né del loro esaurimento storico. Anziché correre dietro ai movimenti di contestazione ed adularli, Kurz oppone loro, costantemente, la necessità di riprendere una critica anti-capitalista radicale (non solo nelle sue forme, ma anche nei contenuti). Non basta cambiare il personale di gestione: il capitalismo è un sistema feticistico e incosciente che si regge sul "soggetto automatico" (l'espressione è di Marx) della valorizzazione del valore.

kurzmarx-bill 

Kurz non pretende affatto di ristabilire "quello che Marx ha veramente detto", ma cerca di approfondire il lato più radicale ed innovatore del suo pensiero. Una parte dell'opera di Marx (quella che Kurz chiama il "Marx essoterico") rimane sul territorio della filosofia borghese illuminista e del suo credere nel progresso e nei benefici del lavoro. E' quell'altra parte, quella rimasta minoritaria e frammentaria, quella del "Marx esoterico" che ha messo in atto una vera e propria rivoluzione teorica che nessuno, per più di un secolo, ha saputo né comprendere né continuare. Questi differenti aspetti, in Marx, sono strettamente legati - non è questione di "fasi" successive - per cui Kurz non si propone né di "interpretare", né di "correggere", ma di riprendere le sue intuizioni più feconde, anche se queste implicano un'opposizione con altre sue idee. Il "tutto" non è semplicemente la somma degli elementi particolari, ma esso possiede una qualità sua propria: gli elementi particolari non sono quel che appaiono essere al primo colpo d'occhio, come nella visione empirica, ma rivelano la loro vera natura solo quando vengono compresi come parte del tutto. Qui, non si tratta di considerazioni metodologiche rese in maniera astratta, ma di perseguire un obiettivo preciso: non si tratta di analizzare (come fa Marx stesso, per lo meno nel primo volume del Capitale) la struttura di un capitale particolare - ancor meno un capitale "ideale" - per poi concepire il "capitale totale" come aggregazione di questi capitali particolari, che non farebbe altro che riprodurre la struttura del capitale particolare. Allo stesso modo, la merce particolare non è analizzabile che in quanto parte della massa totale delle merci. Nel primo capitolo del Capitale, Marx analizza la merce ed il suo valore, in modo del tutto logico. Da qui all'esistenza del denaro e, qualche passo in più, arriva al capitale. Ma tale successione logica riflette anche una successione storica? Marx non è chiaro in proposito, e sembra esitare. Per il vecchio Engels, e per i successivi marxisti, la scelta è fatta: la logica corrisponde alla storia. Per migliaia di anni avrebbe avuto luogo una "produzione di semplice merci", senza capitale. Poi gli uomini avrebbero cominciato ad attribuire a tali merci, un valore, sulla base del lavoro speso per fabbricarle. E anche il denaro esisterebbe da tantissimo tempo, ma prima serviva solo a facilitare gli scambi. Il capitalismo sarebbe "arrivato" solo quando il denaro si è accumulato fino al punto di diventare capitale, trovandosi davanti la forza-lavoro "libera". Questo genere di approccio - protesta Kurz - finisce per naturalizzare, ed ontoligizzare, il valore ed il lavoro, trasformandoli in condizioni eterne di tutte le società. Cos' facendo, anche la società post-capitalista si ridurrebbe a qualcosa che dovrebbe realizzare "l'applicazione cosciente della legge del valore", come dire una sorta di "mercato senza troppo capitalismo". Kurz, attingendo alla "nuova lettura di Marx" fatta in Germania dopo il 1968 da alcuni allievi di Adorno (Hans-Georg Backaus; Helmut Reichelt), sottolinea come, nella sua analisi della forma-valore, Marx esamini le categorie di merce, lavoro astratto, valore e denaro così come esse si presentano in un regime capitalista realizzato "che cammina sulle sue proprie gambe". Ragion per cui, si tratterebbe di una ricostruzione concettuale, che parte dall'elemento più semplice (la forma di merce semplice) per arrivare alla genesi "logica" del denaro, in cui l'esistenza del capitale - che appare come "conseguenza" della deduzione - è in realtà un "presupposto" dell'analisi, e le tappe intermedie della costruzione marxiana (quali "la forma-valore sviluppata" o lo scambio di merci senza la mediazione della merce-denaro) sono semplici tappe della dimostrazione e non corrispondono a niente di reale. Senza l'esistenza della merce-denaro, i valori non possono rapportarsi gli uni agli altri, in quanto valori e, quindi, una produzione di merci senza denaro non può esistere. Il valore (quantità di lavoro astratto) esiste solo dove ci sono denaro e capitale. Niente valore senza denaro. Niente denaro senza capitale.
L'obiezione, da più parti, ovviamente è quella che argomenta che commercio, mercati e il conio esistono da millenni e, quindi, il valore sarebbe sempre esistito; ed anche il denaro, a partire da una certa epoca, anche se serviva solo per lo scambio di beni eccedenti, ma la struttura era la stessa di quella attuale. Poi, soprattutto alla fine del Medio Evo, la crescita graduale di questi scambi avrebbe portato alla formazione del capitale.
Secondo Kurz, un marxismo che ragioni così non si distingue affatto dalla scienza borghese e dal suo approccio positivista che considera solo quelli che sono dei fatti isolati. Quando vede un uomo che scambia un sacco di grano con una pepita d'oro - che questo avvenga nell'antico Egitto, nel Medio Evo o al giorno d'oggi - conclude che si deve trattare della medesima cosa: merce contro denaro, perciò commercio, perciò mercato. Ma i fatti empirici non dimostrano un bel niente senza una "critica categorica" che situi tali fatti nel loro contesto. Il denaro precederebbe il valore? Ma quale denaro? Il denaro, in senso capitalistico, segue alla diffusione delle armi da fuoco (N.d.r. Vedi qui il capitolo "Economia Politica delle armi da fuoco") a partire dalla fine XIV secolo. Quello che a noi sembra essere denaro, nelle società pre e non-capitaliste, aveva piuttosto una funzione sacrale che nasceva dal "sacrificio" ed era un'altra forma di feticismo. C'era evidentemente produzione e circolazione di beni, ma non "economia", "lavoro", o "mercato", neppure in forme rudimentali o poco sviluppate (afferma Kurz, in opposizione a Polanyi, del quale tuttavia approva molte altre analisi). Rifacendosi a Jacques Le Goff, il quale nega l'esistenza di un "denaro" nel Medio Evo, afferma che il denaro pre-moderno non aveva niente del "valore", in quanto la sua importanza non derivava dal fatto di essere una rappresentazione, quantitativamente determinata, di una "sostanza" sociale generale (come il lavoro nella società moderna). Il capitalismo non è, per Kurz, un'intensificazione delle forme sociali precedenti, ma ne costituisce una violenta rottura.

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Alla fine della sua vita, e della sua opera, Kurz si è chiesto se stiamo andando verso un "denaro senza valore", dal momento che la massa nominale di denaro presente nel mondo (comprese le azioni, i prezzi immobiliari, i crediti, i debiti, i prodotti derivati finanziari) aumenta senza sosta, mentre quello che il denaro dovrebbe rappresentare (il lavoro) si riduce a delle porzioni sempre più piccole. Il denaro non ha praticamente più alcun valore "reale", per cui una gigantesca svalutazione di tale denaro - sotto forma di inflazione - sembra essere inevitabile. Dopo secoli, durante i quali il denaro ha svolto il suo ruolo di mediazione sociale su una scala sempre più elevata, la sua svalutazione - non organizzata, ma subita - provocherà una gigantesca regressione sociale e l'abbandono di una gran parte di quelle attività sociali che non sono più redditizie. La fine della traiettoria storica del capitalismo rischia di riportarci ad un ritorno al "sacrificio", ad una barbarie post-moderna, come ci ricordano i "tagli sulla sanità pubblica" che assomigliano assai più di quanto si possa pensare ai sacrifici umani praticati, nell'antichità, per calmare degli dei furiosi.
Ora, paradossalmente ed ironicamente, tutto questo avviene quando ormai il "movimento operaio" ed i suoi intellettuali hanno completamente interiorizzato il "lavoro" ed il "valore", ed il loro orizzonte da tempo non va oltre l'integrazione degli operai, e di tutti gli altri gruppi subalterni, dentro la società di mercato, fidando che si tratti ancora di una crisi "ciclica" o "di crescita" del capitalismo. E' dura per loro accettare che stiamo vivendo la fine di una lunga epoca storica, dove non sappiamo se il futuro sarà migliore, oppure cadremo in una situazione dove la grande maggioranza dell'umanità non sarà utile nemmeno più per essere sfruttata; diventata ormai del tutto superflua alla valorizzazione del capitale.
Meglio rifugiarsi nell'illusione che ci sono solo alcuni malvagi speculatori che vogliono i nostri soldi e che lo Stato alla fine ristabilirà la giustizia per il popolo!!

