martedì 31 dicembre 2013

cittadinanza

reddito

Visto dall'Italia un reddito minimo come quello della Hartz IV può apparire attraente; però in Germania ha aiutato ad abbassare sia il reddito dei disoccupati sia i salari.

Dieci tesi contro la richiesta di un reddito minimo

Nei movimenti globali successivi al 1968 e all'autunno caldo del 1969, i redditi si disaccoppiano tendenzialmente dall' erogazione di forza-lavoro, e diventavano generalmente più uguali. Con il ristagno di questi processi ugualitari dal basso nella metà degli anni '70, alcuni gruppi di sinistra radicale producevano riflessioni strategiche attorno ad un “salario politico” e ad un “reddito minimo garantito”. Nella Repubblica Federale Tedesca la richiesta di un reddito di esistenza affiorò all'interno del movimento autonomo degli anni '80 come reazione alla ristrutturazione dello stato sociale. Allo stesso tempo (negli anni '80), politici della CDU propagavano “l'imposta negativa sul reddito”, una cosa che vige tuttora (per esempio nel reddito di solidarietà dei cittadini). Sinistra, CDU, sindacati e padroni avanzano la stessa richiesta. Come è possibile?
1) La proposta di un reddito di esistenza è espressione di una società che diventa sempre più diseguale; ma allo stesso tempo fiancheggia questo processo. Non è solo una reazione alla ristrutturazione dello stato sociale, bensì una strada verso la sua ristrutturazione e smantellamento; non è un mezzo per una più equa distribuzione del reddito.
2) Dalla storia sappiamo che l'introduzione di redditi sganciati dal salario ha sempre condotto alla diminuzione del livello di riproduzione della classe operaia, così come è esattamente successo in Germania con l'introduzione del pacchetto delle riforme Hartz (la cosiddetta “Agenda 2010” del cancelliere Schröder) Con esso è stato introdotto un reddito minimo di nome Hartz IV. Questo ha sia abbassato i redditi dei disoccupati che fiancheggiato ed accelerato l'espansione del settore a basso salario in Germania. Con l'allineamento di una parte dei redditi al livello più basso sono stati spazzati via gli ultimi resti dell'uguaglianza conquistata con le lotte; in più la Hartz IV ha aggravato l'ineguaglianza salariale degli occupati. La funzione “produttiva” della Hartz IV per i padroni: un milione di persone lavora e percepisce Hartz IV come compensazione dei salari miserabili.
3) Tuttavia la Hartz IV non è niente affatto incondizionata, bensì sottoposta a controlli e precondizioni umilianti. Perciò i sostenitori del reddito di esistenza insistono sul fatto che un reddito incondizionato (e allora garantito) aumenterebbe i redditi dei disoccupati – anche se i salari forse continuano a diminuire (il problema dell'ineguaglianza salariale non interessa ai sostenitori del reddito di esistenza, in quanto si vedono come rappresentanti della propria clientela). Però i cambiamenti sociali ed il potere politico necessari ad istituire un reddito di base incondizionato e sufficientemente alto da garantire a tutti la possibilità di scegliere liberamente se vogliono lavorare, sono tanto importanti che allora anche la rivoluzione sarebbe possibile. I sostenitori del reddito di base vogliono tuttavia praticare una Realpolitik, e sanno perfettamente che possono solamente cogestire il bilanciamento del “chiedere e promuovere” (parola d'ordine delle leggi Hartz) o scegliere tra incondizionato e sufficientemente alto (vedi il prossimo punto).
4) Esistono anche modelli borghesi di un reddito minimo incondizionato. Loro vogliono risolvere il problema di un capitalismo stagnante e del crescente indebitamento statale (Nuovi lavori nonostante la crescita zero – attraverso lavoro volontario e reddito di cittadinanza; il prevedibile fiasco delle pensioni sarebbe attutito con un reddito di base ecc.). Qui il reddito di base viene solitamente finanziato attraverso un aumento dell'IVA – una tassa che pagano prevalentemente i più poveri. (I modelli di sinistra vogliono finanziare il reddito di base tra l'altro attraverso l'aumento della patrimoniale.)
