sabato 29 giugno 2013

due fotografie

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« Tra le tante fotografie che gli inviati dei giornali americani e inglesi scattarono durante la campagna di Sicilia, nell’estate del 1943, due sono per me particolarmente memorabili, di significato propriamente storico. Una è di Robert Capa sicuramente, poiché la ritroviamo in quel suo splendido libro Immagini della guerra (in Italia pubblicato dall’editore Mursia); l’altra probabilmente.
La prima: un pastore, vecchio, barbuto, pesantemente vestito, indica la strada a un soldato americano. Sappiamo che sta indicandogli la strada giusta. Al paesano, all’amico, al parente ricco comandato dal suo buon presidente a venire in Sicilia a fare una buona e giusta guerra. Figura senza tempo, il pastore automaticamente ci riporta a quell’altra campagna di Sicilia, di ottantatré anni prima: Garibaldi in Sicilia, coi suoi mille uomini, inseguito intorno a Palermo dai cinquemila del colonnello von Meckel e del maggiore Bosco. Ed a un certo punto, al bivio di Corleone, ecco che von Meckel e Bosco si mettono a inseguire Giordano-Orsini che va verso Corleone, verso Sambuca, con una ottantina di uomini, i più feriti, il resto, come si dice in gergo militare, “lavativi”. Li inseguono per due giorni; e intanto Garibaldi è entrato a Palermo. Quando tornano indietro, e si avventano impetuosamente dentro la città, i loro colleghi rimasti a difenderla li fermano; hanno già firmato l’armistizio con Garibaldi. Nessuno ha indicato a von Meckel la strada giusta per raggiungere tempestivamente Garibaldi; ma qualcuno l’ha certamente indicata a Garibaldi per sfuggire a von Meckel. Abba annota: “Sia gloria a questo popolo: non ha dato ai nemici una spia”. L’annotazione avrebbero potuto ripeterla Patton e Montgomery. Il mito di Garibaldi nel 1860, il mito dell’America nel 1943: quelli che erano tecnicamente, giuridicamente gli invasori, in forza dei miti  che rappresentavano – e in definitiva un solo mito: quello della libertà – diventavano gli alleati, gli amici (e anche gli amici degli amici).

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La seconda: un gruppo di soldati italiani si arrende sulla piazza di Troina. Mai vista una simile resa: i soldati con le mani levate che muovono incontro agli americani, che non si vedono; ma senza tristezza o preoccupazione, questi nostri soldati vinti; sorridenti anzi, come volessero dire: “sì, va bene, stiamo recitando questa commedia della resa: ma tra poco faremo colazione tra le stoppie con questi nostri amici che ci hanno vinto: sono americani, no?”. Un po’ di lato, sono un uomo e una bambina del paese: guardano con curiosità ma senza timore verso la pattuglia americana che non si vede nella fotografia: certamente i soldati hanno i fucili puntati contro quegli altri che muovono verso di loro disarmati, ma l’uomo e la bambina sono sicuri che non un colpo partirà da quei fucili.
Queste due fotografie dicono tutto. E non ci sono soltanto il pastore, il paesano, i soldati che allegramente si arrendono: ci siamo anche noi, ventenni, col mito dell’America che non ci veniva dai parenti e dagli amici (degli amici), ma delle appassionate letture, cui Vittorini e Pavese ci avevano avviato, di Faulkner, di Hemingway, di Steinbeck, di Caldwell, di Saroyan. “Che ve ne sembra dell’America?” chiedeva il titolo di un libro di Saroyan tradotto da Vittorini. La libertà, la democrazia, il new deal, la frontiera verso il mondo nuovo – era la nostra risposta. »

da – Leonardo Sciascia – Nero su nero -

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