Anselm Jappe - Prefazione a "Geld ohne Wert", di Robert Kurz -


giovedì 29 agosto 2013

a casa

mann klaus
E' il 10 maggio del 1945. In Europa, la guerra è finita da due giorni e Klaus Mann, il figlio dello scrittore Thomas Mann è ancora al servizio dell'esercito americano. Considerata la sua conoscenza del tedesco, ed il suo lavoro come scrittore nella vita civile, il tutto unito alla sua inadeguatezza al mestiere di soldato, è stato inviato in Germania in qualità di corrispondente del giornale militare "Stars and Stripes". Mann entra a Monaco, la sua città natale, su una jeep militare guidata da John Tweksbury, suo amico e fotografo, diretto verso Poschingerstrasse, dove si trova la casa della famiglia Mann; una e vera e propria istituzione della letteratura tedesca che i membri della famiglia chiamano affettuosamente "Poschi".
Era di fronte alla sua casa natale, dodici anni dopo averla abbandonata per intraprendere il cammino dell'esilio, con indosso l'uniforme del nemico. Nel suo articolo su Stars and Stripes scrive di essersi sentito come davanti ad una perversa caricatura del suo proprio passato. La facciata della casa era rimasta più o meno intatta, ma dietro di essa si intravvedevano le pareti annerite ed i cristalli infranti a causa dei bombardamenti; il contributo degli alleati al suo destino.
Ma nella parte ancora rimasta in piedi della casa, si poteva apprezzare anche il contributo dato dai nazisti. Klaus Mann si aprì la strada fra la cenere ed i detriti: "c'erano pareti e porte che non avevo mai visto prima, tutte le stanze erano diventate più piccole, come se il disgusto e l'avversione le avessero indotte a ridursi. Lo studio di mio padre, un tempo spazioso e rispettabile, pareva stranamente rimpicciolito."
thomasmannhaus
Era successo che la polizia politica bavarese aveva confiscato l'edificio nel 1934 e l'aveva dichiarata ufficialmente proprietà del Reich nel 1937. Da quel momento erano cominciati i lavori che avevano innalzato nuove pareti, per dotarla di nuove stanze, ed avevano suddiviso le camere spaziose in una sorta di piccole celle. Klaus Mann non avrebbe tardato a scoprirne il motivo, ma per rievocare adeguatamente la scena, vale la pena di andare a rileggere la sua straordinaria autobiografia, "La svolta":
"Ad un tratto scoprii la ragazza sconosciuta. Si trovava sul balcone che era di fronte alla mia stanza, senza muoversi, leggermente accovacciata dietro la balaustra. Era sicuramente rimasta lì per tutto il tempo e da lì aveva osservato i miei movimenti. La salutai con la mano, ma lei non reagì, si immobilizzò come pietrificata, come se pensasse di non essere stata scoperta. Aveva paura di me? Senza dubbio, vestivo la divisa del nemico."
Poschi_1945_SNaef
Alle domande rassicuranti di Klaus Mann, la ragazza cominciò a spiegare che viveva sul balcone, sopra il quale aveva steso dei fogli di giornale, sperando che non piovesse. Era un'alpinista, così aveva improvvisato un scala molto precaria sulla facciata posteriore della casa per poter raggiungere il suo piccolo rifugio. Guidato da lei, non senza aver rischiato di rompersi il collo, Mann si arrampicò fino a quella che era stata la sua stanza. La ragazza, che "non aveva più di venticinque o ventisei anni, era però già appassita, la pelle di un colore malaticcio e un cipiglio imbronciato e testardo sotto la frangia". Klaus ne guadagnò gradualmente la fiducia, senza però mai rivelare all'intrusa che quella casa era stata la sua. La giovane gli raccontò con assoluta naturalezza che la casa era appartenuta ad uno scrittore. "Sicuramente un non-ariano", suppose, scrollando le spalle. "O forse addirittura un ebreo totale. In ogni caso, non si era ben inteso col suo governo." - aggiunse poi. Continuò dicendo che Himmler aveva scelto la vecchia Poschi come sede di una delle sue scabrose "fonti di vita", i cosiddetti Lebensborn:
"Ma davvero non sa cosa significa?" - gli domandò - "Robusti ragazzi delle SS stavano acquartierati qui. Gente molto bella, glielo assicuro: autentici stalloni. E proprio per questo li usavano, come stalloni, per la razza. Capisce? Questi Lebensborn - ce ne erano molti, per tutto il paese - esistevano per soddisfare i requisiti razziali, per la riproduzione del sangue nordico, per far aumentare la discendenza tedesca. Naturalmente anche le ragazze dovevano essere razzialmente impeccabili, il cranio, il bacino ... Tutto veniva misurato!"
In quel momento, il fotografo invitò Klaus Mann a scendere, perciò lo scrittore si congedò senza aver chiarito quale fosse stata esattamente la relazione della ragazza con quella particolare istituzione creata da Himmler.

mercoledì 28 agosto 2013

Le sardine di Ferré, e quelle di Brassens

In Francia, e non solo, molti sono rimasti scioccati nel vedere in televisione uno spot pubblicitario, per una marca di sardine sott'olio, che aveva come sottofondo musicale una celebre canzone di Léo Ferré, "C'est extra"; cosa che, ovviamente, non poteva avvenire senza il consenso degli eredi beneficiari dei diritti della canzone.
Però, a tal proposito, c'è da riportare una cosa assai curiosa: se si va a riascoltare la celebre intervista del gennaio del 1969, fatta a Ferré, Brel e Brassens, nella parte sopra riportata, si può sentire che, verso il minuto 7:40, si comincia a parlare di soldi. Ed è proprio subito dopo che si può sentire affrontare, per bocca di Brassens, la questione delle ... sardine!!!

Brassens - E' molto sgradevole, questa storia dei soldi. Perché tanti si buttano nella canzone unicamente per quello. Noi siamo molto contenti di guadagnarci da vivere con le nostre canzonette, ma non l'abbiamo fatto con quell'intenzione, l'abbiamo fatto perché ci piaceva. Lo faremmo anche se non ci guadagnassimo nulla! Non avremmo mai venduto sardine sott'olio! Non so neanche se ci si guadagna tra l'altro, se si guadagna di più che a far canzoni.