5) I sostenitori di sinistra del reddito di esistenza vedono nello stato sociale un istituto per l'alimentazione dei poveri. Storicamente, però, lo stato sociale era importante per la formazione d'un »ceto medio«. Il riconoscimento istituzionale del movimento operaio è stato il principale baluardo contro la minaccia rivoluzionaria della classe operaia. Questo fissò la stabilità del capitalismo dopo la seconda guerra mondiale – insieme con la protezione individuale delle persone che lavorano o hanno lavorato tramite il welfare state. L'attuale erosione del “ceto medio” può essere visto dall'alto come un problema dello stato capitalistico e poi affrontato con nuovi modelli di stato sociale di regolamento ed eventualmente di acutizzazione della precarizzazione e della disuguaglianza crescente. Oppure possiamo vedervi un processo di proletarizzazione, che è duro, ma a cui viene anche già data risposta da parte di alcuni proletari (vedi le lotte nella logistica! le occupazioni di case...)
6) I sostenitori di sinistra come di destra, di un reddito minimo garantito, partono dal falso presupposto che il lavoro manca nel capitalismo contemporaneo. Il contrario è vero: c'è troppo lavoro (malpagato) – qualcuno parlava addirittura di una “bolla di lavoro”.
Il vero cambiamento – una vera rottura strutturale – in Germania è stata, negli anni '80, l'interruzione dell'oltre centenaria tendenza all'accorciamento dell'orario lavorativo. La lotta per le 35 ore allora combattuta dal sindacato, ha dato via libera all'allungamento e intensificazione della giornata lavorativa effettiva. La gente oggi deve lavorare circa il trenta per cento in più per ricevere circa lo stesso salario come dieci anni fa. Ciò, insieme con la tendenza all'outsourcing, conduce al fatto che in Europa, allo stesso tempo, sia il monte lavoro complessivo che la disoccupazione aumentino, ovvero che sia istituita una disoccupazione strutturale di lungo periodo. Un reddito minimo frammenterebbe ancor più la classe e ridurrebbe ulteriormente i bassi salari.
7) La triade “organizing, campagna politica, reddito minimo garantito” è attraente per la presunta sinistra radicale tedesca anche perché le permette alleanze con gli ambienti ecclesiastici, sindacali e parlamentari (non perché radicalizza i suoi alleati, bensì perché condividono la stessa visione “top-down”). Dallo scoppio della crisi globale si impongono modelli politici “top-down” ancor più forti – di cui fa parte la richiesta di un reddito minimo garantito statale (così è stato in effetti anche durante la crisi economica degli anni '30: New Deal etc. Per la prima volta nel '68 e anni seguenti i movimenti riuscirono a invertire questa tendenza).
8) Nel frattempo si sono associati alla richiesta anche i sindacalisti (di sinistra), che tradizionalmente avevano insistito sul rapporto tra lavoro e reddito. Ideologicamente può sembrare come un passo in avanti che alcuni sindacalisti si allontanino dalla loro etica del lavoro (“chi non lavora vive dal lavoro degli altri”, “chi lavora deve avere più di chi non lavora”). In realtà è un segno della loro debolezza: non sono più in grado di garantire a tutti un salario di sussistenza, dunque deve provvedere lo stato a un salario minimo e a una protezione sociale di base.
9) La rivendicazione di un reddito di esistenza trovava e trova consenso presso persone con una buona istruzione che sono colpite dalla precarizzazione.
Finora non c'è stato alcun movimento che abbia rivendicato il reddito di esistenza. Negli anni '80 in Germania era la rivendicazione delle cosiddette Iniziative disoccupati, un piccolo strato di amministratori retribuiti – a cui la rivendicazione andava molto bene per la loro propria situazione sociale. Forse vediamo nascere per la prima volta un movimento che avanza la richiesta di un reddito di esistenza, ma sicuramente non sarebbe un passo avanti. Gli attuali movimenti hanno due anime nel loro petto: le loro parti qualificate richiedono partecipazione e reddito minimo; la richiesta di un reddito di esistenza rispecchia e suggella la propria separazione dalla società (cosa che in Germania viene anche spesso ammesso dai tifosi del reddito minimo). La parte proletaria del movimento invece richiede salari più alti, occupa le case, ecc..
10) Con la crisi globale anche la questione della redistribuzione entra in una nuova fase. L'ideologia neoliberale dell'efficienza dei mercati si è sputtanata, la socialtecnocrazia dei piccoli passi della sinistra parlamentare è alla fine. Persino FMI e ONU hanno paura per le enormi e crescenti conseguenze del divario sociale dovuto alle cosiddette “riforme strutturali” dello stato sociale dalla fine degli anni '90 in poi (soprattutto “Agenda 2010”).