martedì 27 agosto 2013

Ladro di storie

reperti
Qualcuno ha scritto su Facebook che, secondo lui, i blogger, ed i blog di conseguenza, si dividerebbero in due categorie: quelli che guardano i giornali e quelli che guardano il proprio ombelico, e conseguentemente scrivono, secondo tale ripartizione, degli eventi o di sé stessi. Per quanto mi riguarda, sono portato a credere, invece, che ci sia un altro modo ... un modo per sfuggire ad una simile dicotomia, un po' come nella storiella zen dell'uomo che per sfuggire alla tigre, finisce appeso, su un dirupo, ad una pianta, con sotto un'altra tigre pronto a mangiarselo. La fragola che cresce sul dirupo, nel caso, avrebbe a che a fare con quelli che sono gli archivi della rete: una massa immensa di storie su cui si può esercitare la suggestione. Un po' come quando Charlton Heston, ne "Il pianeta delle scimmie", presso gli scavi proibiti della metropolitana, rimette insieme una vita frugando fra i reperti dissepolti, ed allucinando storie, vite.
Ecco, gemme dissepolte, vecchi giornali, documenti ritrovati, come la valigia finita nelle rete dei pescatori, nel 1940, emersa dal fondo del porto di Barcellona. Un tesoro, in quegli di anni di miseria e di paura; un elenco minuziosamente stilato dalla Capitaneria di Porto di tutti quegli oggetti. Di chi erano? Come sono finiti in fondo al mare? E che storia c'è dietro quella valigia? Apparteneva ad un ebreo in fuga, in attesa di imbarcarsi su una qualche nave che lo avrebbe finalmente portato verso la libertà? Oppure, qualcuno se ne è liberato, dal momento che conteneva delle prove che avrebbero potuto comprometterlo? Invece no, c'è stato un suicidio ed il corpo, di chi aveva con sé la valigia, è rimasto intrappolato nella melma, sott'acqua. Non lo si saprà mai, quasi sicuramente ... come nel caso della valigia che conteneva gli oggetti scritti nell'elenco ... oppure, possiamo ricostruire qualcosa, lasciando qualcos'altro all'immaginazione, come nel caso dell'uomo ritratto in questa fotografia.
reperti 2 Joseph-Wirtz-maldición-8
Si tratta di Josef Wirtz, un tedesco che, nel 1928, decise di stabilirsi a Barcellona, in calle Canova al numero 210. Non si conoscono i motivi del suo trasferimento in Spagna, e con ogni probabilità era quantomeno un simpatizzante nazista, però possiamo sapere che otto anni dopo il suo arrivo a Barcellona, allo scoppio della guerra civile, il consolato tedesco - secondo quanto c'è scritto sul suo salvacondotto - lo mise ufficialmente a capo di una lista che comprendeva "i sudditi tedeschi che arrivavano a Barcellona dalla provincia, per essere imbarcati a bordo delle navi destinate al trasporto degli stessi". Come a dire che a Wirtz toccava organizzare, per quanto possibile, la fuga generale dei suoi compatrioti, dei quali molti appartenevano all'alta borghesia oppure erano nazisti, o entrambe le cose. Motivi per cui avevano da temere l'aggressione anarchica! In una lettera del 16 agosto 1936, alla sorella Helene, Wirtz descrive la situazione:
"Quello che sta accadendo, e che continua ad accadere, in Spagna, è così terribile che non può essere descritto. Non avevo mai creduto che gli spagnoli potessero fare quello che hanno fatto. Qui a Barcellona non si è salvata una sola chiesa, come sicuramente avrai saputo dai giornali. Non si possono più celebrare cerimonie religiose. Dove ci sono i rossi spagnoli non esiste più religione. Lo stesso succede con l'economia, completamente fermata. Alla Spagna serviranno anni per riprendersi da questa lotta. La maggioranza dei tedeschi, così come gli stranieri in generale, hanno abbandonato la Spagna. Di quelli che conosci, sono rimasti solo il signore e la signora Kull, dovuto al fatto che la signora Kull è in procinto di partorire. I suoi figli e la sorella se ne sono già andati. L'emigrazione tuttavia si protrarrà ancora per un mese, perché continua ad arrivare gente dalla provincia. Quasi tutte le imprese tedesche, comprese le più grandi come la Siemens, hanno rimpatriato tutti i loto dipendenti. Se i giorni trascorsi finora sono stati terribili, quelli che verranno saranno ancora peggiori."
E' chiaro che il signor Wirtz aveva paura! Al punto che, in quello stesso giorno in cui scrisse la lettera, decise di improvvisare un testamento, che consisteva di due lettere che consegnò nelle mani di un suo amico argentino, Kristian Westbye; la prima delle due lettere, indirizzata sempre alla sorella, in cui le lasciava le poche proprietà di cui disponeva, mentre la seconda era indirizzata ad una donna di nome Helene Nymoen. Eccola:
" Alla femmina nata col nome di Helene Nymoen, di Lillehammer.
Presagendo che si sta approssimando l'ultima ora della mia vita terrena, rinnovo con la presente la maledizione che un giorno ho lanciato sull'infame donna che, appellandosi alle più sacre leggi della fedeltà, aveva giurato di essere la mia sposa e che non rispettò il suo giuramento.
Rinnovo la maledizione in modo che questa si attivi dalla mia tomba e reclami il suo castigo. Con la stessa sincerità, calore ed ardore con cui ho amato in quei giorni questa donna, ora desidero inviarle la maledizione che la annichilisca insieme a tutti i colpevoli.
Sia maledetta la donna infedele che mi ingannò, maledetto sia il ventre che la partorì e che poi la strappò al mio vero amore, maledetto sia l'uomo che me la portò via, approfittando della sua imperfezione femminile, maledetta sia la sua prole per sempre e maledetti siano tutti quelli che si macchiarono le mani con la sua infedeltà.
Lanciò la maledizione qui sulla terra di modo che il mio spirito possa vigilare su di essa dall'Aldilà, fino a quando non si compia.
Se qualcuno dovesse avere fra le mani questa lettera e non la trasmettesse alla persona cui è destinata, che anche lui venga colpito dalla mia maledizione.
La mia maledizione è potente e si trasformerà in castigo!

Scritto da colui che in vita portava il nome di J.G. Wirtz "
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E' assai probabile che il signor Wirtz sia sopravvissuto alla guerra civile e sia fuggito da Barcellona; anche perché, due anni dopo, qualcuno con il suo stesso nome sorvolò e bombardò la città catalana, con la Legione Condor, lanciando bombe, come prima lanciava maledizioni. Oppure, quello della Legione Condor era solo un omonimo. Chissà! *
* NOTA: Di Joseph Wirtz si fa menzione in "El nazismo al desnudo" (che può essere scaricato e letto qui), pubblicato dal gruppo DAS (anarco-sindacalisti tedeschi) durante la guerra civile.

lunedì 26 agosto 2013

I fiammiferi!!!

fiammiferi

Alla fine del giugno del 1941, le relazioni diplomatiche fra la Spagna e l'Inghilterra vivevano giorni particolarmente difficili: Hitler era appena entrato in guerra contro l'Unione Sovietica, il principale nemico ideologico di Franco, e la cosa, di fatto, metteva gli inglesi nella scomoda posizione di essere gli unici alleati dei "rossi". In questo clima, Ramón Serrano Súñer, decise di approfittare della tensione del momento per organizzare un assalto all'ambasciata britannica a Madrid, che avrebbe dovuto svolgersi in un modo del tutto simile a come i nazisti avevano organizzato il pogrom della "Notte dei cristalli": organizzando l'operazione dall'alto, ma dando, allo stesso tempo, l'impressione che tutto fosse stato il prodotto spontaneo della rabbia popolare.
La mattina del 24 giugno, Serrano tenne in piena strada, davanti alla sede della Falange, un comizio, al termine del quale la popolazione che aveva assistito, adirata, cominciò a disperdersi, spontaneamente, in direzione della calle Fernando El Santo, dove aveva sede l'ambasciata britannica. Casualmente, in quel posto, si trovava parcheggiato un camion carico di sanpietrini e, altrettanto casualmente, nella zona si trovavano numerose autovetture tedesche, i cui occupanti erano muniti di macchine fotografiche. Proprio come era avvenuto nel corso della "Notte dei cristalli" che erano stati allertati i pompieri ( i quali, salvo alcune lodevoli eccezioni, si erano limitati a contemplare gli incendi delle sinagoghe e a proteggere i palazzi degli "ariani" che si trovavano nelle vicinanze), a Madrid venne mobilitata la polizia, la quale si ritirò subito dopo, con la scusa che la manifestazione era già stata sciolta dalla Falange, senza curarsi di quello che poteva accadere con la gente infuriata davanti all'ambasciata.
Non era la prima volta che, a Madrid, le autorità organizzavano una manifestazione cosiddetta spontanea di fronte all'ambasciata inglese. Si racconta che nel corso si una precedente occasione, con una folla chiaramente incline alla violenza che premeva alle porte dell'edificio, l'ambasciatore britannico a Madrid, Sir Samuel Hoare, ricevette una telefonata di cortesia da parte del governatore civile che voleva sapere se doveva mandare più polizia, cui l'ambasciatore rispose: "No, non mandate più polizia. E' meglio se mandate meno manifestanti!"

Samuel Hoare

Ma stavolta l'occasione era assai ghiotta ed esigeva un'azione di maggior effetto. E si sa che qualsiasi manifestazione nazista non è completa senza un qualche tipo di fiamma, di rogo di libri o di sinagoghe. Forse per questo, Serrano aveva come obiettivo che la folla incendiasse, spontaneamente, le automobili con targa inglese che si trovavano davanti all'ambasciata; sicuro che le immagini delle vetture in fiamme avrebbero avuto un effetto particolarmente suggestivo, il giorno dopo, sulle prime pagine dei giornali. E probabilmente tutto sarebbe andato secondo i piani, se non fosse stato per il fatto che l'azione si stava svolgendo in Spagna, e non in Germania! Sir Hoare, nelle sue memorie, attribuisce la cosa al "carattere distratto" degli spagnoli, e forse è così, ma fatto sta che nell'organizzazione dell'evento era stato pensato a tutto, tranne che ... ai fiammiferi! Nel 1941, la Spagna era un paese poverissimo e pare che i fiammiferi, un oggetto fondamentale della vita quotidiana, scarseggiassero. oppure, forse, nessuno dei componenti la "folla adirata" aveva dei fiammiferi con sé - cosa alquanto improbabile, però - oppure, ancora, piuttosto, nessuno era disposto a sacrificarli per un atto di propaganda tanto vistoso quanto inutile. Ragion per cui, andò a finire che le automobili inglesi, benché subissero l'impatto di diversi sanpietrini, sfuggirono al rogo simbolico. E i giornalisti tedeschi che avevano ripreso così coscienziosamente la manifestazione, registrando ogni dettaglio, per poterla mostrare nei notiziari, dovettero fare a meno dell'impatto visivo delle fiamme.
In Germania non sarebbe successo!!!

domenica 25 agosto 2013

Pane avvelenato

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In un film spagnolo che parla della guerra civile, "La hora de los valientes" di Antonio Mercero, si vedono gli aerei franchisti che lanciano pane sulla popolazione di Madrid. Naturalmente, non si trattava di un gesto umanitario, ma di una campagna di propaganda in quanto le pagnotte avevano all'interno un volantino che recitava:
"Questo è il pane della Spagna di Franco, proveniente dai nostri granai per essere condivisio nel giorno della liberazione con i nostri fratelli prigionieri."
Nel film, si assiste anche a quella che fu la risposta repubblicana, sotto forma di trasmissione radiofonica:
"Attenzione, madrileni! Per spezzare la nostra eroica resistenza, aerei ribelli hanno cominciato a lanciare sulla popolazione delle pagnotte avvolte in un'insultante propaganda fascista. Non mangiate di questo pane avvelenato, il pane che arriva nelle vostre mani deve essere consegnato alla stazione di polizia più vicina o al vostro sindacato, codesto è il pane che Franco ci tira come se fossimo dei cani."
Si potrebbe pensare che questa grottesca propaganda, da una parte e dall'altra, fosse un'ingegnosa trovata degli sceneggiatori, ma non troppo tempo fa, a Berlino, in un archivio, venne ritrovata una curiosa lettera, datata 20 ottobre 1938 ed indirizzata al ministro della propaganda nazista, Goebbels. Sulla lettera, firmata da un tale Kröger, uomo di fiducia dell'ambasciata tedesca che era stata stabilita a Salamanca, si legge:
"Riferimento: Propaganda nemica
Al fine di guadagnare alla Causa Nazionale, la popolazione affamata dei territori rossi, ultimamente gli aviatori franchisti hanno lanciato centinaia di migliaia di pagnotte sopra Madrid, Alicante e Barcellona. Le pagnotte, ciascuna avvolta in un sacchetto di carta, sono state lanciate in dei sacchi attaccati a dei paracadute. I sacchetti di carta erano decorati con i colori nazionali della Spagna e recavano la scritta: Non ci interessa come la pensi. Ci basta sapere che sei spagnolo e che soffri. Nella Spagna nazionale, una, grande e libera, non ci sarà una casa senza un focolare, né una famiglia senza pane. E nonostante i governanti rossi annunciassero, in seguito, che queste pagnotte fossero avvelenate e non si potevano mangiare, com'è naturale la popolazione residente nella zona rossa se le mangiò molto allegramente. Un disertore del fronte di Madrid mi ha detto di recente che l'annuncio radiofonico era dovuto solamente al fatto che i leader rossi reclamavano per sé tutto il pane.
"
La lettera, mentre chiedeva se tale forma di propaganda dovesse avere continuità, allegava anche uno dei sacchetti di carta che avvolgeva il pane.
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Un sacchetto di carta, una testimonianza della perversione propagandistica, non importa da quale parte arrivi! Dall'arroganza di un nemico che si vanta di poter sprecare tutto il pane che gli aggrada, alla disperazione di un popolo che per una volta che si vede arrivare dal cielo del pane, anziché delle bombe, e lo mangia chiedendosi se sia avvelenato; non solo ideologicamente. E, cosa più importante, la vittoria non portò affatto quel pane che aveva promesso.

sabato 24 agosto 2013

Fallimenti e Salvataggi

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Un fallimento ben meritato?
di Claus Peter Ortlieb
- maggio 2013 -

Ai primi di Novembre del 2012, Der Spiegel ha rivelato l'esistenza di un rapporto "segreto" della BND, secondo il quale il piano di salvataggio previsto per le banche cipriote avrebbe giovato, in primo luogo, ai detentori di conti correnti sui quali era depositato denaro sporco russo. Oligarchi, imprenditori e mafiosi russi, avrebbero depositato circa ventisei miliardi di euro sui loro conti bancari a Cipro. Dopo aver accuratamente taciuto la questione, i media on-line si sono improvvisamente scatenati a parlare solo di questi ventisei miliardi di euro. Quanto, esattamente, di questi depositi bancari era stato acquisito attraverso mezzi criminali? Chiaramente, proprio a partire dalla natura di questo genere di denaro, non si può sapere. Per cui, tutto il contenuto informativo del rapporto della BND si può dunque riassumere in questa sola cifra: ventisei miliardi di euro sui dei conti russi, di origine indeterminata. Il resto non aveva alcuna importanza, il fine della manovra era stato raggiunto e si poteva scatenare un "dibattito sull'equità".
Lo stesso giorno della pubblicazione della notizia, il gruppo dell'SPD al Bundenstag dichiarava, per bocca del suo portavoce per la politica interna: "Prima che l'SPD dia il via libera al finanziamento degli aiuti per Cipro, bisogna parlare del modello economico di questo paese. Noi non possiamo garantire il denaro sporco russo depositato nelle banche cipriote con i soldi dei contribuenti tedeschi." Così dicendo, il portavoce dell'SPD si è potuto assicurare l'approvazione della quasi totalità dei suoi colleghi parlamentari, dal CSU a Die Linke. Nel quadro delle misure di salvataggio dell'euro, era stato raggiunto, alla fine, un obiettivo certo che si basava su una sorta di risentimento assai in voga, ma che perfino i semplici deputati potevano comprendere: proteggere il denaro dei tedeschi che lavorano duramente, non solo contro gli avidi speculatori ma perfino contro i criminali russi.
Il tono fermo, adottato in quest'occasione, ha messo fine alla discussione. Il fallimento del modello finanziario cipriota, e da qui, come ha dichiarato il ministro delle finanze tedesche, la necessità di un cambiamento verso un sistema a più velocità, fanno ormai parte degli argomenti standard in favore del trattamento speciale che i "salvatori dell'euro" hanno inflitto a Cipro. Questo famoso modello finanziario, seguito non solo da Cipro ma anche da altri paesi della zona euro come Malta e Lussemburgo, consiste in una flebile pressione fiscale e in controlli assai poco rigorosi sui flussi finanziari, al fine di attrarre capitali stranieri, compresi quelli di dubbia provenienza che sono riusciti a passare sotto il naso delle loro proprie autorità fiscali. Modello finanziario che non è del tutto fallito: tanto che a Cipro il totale delle attività bancarie equivale ad almeno sette volte il PIL, mentre, per quanto riguarda Lussemburgo, paese cha ha il più alto PIL pro capite al mondo, bisogna moltiplicare la stessa cifra per tre.

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Il fallimento delle banche cipriote non ha perciò assolutamente niente a che vedere con il loro modello finanziario; Cipro risulta anzi essere quello che ha investito più coscienziosamente i capitali che gli erano stati affidati, e che erano visti in tutta l'Unione Europea come assolutamente sicuri, ovvero in titoli di Stato. Ahimè! si trattava, nello specifico, essenzialmente dei titoli dello Stato greco, e dei miliardi di euro di perdite legate alle esigenze dei creditori nei confronti della Grecia, che hanno portato la prima banca di Cipro sull'orlo del fallimento, e la seconda nel pieno del fallimento. Da quel momento, senza un aiuto esterno, la bancarotta dello Stato cipriota era solo questione di tempo.
Ora, il trattamento speciale che la " troïka" formata dal Fondo Monetario Internazionale, dalla Banca Centrale Europea e dalla Commissione Europea ha riservato a Cipro, consiste nel fatto che sui ventitré miliardi di euro giudicati indispensabili per il salvataggio delle sue banche, solo dieci miliardi venivano dall'estero, cosa che lasciava di conseguenza almeno tredici miliardi che dovevano essere forniti dalla stessa Cipro; e non certo da parte dello Stato, che non aveva più un soldo, bensì dai creditori delle banche in fallimento, ovvero da quelli che avevano depositato il loro denaro, dal piccolo risparmiatore al miliardario. L'annuncio iniziale che perfino i conti al di sotto dei centomila euro non sarebbero stati più garantiti, aveva provocato delle manifestazioni non solo a Cipro, ma in tutta l'Europa, e la contestazione rischiava di non fermarsi lì: chi può credere oggi che i suoi risparmi sono al sicuro? Alla fine, venne raggiunto un accordo per toccare solo i depositi sopra i centomila euro, i quali dovevano fornire i famosi tredici miliardi, e la cosa doveva avvenire sotto forma di un contributo obbligatorio dal 40 al 60%; il ché significava la rovina a breve termine per numerose imprese cipriote.
Con questa misura che i media hanno etichettato "salvataggio di Cipro", è stato annientato il settore finanziario cipriota e si è messo fine al modello finanziario fino ad allora in vigore. Non si dispone, al momento, di alcun nuovo modello e, del resto, anche se ce ne fosse uno, le misure di austerità prescritte lo renderebbero impraticabile. Cipro è andata dunque ad unirsi alla lista del paesi sud europei in crisi, con le conseguenze che questi ultimi già conoscono: abbassamento della crescita economica (è attesa una contrazione dell'8% per quest'anno), abbassamento delle entrate fiscali, aumento del debito pubblico, disoccupazione di massa che coincide con uno smantellamento delle protezioni sociali, aumento dei senza-tetto, collasso della sanità nei confronti dei più poveri, aumento drammatico del numero di suicidi