In questa situazione storica (rivolte in Africa; ripresa della lotta operaia nei paesi emergenti India, Cina, Africa del Sud, Brasile; nuove mobilizzazioni anche in Italia...), saremmo completamente scemi a buttarci dentro una campagna politica per l'assistenza paternalistica dei poveri e la richiesta di alimentazione statale del proprio ghetto!


fonte: WILDCAT

lunedì 30 dicembre 2013

Contabilità

laureano

Della vita di Laureano, si sa ben poco, almeno sino alla fine della seconda guerra mondiale.
Era nato nel 1902 a Miedes de Atienza , un piccolo paese in provinvia di Guadalajara. Scappato dal suo pueblo per evitare quei “caporali” che impazzavano nei latifondi di tutta la Spagna, era arrivato a Barcellona. Fa in tempo a vivere gli ultimi bagliori del 'pistolerismo' e intanto frequenta l'Ateneo di José Alberola, amico del 'Noy de Sucre' e padre di Octavio, uno dei migliori storici del movimento.
Sarà tra quelli che danno l'assalto alle 'Atarazanas' e subito dopo, verrà nominato dalla CNT amministratore della 'Caja Central' delle Ferrovie catalane. Malgrado questo incarico, e la critica incessante che Laureano svolge contro la svolta 'ministerialista' della CNT, troverà il tempo per fondare delle colonie per i bambini rimasti orfani nel corso della guerra civile, prima di arruolarsi  nell'83° BTG, la ex 'Columna de Hierro'. Anche lui, come centinaia di migliaia di altri, passerà i Pirenei nel gelido inverno del 1939, e come tanti altri finirà in un campo di concentramento della Repubblica Francese, prima, e nei battaglioni di lavoro della Todt poi. Deportato in Normandia, a lavorare al Vallo Atlantico, su quelle dune sabbiose Laureano comincia la sua 'carriera'. Infatti scappa, dopo appena pochi giorni, dal campo di lavoro dove è stato rinchiuso, falsificando con le sue mani un permesso della Komandatur.
Da allora in poi, e praticamente per tutto il resto della sua vita, Laureano vivrà utilizzando documenti falsi, essendosi scoperto un talento innato per la falsificazione di qualsiasi documento, biglietto di banca o qualsiasi altra cosa: permessi di lavoro, salvacondotti per centinaia di ebrei (che riusciranno così a scampare la deportazione nei campi di sterminio), tessere per il razionamento, Reichmarks. E dopo la Liberazione: passaporti, fondi di investimento, buoni del tesoro e biglietti della lotteria nazionale. Falsifica perfino i biglietti per accedere a una corrida che si tiene nella  'Plaza de Toros' di Nimes, cui assiste dall'alto di una terrazza inondata dal sole.