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Quel che si discerne meno bene, sono le conseguenze che, al di là di Cipro, avrà un tale piano di salvataggio di nuovo genere. Quando il ministro delle finanze olandese, e nuovo presidente dell'eurogruppo, ha spiegato che le modalità di "salvataggio di Cipro" costituiscono la formula per i futuri interventi nella zona euro, le borse del mondo intero sono crollate, obbligando i responsabili politici ha fare bruscamente marcia indietro, definendo Cipro come un caso a parte che non ha alcun carattere di modello per l'avvenire. Una settimana più tardi, un nuovo cambiamento: politici e media si lambiccano il cervello per sapere come far partecipare, in nome dell'equità, il settore finanziario ai costi dei prossimi fallimenti bancari. La dichiarazione di Uwe Jean Heuser, su Die Zeit del 27 marzo 2013, rappresenta perfettamente questo genere di riflessione: "L'equità in Europa, cioè a dire la posizione oggi dell'Europa su questa questione, è che il salvataggio di Cipro non deve soprattutto essere visto come una ulteriore prova del carattere ingiusto del salvataggio dell'euro; si tratta, al contrario, del salvataggio più equo oggi possibile e, di conseguenza, di uno standard per il futuro. Ecco perché anche l'Italia può e deve ormai fare appello ai suoi cittadini più ricchi, non solo attraverso le tasse. L'idea di un contributo di crisi per i milionari italiani non deve più essere un tabù - anche se è politicamente più delicato che rivolgersi ai russi che detengono dei capitali a Cipro. L'equità, è anche una questione di coraggio".
A fronte della situazione in cui si trova l'Europa del sud e le altre regioni in crisi, dissertare sull'equità tradisce un cinismo che gronda moralismo. Si preferisce far finta di non vedere che l'equità, come tutti sanno, non fa per niente parte dei criteri sui quali poggiano le economie capitaliste. E per quanto si possa ritenere ingiusto che i benefici vengano accaparrati dai settori privati mentre, in seguito, le perdite vengono socializzate attraverso la tassazione, non va dimenticato che l'ultimo tentativo di intervento sistemico, volto a far funzionare diversamente la finanza e far pagare al settore finanziario i suoi propri rischi, ha portato, nel 2008, alla messa in liquidazione della Lehman Brothers, cosa di cui tutti si ricordano le conseguenze. Per quanto concerne la zona euro, ecco cosa significa: il semplice sospetto che il "salvataggio di Cipro" possa costituire uno standard per il futuro farà sì che i depositari, all'apparizione del più piccolo problema bancario, chiuderanno i loro conti e metteranno il loro denaro in un luogo sicuro, e questo metterà le banche coinvolte di fronte ad un problema questa volta reale. Il giornalista Ulrike Herrmann ha giustamente osservato, su Die Taz del 30 marzo 2013, che il cancelliere tedesco sarebbe stato preso costretto ad "estendere la sicurezza illimitata dei depositi a tutta la zona euro. Perché, altrimenti, l'euro cadrebbe a pezzi, dal momento che centinaia di miliardi di euro prenderebbero il volo". Ci sono poche possibilità che la cancelliera accetti di dare una simile garanzia: salvare i conti del risparmio del sud con "i soldi tedeschi" sarebbe contrario al senso tedesco dell'equità. Si vedrà se questo sentimento è pronto ad accogliere un crash dell'euro.
I primi ad essere minacciati dal nuovo paradigma di gestione della crisi europea, sono i piccoli Stati, il cui settore finanziario, a partire da Cipro, può essere visto da un giorno all'altro come sovradimensionato. Perciò, anche se Cipro - come continuano ad affermare i politici europei - era considerato un caso a parte, Malta e Lussemburgo sono parimenti in un forte rischio di ritrovarsi da un giorno all'altro nella stessa situazione. I rappresentanti di questi due Stati non hanno avuto parole abbastanza dure per definire tutte le discrepanze nel corso dei colloqui per Cipro, cui loro stessi hanno avuto buona parte. Così, il ministro maltese delle finanze, in un articolo sul Times di Malta, ha visto in questi negoziati "il trattamento che una piccola isola mediterranea deve aspettarsi quando mai arrivasse ad aver bisogno dell'aiuto degli altri Stati membri". Il suo omologo cipriota, da parte sua, alla fine ha accettato, "il coltello alla gola", le condizioni di salvataggio. Ed è con la stessa mancanza di diplomazia che si è espresso il ministro degli Affari esteri del Lussemburgo. Sullo Spiegel del 25 marzo 2013, ha dichiarato: "Noi accettiamo perfino che la Germania venda delle armi. In contropartita, Berlino potrebbe fare lo sforzo di mostrare più comprensione per la situazione particolare dei piccoli paesi." Questo signore avrebbe fatto meglio a criticare il "modello di affari tedesco" basato su un'industria automobilistica e militare sovradimensionata, invece di coltivare la speranza di placare la Germania!

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Evidentemente, nessuno Stato è in grado di riparare il solo suo settore finanziario, allorché questo si trovi in caduta libera ed il totale del suo attivo arrivi a ventidue volte il prodotto annuo dell'economia nazionale: da questo punto di vista si può comprendere il discorso sul sovradimensionamento. Solo che non si dovrebbe dimenticare il processo storico che ha portato ad una simile situazione. Il settore finanziario è sovradimensionato a livello mondiale, e per decenni nessuno ha avuto niente da ridire, anzi, al contrario: è stata proprio questa vera e propria inondazione del capitale finanziario che, attraverso il credito, ha permesso all'economia mondiale di funzionare per trent'anni, ed ha permesso di rinviare una crisi che era già divenuta virulenta a partire dagli anni 1970; solo che alla fine non ha funzionato più niente, i crediti accordati si sono rivelati essere, in grande maggioranza, dei prestiti tossici. Suggerire, come alcuni fanno in questo genere di situazione, che le banche dovrebbero concentrarsi sul cuore del loro mestiere, che consisterebbe nel sostenere l'economia reale, significa evitare di considerare il vero problema: il fallimento delle banche cipriote non proviene da pratiche discutibili, ma proprio dall'avere esercitato il "rispettabile" cuore del loro mestiere.
Altrettanto ignara della storia, si rivela essere quella critica della politica di rigore tedesca che si accontenta di invocare una "nuova socialdemocrazia", che abbia come missione quella di opporre all'austerità pro-ciclica nella zona europea, un piano di rilancio anti-ciclico focalizzato su Keynes. E' vero che la politica anti-crisi, prescritta agli europei dal governo tedesco non fa che aggravare ulteriormente la crisi. Solo che il contro-modello non è di grande aiuto quando consiste nel riprendere - come, per esempio, preconizza Wolfgang Münchau nella sua rubrica, sullo Spiegel Online del 3 aprile 2013 - la politica a carattere essenzialmente macroeconomico di un Karl Schiller, negli anni 1960, e di un Helmut Schmidt, negli anni 1970. Quella politica, all'epoca, finì per fallire, e con essa la coalizione social-liberale al potere, dal momento che i piani di rilancio statale non portavano che ad una crescita dei tassi di inflazione, sempre più elevata, senza arrivare ad avviare una ripresa durevole in grado di auto-alimentarsi.

Londra 1940

Per uscire dalla crisi non c'è che un mezzo: uscire dal capitalismo. E' tempo di riflettere su questo, possibilmente ad alta voce, anche se non sarà facile. Ma visto il carattere globale, che non si limita affatto all'Europa, che ha assunto la crisi, un discorso sull'equità che non rimetta in discussione il capitalismo è diventato semplicemente insopportabile.

- Claus Peter Ortlieb -

fonte: http://www.exit-online.org/textanz1.php?tabelle=aktuelles&index=0&posnr=583

venerdì 23 agosto 2013

Un orfano di 85 anni

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Una fotografia, ritrovata fra quelle meno conosciute che Agustì Centelles aveva scattato negli anni della guerra civile, fra la Catalogna e l'Aragona. Una foto che era apparsa sul settimanale madrileno "Ahora!" nell'ottobre del 1936, e di cui sono andati persi i negativi. Un bambino che aveva sette, otto anni, in quei primi mesi di guerra, e che era rimasto orfano nel corso degli avvenimenti sul fronte di Siétamo e Tardienta, nella piana di Huesca. Un bambino che aveva vagato per diversi giorni, sperduto in quella regione, prima di essere accolto e rifocillato da alcuni membri della CNT. Come dire, niente epica né eroismo, ma solo dolore e tragedia, fame e freddo, in quest'immagine presa in quell'Aragona che fu teatro di tragedie spesso dimenticate, come quella del bombardamento di Alcañiz che fece assai più morti di quello di Guernica.

giovedì 22 agosto 2013

Gilda, la bomba atomica

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Rita Hayworth è stata una delle più celebri attrici di tutti i tempi, ed una delle pin-up - forse la più usata - nel corso della seconda guerra mondiale. Ma, a quanto pare, la sua "decoratività" oltrepassò i confini del conflitto bellico, e si estese anche all'Operazione Crossroads. In quel caso, la sua immagine abbellì la famigerata "bomba Able", l'atomica che, nel 1946, venne sganciata sull'atollo Bikini.
Il fatto - che all'epoca era stato annunciato, nel corso di una trasmissione radiofonica, da Orson Welles, allora sposato con l'attrice - che per molto tempo si è pensato fosse solo una diceria, è stato comprovato da Conerald, dove si può leggere l'intera storia, ascoltare quello che disse Welles ed ammirare la foto a colori del ritratto originale, intitolato "American Beauty" e dipinto da Bill Coburn, che servì per la decorazione.

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mercoledì 21 agosto 2013

Vendersi Maggio

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Scrive Maurice Dommanget, nella sua "Storia del Primo Maggio", che il Primo Maggio del 1938  « a Madrid, si lavora in conformità con gli ordini del governo repubblicano ». Il ritaglio, sopra pubblicato, tratto da "l'Humanité" del 29 aprile 1938, mostra come la CNT, dopo la repressione delle giornate di Barcellona, andava a cofirmare, insieme agli stalinisti, un appello che cercava di giustificare la rinuncia al Primo Maggio, finché fosse durata la guerra, invitando addirittura ad aumentare la produzione per la giornata del Primo Maggio!
Pierre Souyri segnala negli Annali del 1970 che « Nel maggio del 1938, la CNT sottoscrive un accordo, secondo il quale vengono garantite "le proprietà legittimamente acquisite", e nell'agosto del 1938 entra, insieme ai rappresentanti dell'UGT, del padronato e del governo, in un Consiglio del Lavoro che ha il compito di fare da arbitro nei conflitti tra imprenditori e operai ...». A seguire il testo del vergognoso appello:

PRIMO MAGGIO, GIORNATA DI LAVORO E DI LOTTA IN TUTTA LA SPAGNA REPUBBLICANA

Barcellona, 28 aprile - In vista del Primo Maggio, i partiti operai e le organizzazioni sindacali hanno redatto un manifesto nel quale, fra l'altro, viene detto:

« In passato, la commemorazione del Primo Maggio ha avuto alla base delle rivendicazioni, ma oggi finché durerà la guerra, questa data è diventata espressione degli obblighi che devono essere soddisfatti. Per i soldati venuti dal popolo, noi non abbiamo che una consegna: combattere. Per gli operai delle retrovie, una consegna equivalente: lavorare. Esse si completano l'una con l'altra.
Il modo migliore per onorare il Primo Maggio sarà, per i combattenti delle trincee, di raddoppiare la loro capacità d'eroismo; per i combattenti delle retrovie di aumentare la loro produzione

Firmano questo manifesto: Lamoneda, per il partito socialista; Amaro del Rosal, per l'UGT; José Diaz, per il partito comunista; Prieto, per la CNT.

venerdì 2 agosto 2013

lottavano così come si gioca …

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« La caratterizzazione del processo lavorativo in base al suo rapporto con la natura è determinata dalla sua costituzione sociale.
Se infatti non fosse propriamente l'uomo ad essere sfruttato, ci si potrebbe risparmiare il discorso improprio sullo sfruttamento della natura.
Questo rafforza l'apparenza del "valore" che le materie prime ottengono solo mediante un sistema di produzione che si basa sullo sfruttamento del lavoro umano. Se dovesse finire, il lavoro perderebbe a sua volta il carattere di sfruttamento della natura da parte dell'uomo e verrebbe effettuato solo secondo il modello del gioco infantile che in Fourier è alla base del travail passionné des harmonies.
Avere posto il gioco come canone del lavoro non più sfruttato è uno dei grandi meriti di Fourier. Un tale lavoro animato dal gioco non è diretto alla produzione di valore, ma al miglioramento della natura. Anche per una tale natura, l'utopia fourierista pone un modello che vediamo effettivamente realizzato nei giochi infantili. E' l'immagine di una terra su cui non c'è luogo che non sia diventato una specie di "fattoria", nel doppio senso che tutti i luoghi sono come "rifatti" dal lavoro umano, che li rende utili e belli; ma restano nello stesso tempo come una fattoria lungo una strada di campagna, un luogo di ristoro aperto a tutti ***. Una terra ordinata secondo quest'immagine cesserebbe di essere parte "d'un monde où l'action n'est pas la sœur du rêve". L'azione ed il sogno vi diverrebbero fratelli. »

- Walter Benjamin -

*** Benjamin, qui gioca sui diversi significati del termine tedesco Wirtschaft, il quale può indicare tanto un'azienda agricola, o una fattoria, quanto una locanda, un albergo. Wirtschaft ha anche un terzo significato, e vuol dire anche "economia", che sebbene non venga chiamato direttamente in causa, contribuisce implicitamente ad accentuarne la ricchezza semantica.