nimes

Non c'è nulla che non sappia falsificare alla perfezione quell'uomo che una foto segnaletica della polizia francese mostra precocemente stempiato, pesanti e scure borse sotto gli occhi, il naso irrimediabilmente rotto da qualche colpo brutale, sempre Vestito con un elegante abito scuro, camicia bianca e cravatta di colore argento. Un uomo che guarda distaccato dritto dentro l'obbiettivo, come se la cosa non lo riguardasse. Un uomo di poche parole, Laureano Cerrada Santos. Un uomo che ha impiantato un laboratorio per la falsificazione  di documenti ad appena quindici metri dal comando generale delle SS di Parigi. E una volta, quando i suoi amici stanno violentemente litigando tra di loro, perdendo tempo prezioso, Laureano spalanca una finestra e perfidamente dice: "Gridate. Gridate ora! Visto che siete tanto coraggiosi!" Poi, in un sepolcrale silenzio, richiude quella finestra che dà sul cortile dove ci sono le SS, mentre tutti nella stanza si stanno rimettendo al lavoro.
Nell'inverno del 1944, mentre i tanks americani puntano su Parigi, Laureano  partecipa a un plenum dei gruppi da combattimento degli anarchici: bisogna pianificare la lotta armata contro Franco, anche perché appare ormai chiaro che gli Alleati non hanno nessuna intenzione di abbattere il regime franchista, diversamente da quanto hanno per anni solennemente dichiarato, dichiarazioni che avevano valso loro l'aiuto disinteressato e generoso da parte degli esuli spagnoli, nella lotta contro Hitler. Il dibattito sulla strategia da adottare, ha visto posizioni contrastanti. Chi propende per dare impulso alle 'agrupaciones' che già operano un po' in tutta la Spagna, chi insiste  per infiltrare commando bene addestrati dai Pirenei, chi vuole invece passare alla guerriglia urbana. Su una cosa sola sono tutti d'accordo: Laureano si deve occupare del finanziamento. Così, Laureano, il venticinque aprile del 1945, assieme a due altri compagni dei quali si è perso il nome, arriva a Milano, proveniente dal sud della Francia. I tre sono riusciti miracolosamente ad evitare le truppe tedesche in ritirata lungo il passo della Cisa e a non incappare in uno dei tanti posti di blocco che le Brigate Nere hanno disseminato per tutta la pianura Padana. L'obiettivo non è quello di partecipare all'insurrezione armata che i partigiani stanno per scatenare in tutto il nord Italia. Laureano vuole mettere le mani sui cliché delle banconote da cinquanta e da cento pesetas che Franco per anni ha fatto stampare in quella città che è la vara capitale della Repubblica Sociale Italiana. Nella sua azione viene aiutato da alcuni partigiani toscani che fanno parte della brigata anarchica Malatesta-Bruzzi, la più numerosa e anche la più dimenticata tra tutte le brigate partigiane di Milano, che ha nelle case di ringhiera della Affori operaia una delle sue roccaforti. Quasi certamente, Laureano è stato messo in contatto con loro da Germinal Concordia che ha preso il comando delle Brigata, dopo la morte di Pietro Bruzzi che l'aveva fondata.
I partigiani toscani che aiutano Laureano, sono militanti abili e sperimentati, gente su cui fare affidamento a occhi chiusi. Vengono quasi tutti dalla città-fabbrica di Piombino, una delle roccaforti del sindacalismo rivoluzionario, hanno conosciuto la disperata fame della Maremma, poi hanno lavorato per anni all'Ilva e alla Magona. Hanno fatto parte degli Arditi del Popolo di Argo Secondari, morto in manicomio dov'era rinchiuso perché le randellate dei fascisti gli avevano irrimediabilmente lesionato il cervello. Si sono opposti, armi alla mano, alle squadre fasciste che per anni sono state alla larga dalla loro città prima di cadere, ultima roccaforte operaia, nelle mani delle camicie nere.
Malgrado abbiano da sempre in sospetto i 'politici' di ogni colore, si sono offerti di proteggere Antonio Gramsci quando sono venuti a sapere che il segretario del Partito Comunista è stato minacciato dai fascisti. Lasciati soli, sottoposti a continue perquisizioni da parte delle Guardie Regie e dei Carabinieri, ammoniti, beffeggiati di continuo, hanno dovuto abbandonare Piombino assieme alle loro famiglie e si sono trasferiti nelle periferie industriali delle grandi città del Nord:
se ne contano infatti alla 'barriera Nizza' e alla 'Milano' di Torino, come alla Bovisa, si sono stabiliti anche a Sesto San Giovanni e negli altri quartieri sorti attorno alle grandi fabbriche delle città del triangolo industriale. Quelli che vivono ad Affori, lavorano alla Carlo Erba, la fabbrica chimica che allora contava più di seimila operai e, in anni di fascismo trionfante, hanno mantenuto vivo un sotterraneo dibattito con i loro colleghi di lavoro.
Gli operai lombardi, specie quelli che arrivano dalla Brianza, li chiamano affettuosamente 'magazin de parol'. Citano in sala mensa i testi sacri dell'anarchia e pronunciano alla toscana i titoli dei libri del principe Kropottine, le frasi più riuscite di Bakuninne. Quando poi parlano di Pietro Gori, il poeta dell'anarchia che è praticamente un loro compaesano, si illuminano tutti. Ma i 'toscani', non si sono soltanto limitati a trasmettere i rudimenti di una cultura laica e libertaria, sono loro che assieme a qualche reduce della rivoluzione spagnola, a Torino come a Milano, hanno messo in piedi i primi Gruppi di Azione Partigiana che hanno assestato del colpi micidiali ai tedeschi ed ai fascisti. Sono riusciti infatti ad ammazzare, tra i tanti, a Milano, Aldo Resega, il capo delle Brigate Nere.

secondari

Quella mattina del 25 aprile, Laureano viene scortato da un gruppo da combattimento della 'Bruzzi' al palazzo della Zecca, rimasto vuoto. Si impadronisce dei cliché, torna in Francia, a Parigi, e va a vivere a Belleville, il quartiere che da sempre ospita e protegge i proscritti e gli esuli di tutto il mondo. Qui comincia a stampare banconote da cento e da cinquanta pesetas che vengono distribuite a tutti i gruppi da combattimento. Il suo obiettivo è però ancora più ambizioso. Laureano vuole infatti inondare la Spagna intera di vagonate di pesetas, per dare così un colpo mortale alla già traballante economia dello stato franchista.
Spaventati per il progetto di Laureano - che avrebbe indubbiamente degli effetti imprevedibili e potenzialmente devastanti - i dirigenti della CNT in esilio, in modo particolare Germinal Esgleas, gli chiedono di consegnare i cliché. Laureano, in un primo momento risponde di no: "Il denaro serve per la rivoluzione. Voi lo volete distruggere perché vi fa paura." Poi, alla fine, cede alle pressanti richieste del notabilato cenetista che subito distruggerà quei cliché diventati tanto pericolosi, come in seguito confesserà José Peirats. E' a questo punto che Laureano decide di mettersi per conto proprio: rifiuta l'obbedienza a qualsiasi organizzazione, se questa opera in modo opposto ai suoi convincimenti. Del resto, già durante la Guerra civile, contro il parere dello stato maggiore della CNT, aveva cercato di  far evadere Abd El Krim dalla prigione dove lo aveva rinchiuso lo stato francese: l'intuizione di Laureano, allora, era giusta. Se il capo berbero fosse arrivato a Barcellona e la CNT avesse riconosciuto l'indipendenza del Riff, tutte le tribù del Sahara sarebbero insorte contro Franco, sottraendo così al generale la sua sicura retrovia, da cui faceva affluire in Spagna quelle truppe coloniali decisive nel prosieguo della guerra. Il suo progetto, che avrebbe potuto per davvero cambiare il corso del conflitto, non avrà purtroppo seguito alcuno.
Comunque con i soldi già stampati, e con quelli che falsificherà, Laureano inaugura il "metodo Cerada Santos": aiuto disinteressato a tutti i rivoluzionari che lottano contro Franco, senza chiedere nulla in cambio, collaborando in tal modo sia con la "Defensa dell'Interior", l'organizzazione di combattimento della CNT, sia con i gruppi di anarchici ai margini dell'organizzazione, a volte anzi già in rotta con l'organizzazione stessa. Collabora infatti e aiuta Sabaté, Marcelino 'Pancho' Massana, Facerias e gli altri gruppi di guerriglieri. Inoltre realizza una impressionante rete di alberghi ed appartamenti dove i ricercati possono trovare sicuro rifugio, officine per la riparazione delle armi, depositi clandestini. Come quello di cui è responsabile Rafael Aguilera, che nasconde armi ed esplosivi all'interno del teatro Alhambra-Maurice Chevalier di Parigi, dove lavora come manovratore di scena. Armi che quasi costeranno la vita a Lucio Urtubia, incaricato della loro manutenzione: proprio mentre sta lubrificando una vecchia Mauser automatica, l'arma gli sfugge di mano, cade per terra, e parte un colpo che soltanto per miracolo non castra il navarro. Laureano svolge un'attività febbrile che lo porta in contatto, tra i tanti altri, con Luis Andres Edo (quello che Eduardo Quintela, il brutale commissario della Brigata Politico Social di Barcellona, chiama "il nemico pubblico numero uno") e con José Palacios, della Commissione di Difesa della CNT. Due tra i tanti "apaches" del movimento, due avventurieri della specie più nobile, quella che crede che l'umanità può salvarsi o, quanto meno, merita la pena di vivere per provarci. Nel 1947 Laureano acquista una lancia a motore con cui porta armi e rifornimenti ai gruppi che combattono contro Franco, in Spagna, poi mette in piedi la Empresa de Trasporte Galicia, in vista della "Operacion Panico", operazione che prevede l'uccisione dell'arcivescovo e del governatore di Saragozza e soprattutto l'eliminazione del Caudillo. Ma già, a causa della fallita "Operazione Pescatore d'acqua dolce", Laureano si ritrova nel mirino della polizia francese,
così, nel 1950, gli si spalancano le porte della Santée. L'accusa contro di lui, che è arrivato incensurato incredibilmente a quarantotto anni, è "detenzione di monete false". Rimane dentro un anno e, nel frattempo, la polizia e i servizi segreti smantellano la rete che Laureano ha creato in tanti anni e con tanta fatica. E' appena uscito dal carcere, quando cercano di incastrarlo nell'affare del fallito assalto al treno postale di Lione, un tentativo di rapina che si è concluso tragicamente con tre anarchici stesi sui binari della stazione, crivellati di colpi assieme a due poliziotti. E' il pretesto he la polizia aspettava per "ripulire" il mondo dei rifugiati da tutti gli indesiderabili! Cercano di mettere dentro anche Laureano, ma il tentativo di incastrarlo evapora come nebbia al sole, e in quel periodo, nel 1951, si riavvicina alla CNT e partecipa ad un congresso.