giovedì 1 agosto 2013

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Il Doge (Souvenir)
di Gianfranco Sanguinetti
Era un mattino del gennaio del 1971, quando, a Milano, in Piazza della Scala, incontrai il banchiere Raffaele Mattioli - « il più grande banchiere dopo Lorenzo de' Medici », scrisse Le Monde alla sua scomparsa -, dopo aver parlato di amici comuni, i poeti Eugenio Montale e Umberto Saba, gli chiesi che mi consigliasse un avvocato "incorruttibile", per risolvere alcune questioni di famiglia. Don Raffaele, come lo chiamavano gli intimi, prese il telefono e senza esitare chiamò il professor Ariberto Mignoli. L'incontro avvenne immediatamente, lo stesso giorno, a pranzo. Desidero qui ricordare la singolare figura di questo gentiluomo, aristocratico d'altri tempi, illustre giurista, coraggioso fino alla temerarietà, discreto e riservato, amico fedele. Infine uomo. E' scomparso nel 2004, e per me è stata una grande perdita. Quel giorno, vestito da motociclista,mi trovai di fronte ad una sorta di reincarnazione di Francesco Guicciardini, per la sua natura, per il suo carattere, per la sua esperienza umana - o ancora per la sua vasta cultura umanista: conosceva perfettamente le lingue morte e le principali lingue viventi europee, insieme a tutte le letterature che questi linguaggi avevano prodotto. Allora, aveva cinquant'anni, ed io ventidue. Di primo acchito, mi ha detto: « Non sono incorruttibile, se non a condizione che mi si chiami Doge di Venezia ». Da questo, l'appellativo di Doge che gli diedi familiarmente. Ben presto si divenne amici: ero senza dubbio il meno importante dei suoi clienti, ma sicuramente il più vicino spiritualmente. Non era un conformista, ma certamente non era un sovversivo. Però ci si intendeva perfettamente. In qualche modo, lui è stato il mio Montaigne ed il sono stato il suo Etienne de la Boétie.
Poco dopo averlo incontrato, dovetti fuggire in Svizzera perché una notte del mese di marzo del 1971 c'era stata un'effrazione troppo strana, a casa mia, a Milano. Debord mi scrisse in Svizzera, dicendomi che la polizia mi cercava, a Parigi. Mignoli considerò il tutto con curiosità. Era quello che, nel Rinascimento, veniva chiamato un uomo "universale", un gran signore a suo agio con tutte le materie ed in tutte le situazioni cui un uomo deve interessarsi. Lui - i cui più grandi clienti erano le banche ed i più grandi industriali, e con i quali intratteneva dei rapporti professionali e formali - lui, a volte amava, come diceva Machiavelli, "ingaglioffarsi" tutta la notte insieme a me nelle osterie e nelle taverne popolari di Milano, dove, spogliatosi delle vesti "curiali" del giorno, si fraternizzava con la gente semplice e con i furfanti che frequentavano quei luoghi. Si affittava un taxi per tutta la notte, e si faceva un giro. Al mattino si cantavano le canzoni in dialetto milanese, che lui parlava con naturalezza. Conosceva meglio di me le canzoni anarchiche spagnole della guerra civile. Era troppo aristocratico per non disprezzare i politici e tutti i personaggi pubblici, e su questo ci si intendeva a meraviglia. Come ha ricordato un suo amico, il professor Giampaolo de Ferra, Mignoli era  « sostanzialmente un estremista ».
Durante la guerra era stato un ufficiale di Marina, che era un corpo antifascista, oltre che l'aristocrazia delle forze armate italiane. Nel 1943, quando i nazisti occuparono l'Italia, la flotta disertò in massa ed il Doge riparò in Svizzera, a Ginevra, dove fu nella cerchia di Luigi Einaudi. Professore universitario e lavoratore instancabile, grande giurista, il miglior avvocato d'Affari che ci sia mai stato. Ma era anche molte altre cose. Non ho qui la pretesa di farne un ritratto completo, per il quale sarebbe necessario aggiungere le pennellate di suoi amici come Guido Rossi o Giampaolo de Ferra. Sicuramente, Mignoli è stato il bibliofilo più raffinato, fra quelli che mi è stato dato di incontrare. Mi ha mostrato, fra i suoi altri tesori, una copia della prima edizione del "Trattato", che Spinoza aveva offerto, con sua dedica autografa, a Leibniz; o l'originale della "Fuga dai Piombi" di Casanova, ritrovato a Praga. Gli regalai un'antica edizione del "Werther" che gli mancava. Possedeva, fra le altre cose, una collezione molto singolare di menu manoscritti delle taverne europee a partire dal XIV secolo. E' stato amico del più grande editore del '900, Giovanni Mardersteig, di cui ha scritto un ammirevole "Souvenir", edito dai suoi figli in duecento esemplari. Mi fece dono di una serie di opuscoli polemici, stampati da Bodoni nel XVIII secolo, con delle lunghe liti ereditarie fra i miei antenati Sanguinetti e Padoa. Inutile dire che mi attaccò la malattia del bibliofilo.
A Lisbona, dove frequentava i migliori ristoranti e conosceva tutti i luoghi nascosti, mi introdusse, nel 1971, presso un suo vecchio amico, José de la Viuva, anarchico galiziano, fuggito dopo la guerra civile che a Lisbona gestiva una taverna, sporca e bella, dove si cantavano, dopo averla chiusa per precauzione, tutte le canzoni proibite sotto Franco, Salazar e Caetano. Il Doge disprezzava sia la dittatura che la democrazia, ma diceva che la dittatura dà quel desiderio di libertà che sotto la democrazia sonnecchia.
Conosceva a memoria gli autori greci, latini, italiani, francesi, tedeschi ed inglesi, e sovente li citava, sia nella lingua originale che in italiano. Aveva una memoria incredibile: diceva che non era un suo merito, ma solo una questione di esercizio, alla portata di tutti. Era un epicureo alla Montaigne, ed il suo motto era quello di Epicuro: "Per vivere felici viviamo nascosti". Era anche un gourmet raffinato. Alla fine del pasto, non ordinava mai un cognac, perché - diceva - se veniva da una bottiglia già aperta aveva perso il suo profumo. Perciò preferiva farsi portare una bottiglia del miglior brandy spagnolo, di Gran Duca d'Alba o di Lepanto, e diceva che era meglio finire dolcemente. Una volta, nel 1984, in Brasile, mi dette appuntamento in un piccolo villaggio sulla costa a duecento chilometri da San Paulo, per poter gustare la miglior Fagiolata del paese.
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Fu lì, mi sembra di ricordare, che parlammo della recente guerra delle Malvinas e mi citò, divertito, Junius ed il Dottor Johnson, recentemente ripubblicati, ed in particolare il seguente aneddoto: allorché Lord Sandwich minacciò il deputato ultra-democratico Wilkes - che aveva ridicolizzato il re George III e che faceva parte della banda di Junius - dicendogli che sarebbe morto sul patibolo o di una malattia ripugnante, Wilkes gli rispose: « questo dipende, My Lord, a seconda che io abbracci i vostri principi o la vostra amante ». Pochi mesi dopo il nostro primo incontro, cominciai ad essere seriamente infastidito dalle autorità francesi, che alla fine mi arrestarono e mi espulsero nel luglio del 1971, senza nessuna accusa, senza prove, con una semplice lettera timbrata dal ministro Raymond Marcellin. Il Doge ne fu indignato, come se quest'ingiustizia fosse stata fatta a lui stesso. Mi consigliò un avvocato, Marty-Lavauzelle, il quale mi indirizzò verso un giovane penalista. Quest'ultimo mi tese una trappola, d'accordo con il Ministero degli Interni, per compromettermi. Il ministero temeva che si ripetesse "Lo scandalo di Strasburgo", e che io finanziassi la sovversione. Grazie a Guy Debord ed al Doge, la trappola venne smascherata. Mignoli fu inflessibile e scrisse per me una denuncia memorabile (tradotta in un buon francese da Debord), per deferire all'Ordine degli Avvocati l'avvocato fedifrago, e l'avvocato venne punito. Quest'affare ebbe grande risonanza, fino al punto che Marty scrisse che rischiava di trasformarsi in un nuovo "affare Dreyfuss". Mignoli e Debord si incontrarono una prima volta a Parigi e si piacquero, evidentemente. Si incontrarono poi, di nuovo, nel 1973 e nel 1974, ad una cena a casa mia, a Firenze, e le cena continuò fino al mattino.
Un giorno, a Milano, vedendomi triste per una storia d'amore, mi chiese: « Non hai un'altra ragazza cui pensare? ». « – risposi – Mary : una violinista scozzese che vive a Marburg, a nord di Francoforte ». « Ascolta – disse – c'è un aereo per Francoforte verso le 16, se vuoi mando la mia segretaria acomprare il biglietto, e nel frattempo possiamo pranzare insieme. Se ti va, portale da parte mia queste due bottiglie di Chianti Nozzole del 1964 che mi ha regalato Mattioli ». La sera ero al concerto a Marburg, dove si festeggiò col Chianti. In effetti era "sostanzialmente estremista".