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Sarà l'ultimo, dei congressi del movimento, cui gli sarà permesso di partecipare: la dirigenza della CNT, prima lo sospende e poi lo espelle dal sindacato per "avere discreditato l'organizzazione, e  per i suoi contatti criminali", così si legge sul comunicato, freddo ed anodino, come sempre lo sono tutti i comunicati emanati dalla burocrazia. Laureano finisce ancora in carcere, a Evreux, sempre per falsificazione di documenti. Esce e entra dal carcere per tutti gli anni '50, perché  ormai la polizia francese gli tiene il fiato sul collo. Viene di nuovo arrestato, nel 1958, per avere falsificato dei marchi tedeschi. Nel frattempo, ha cercato, con certosina pazienza, di rimettere in piedi la sua "rete", ma i risultati questa volta sono stati scarsi. I compagni sono stanchi di quella lotta che pare non avere mai fine. Inoltre, stanno invecchiando in quell'esilio che ghiaccia loro l'anima. E poi il "verdugo", anzi il "cabron", come gli esiliati chiamano sempre Franco, non è mai apparso tanto forte come in quegli anni; anni che portano soltanto le notizie che, al di là dei Pirenei, gli uomini della resistenza cadono uno dopo l'altro in una lotta diventata ormai disperata e diseguale. Una generazione intera si è consumata in una lotta che dura ormai da decenni, e il ricambio non c'è stato . I giovani infatti, anche quelli che sono figli di compagni, sono tutti presi dai miti del consumismo che annuncia con orgoglio che la Francia, come del resto l'Europa intera, si è ormai allontanata definitivamente dalla seconda guerra mondiale. Ma quando ormai, anche Laureano, come tanti altri, appare incamminarsi verso una pacifica pensione, scoppia inaspettato il "Maggio" e il vecchio anarchico a quasi settanta anni, "torna in pista". Quei ragazzi, tanto diversi dai braccianti andalusi e dagli operai di Barcellona, hanno anch'essi l'ambizione di cambiare le cose, e scoprono stupiti che in Francia c'é un mondo che non avevano mai pensato lontanamente  potesse esistere: un mondo chiuso in sé stesso, impastato dal sapore amaro della sconfitta, formato in gran parte da vecchi che hanno patito le più cocenti delle delusioni, le sconfitte più devastanti, ma che non per questo sono peggiorati, né si sono inariditi. Uomini e donne per i quali, le necessità di uno, diventano quelle di tutti. Quei tranquilli signori, oramai anziani, hanno una storia alle spalle e, dopo un'iniziale diffidenza, accolgono fraternamente quei giovani studenti, cui trasmettono la memoria di qualcosa che è stato grande e forte. A Laureano quei giovani piacciono, piace la loro irruenza, la loro mancanza di rispetto per le regole che altri hanno scritto al posto loro, e si mette a disposizione, tanto che - almeno a dare retta a 'Le Monde' del 2 giugno del 1970 - finisce ancora in galera per avere falsificato delle patenti e delle carte d'identità: documenti che dovevano servire a quei ragazzi per tentare di aiutare la resistenza spagnola. Stavolta rimane in carcere per quattro anni interi e quando esce è diventato l'uomo più sorvegliato da parte dell'Interpol. Uscirà dalla prigione, in tempo. In tempo per essere ammazzato.

fonte:  Anarchici e anarchia

domenica 29 dicembre 2013

la barca dell’amore

gritoprova

C'è un breve saggio di Maurice Blanchot su Henri Lefebvre, intitolato "La parola quotidiana". Lo si trova, inserito ne "L'infinito Intrattenimento" (sottotitolo: Scritti sull'«insensato gioco di scrivere») e vale senz'altro più di una lettura. Il punto di partenza di Blanchot è assai chiaro: la quotidianità non ha niente a che vedere con la medietà, il quotidiano è qualcosa che, sfuggendo, sempre e del tutto, alla riflessione cosciente, permea silenziosamente l'esistenza di ciascuno di noi.
"L'uomo (l'uomo di oggi, quello delle nostre società moderne) è al tempo stesso sommerso dal quotidiano e privo del quotidiano, e - terza definizione - il quotidiano è anche l'ambiguità di questi due movimenti, entrambi difficili da cogliere."
Insomma, viviamo nel quotidiano sempre e, necessariamente, senza accorgercene. Non appena proviamo a rifletterci sopra, ecco che ne siamo già usciti fuori. Così, per Blanchot, il quotidiano è, allo stesso tempo, l'assenza ed il troppo pieno, è l'insignificante, ma è anche l'insieme di tutte le significazioni. E' l'assurdo, ed è il senso assoluto, la banalità ed il massimamente importante, la spontaneità della vita che scorre ed il rispetto indiscusso ed indiscutibile delle norme sociali. Senza corrispondere con esattezza a nessuno dei poli di tutte queste coppie opposte ed oppositive, si delinea proprio nella sua oscillazione continua, ed inafferrabile, fra esse. E finisce in tal modo per identificarvisi, e trascenderli.
"Il quotidiano ha un carattere essenziale: non si lascia cogliere. Sfugge. Appartiene all'insignificante, e l'insignificante è privo di verità, di realtà, di segreti; eppure potrebbe essere anche il luogo di ogni significante possibile."