Nel 1975, il Doge fu, insieme a Debord, il solo ad essere a conoscenza di chi ci fosse dietro lo "scandalo Censor", che avevo preparato fra mille pericoli ed imprevisti, e mi dette tutto il suo aiuto. Nel mese di marzo ero stato messo in prigione a Firenze, ed accusato dal procuratore capo dell'anti-terrorismo italiano, Pie Luigi Vigna, il giorno stesso che stavo portando il manoscritto di Censor (Nota: "Rapporto Veridico: Sulle ultime opportunità di salvare il capitalismo in Italia"- in rete si trova solo in inglese ed in francese) a Milano, per stamparlo. Venni intercettato perché la polizia doveva sapere che stavo preparando qualcosa, e Mignoli aveva il telefono controllato a causa del fallimento di una banca di cui era stato per un certo tempo avvocato. La polizia, per potermi arrestare, aveva messo delle pallottole di una mitraglietta, nella vettura su cui viaggiavo. Il manoscritto si trovava nella custodia di violino della mia compagna, Katherine Scott, che venne arrestata, anche lei, insieme al mio amico autista Mario Masanzanica: il manoscritto ebbe la sorte di entrare ed uscire, non scoperto, dal carcere femminile di Santa Verdiana a Firenze. Il Doge mi aveva procurato il miglior penalista di Firenze, Terenzio Ducci, che mi fece uscire di prigione in otto giorni, contro ogni previsione. Tornai a Milano: Mignoli mi aveva dato un'idea geniale.  «Se volete che lo scandalo sia travolgente, fate un'edizione di lusso, in monotipo, in pochi esemplari numerati, su carta patinata, e mandatelo agli indirizzi che vi darò ». Mancava solo un editore che servisse come paravento. Me lo fornì suo cugino, un giovane avvocato assai conservatore, professore all'Università Cattolica di Milano, Sergio Scotti-Camuzzi  - al quale aveva raccomandato vivamente il mio testo, e tutta la discrezione che l'operazione esigeva. Scotti, che aveva già fatto per me qualche operazione immobiliare, e voleva diventare editore, conosceva un tipografo di alta qualità, Dario Memo. La realizzazione del progetto si era messa in moto. Dopo la prigione fiorentina, mi nascosi fra Bergamo e Milano. Il Doge adorava quest'operazione, e mi fu molto prezioso o, meglio ancora, indispensabile, per la riuscita del colpo: vedeva meglio di chiunque l'importanza e la difficoltà dell'operazione, ed anche i danni che le verità scandalose rivelate da Censor avrebbero potuto provocare. Più vedeva la polizia accanirsi contro di me, più la cosa lo appassionava; ci credeva e si divertiva. Abbiamo trascorso dei pomeriggi e delle sere intere a perfezionare i dettagli tipografici e la lista delle personalità importanti alle quali si doveva spedire "Il Veridico Rapporto" ai loro indirizzi privati, più qualche giornalista ben scelto. Fu sempre di un coraggio, di una discrezione e di una fedeltà esemplare. L'operazione riuscì in gran spolvero. Alla fine il personaggio di Censor che veniva dipinto, era praticamente il suo ritratto, e vi si riconosceva. Mi ritrovai un po' nella situazione di James Boswell con il Dr. Johnson. Difficile descrivere la sua gioia nel vedere tutta la classe dirigente italiana cadere nella trappola: la disprezzava tanto più in quanto la conosceva da vicino. Si divertiva quando riceveva lettere di ringraziamento da parte dei ministri ed altri agenti dello Stato, tutte vittime della trappola, i Giulio Andreotti, Aldo Moro, il governatore della Banca d'Italia Guido Carli, Giorgio Amendola, Pietro Nenni, il Prefetto di Milano, il Consiglio Superiore della Magistratura, ecc. La loro unica scusa fu che la trappola era ben preparata, ma anche che il caso mi aveva aiutato in maniera inattesa: nel capitolo VI del "Veridico Rapporto" avevo scritto: « Non è perciò possibile concludere che i Servizi Segreti siano diventati quel "gladium anticipem in manu stulti" di cui parlavano i Latini? » (trad: spada a doppio taglio nelle mani di un pazzo). Bisogna qui sottolineare che l'esistenza dell'organizzazione segreta Gladio è stata rivelata pubblicamente da Andreotti solo quindici anni dopo l'edizione del mio libro, e che dunque all'epoca questa piccola frase in latino dev'essere stata intesa come una velata minaccia proveniente sicuramente da qualcuno che era al corrente delle cose più segrete. Credo che almeno una parte dei problemi giudiziari che ha avuto in seguito Mignoli, sono stati la sanzione da parte del potere per aver collaborato con me, cosa difficile da dimenticare e da perdonare (Nota: Nel 1984, Mignoli venne condannato a 4 anni di prigione per il crack di Sindona. In appello, poi venne assolto).
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Una volta scoppiato lo scandalo, e dopo che, all'inizio del 1976, avevo pubblicato "Le Prove dell'Inesistenza di Censor", mettendomi allo scoperto, il Corriere d'Informazione era uscito, in terza pagina su otto colonne, con un pezzo sullo scandalo contenente una falsa ed ignobile intervista con me. Mi trovavo per caso a Milano e seppi subito tutto. Chiamai il Doge dicendogli che sarei andato direttamente al Corriere per malmenare il giornalista, un certo Dario Fertilio. Lui mi disse: «Se lo fai a caldo, beneficerai delle circostanze attenuanti date dall'immediatezza. Dopo vieni nel mio ufficio per preparare un comunicato stampa». Così feci. Ero felice del successo. Scrivemmo un testo molto violento e molto divertente, che il giorno dopo apparve su tutti i giornali, compresa la Sicilia e la Sardegna. Il comunicato chiudeva con questa frase, dettata dal Doge, e che fece grande impressione: « Davanti a simile codardia bisogna ritornare al costume virile ». Nessuno, o quasi, prese la difesa del Corriere: la falsificazione era stata troppo grossolana, e la mia reazione immediata ed efficace. Il Corriere rimase solo a gridare "all'attentato alla libertà d'informazione": gli altri lo derisero e non osarono neppure denunciarmi per gli schiaffi che il suo impudico giornalista aveva meritato in presenza del suo direttore, probabilmente per evitare un processo imbarazzante. Comunque, Mignoli, per precauzione, mi presentò il grande avvocato penalista Alberto Crespi, collezionista di pitture primitive, di Botticelli e di altri tesori, che si dichiarò disposto a difendermi, se necessario.
Dopo il rapimento e l'uccisione di Aldo Moro, nel 1978, quando la repressione divenne pressante, mi consigliò di fare una denuncia del terrorismo e fu il primo in Italia a leggere il manoscritto del mio opuscolo "Del Terrorismo e dello Stato". Quando Debord, nel 1981, cominciò a far circolare le sue insinuazioni sul Doge e su di me, gliele riportai. Ricordo che si limitò a questo semplice commento: « E' un vero peccato, perché questo rende in qualche modo del tutto inutile quello che c'è stato fra di noi». L'eufemismo "inutile" era marcato. Quando, diversi anni dopo, Mignoli subì un lutto (la perdita della moglie e di una delle sue figlie, nella stessa settimana, per cause diverse), rimasi, per quell'estate, costantemente al suo fianco; e verso la fine della sua vita, si passarono insieme delle intere giornate. Sulla sua salute che peggiorava, non disse mai una parola, salvo uno stoico: « non è per niente brillante ».
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Pubblicò raramente, salvo qualche scritto giuridico, ma scriveva superbamente. Nel 1990, scrisse un testo dal titolo "Ricchezza e Saggezza". Mi permetto qui di riportarne qualche passaggio:
« A fronte di una situazione così tragica (...) si pone nuovamente il problema di Qoelet sulla supremazia dello spirito sulla ricchezza: in un momento come quello attuale, nel quale la società in cui ci muoviamo ha un'impronta decisamente economica che da luogo ad un'epoca di soddisfazione ... La nostra vita è diventata un negozio, mentre era una presenza. Quello che si considera progresso morale non è altro che l'assoggettamento completo dell'individuo alla potenza dello Stato, cosa che può condurre ad una completa abdicazione della personalità, soprattutto se la preoccupazione di guadagnare denaro minaccia ogni iniziativa. Tale pretesa della superiorità morale del nostro tempo trae origine da un sillogismo: ché si fanno soldi più facilmente, ed in modo più sicuro nel tempo presente che nel passato. Si è così creato un nuovo senso di sicurezza, di natura economica, e tutte le sicurezze hanno un effetto devastante sul nostro spirito. Le epoche soddisfatte sono delle epoche disperate ... Da un lato, l'uomo si diverte e ottiene delle ricchezze che compensano la sua situazione disperata, da un altro lato la disperazione è il punto di arrivo di un'epoca soddisfatta, contenta delle sue conquiste economiche, che manca di quelle possenti emozioni che guidano e sostengono le anime al di sopra di esse stesse scagliando la varietà nel mezzo dell'uniformità delle nostre condizioni e la monotonia dei nostri giorni. Per cui si tratta di sostituire all'amore del benessere delle passioni più energiche e più elevate ... Una qualità essenziale, per la nostra felicità, diceva Schopenauer, una qualità essenziale è il coraggio. In questo mondo, nel quale si gioca con dei "dadi di ferro", ci vuole uno spirito forte, corazzato contro il destino ed armato contro gli uomini ... Il rassegnato non è colui che ha capito: è colui che ha smesso di combattere.»
In questo testo si trovano delle reminiscenze leopardiane, ma anche situazioniste. Nessuno di noi due era impermeabile all'altro. Ripeteva spesso questa frase, così vera, di Sallustio: Idem velle ac idem nolle, ac tandem vera amicitia est (Volere le stesse cose, e non volere le stesse cose, è in realtà la vera amicizia).Ecco che uomo era, il Doge. Ecco chi è stato bersaglio di insinuazioni abiette. Ecco colui di cui voglio oggi rivendicare la memoria.

- Gianfranco Sanguinetti – 17 Dicembre 2012