La vita quotidiana è sempre tutt'altro. Non è il normale cui si oppone lo straordinario. Non è l'orizzonte scivoloso ed immediato che attende il sopravvenire di un qualsiasi miracolo. La passione predominate rimane sempre e soltanto la noia, una noia già vissuta o ancora da sperimentare, però mai sentita intensamente ed a lungo; in quanto sennò sarebbe già un uscir fuori dal tran tran.
Il quotidiano rimane privo di soggetto, e quindi sfugge sempre e non può essere narrato, perché quando viene narrato smette di essere quotidiano. Perché il quotidiano rimanda sempre a quella parte di esistenza non evidente, eppure non nascosta. Insignificante, silenziosa. Un silenzio che si dissolve nel momento stesso in cui taciamo per cercare di sentirlo: è più facile sentirlo se continuiamo a chiacchierare!
"(...) ciò che è reso pubblico per la strada non è realmente divulgato: lo si dice, ma questo 'si dice' non si fonda su una parola realmente pronunciata; così le voci sono riferite senza che nessuno le trasmetta e proprio perché chi le trasmette accetta di non essere nessuno."
Tutto questo ha un evidente riflesso sul piano della narrazione (quell'incastro programmato di azioni che fa sì che, anche solo per un giorno, l'attore diventi un eroe). L'esperienza quotidiana è priva di valori e di valenze: in essa, nessun eroismo è possibile!

"L'eroe, che pure è uomo di coraggio, ha paura del quotidiano, e ne ha paura non per il timore di una vita troppo facile, ma perché teme di incontrare la cosa più temibile: una potenza di dissoluzione. Il quotidiano rifugge dai valori eroici proprio perché rifugge ancor di più da ogni valore dell'idea stessa di valore e torna sempre a distruggere la differenza abusiva tra autentico e inautentico. L'indifferenza giornaliera si situa ad un livello dove non si pone la questione del valore: SI ha il quotidiano (senza soggetto, senza oggetto), e finché lo SI ha, il SI del quotidiano non deve valere, e se, malgrado tutto, il valore vuole intervenire, allora il SI non vale nulla, e nulla vale a contatto con esso."

Per Blanchot, il quotidiano è dunque il regno - pericoloso e temibile - dell'indifferenziato e della differenza assoluta, dell'amorfo e dell'informale, dell'insignificante e dell'ultrasensato. Qualcosa che può essere afferrato solo uscendo fuori da esso. La quotidianità non è mai "alla portata", proprio perché sfugge, e sfugge perché priva di qualsiasi soggettività identitaria. Più che identificarsi con una qualche, o qualsiasi, esperienza - la cosiddetta esperienza quotidiana - il quotidiano sta a monte, o a valle, di ogni esperienza.
Nel quotidiano, come a Delos, non si nasce e non si muore, perché non c'è né vero né falso.

sabato 28 dicembre 2013

manifesto di natale

K_with_Mamaine,_Robie_&_Flannery

Nell'agosto del 1945, Arthur Koestler aveva già molto viaggiato, ed aveva vissuto molte vite che, dalla nativa Ungheria e dal Partito Comunista di Germania, lo avevano portato agli angoli più estremi del mondo. Era stato al Polo Nord, quale unico reporter della spedizione artica Graf Zeppelin del 1931, e nella Legione straniera in Nord Africa - l'unico modo per sfuggire all'inevitabile esecuzione da parte di Vichy. Aveva partecipato, in prima persona, a più significativi movimenti politici e filosofici in Europa, dal sionismo in Palestina allo stalinismo in Russia e, proprio nell'agosto del 1945, la sua ricerca dell'utopia lo aveva portato, insieme all'ultima moglie, in Galles, a passare tre anni della sua vita in una fattoria che apparteneva a Clough Williams-Ellis, il costruttore della città costiera di Portmerion. Lasciava Londra, per un remoto angolo del Galles del nord, ma forse quest'angolo non era poi così remoto e la scelta di Koestler non era poi così astrusa. In quell'angolo di Galles esisteva un bel circolo intellettuale in sintonia con quelle che erano le idee di Koestler a quel tempo, e personaggi come Bertrand Russell vivevano a poche miglia. Ma Koestler aveva un altro motivo per quella scelta: un alleato, anch'egli disilluso, e disgustato, dallo sproloquio istituzionalizzato del Comintern. George Orwell.1984orwell01

Era proprio riferendosi a Koestler, che Orwell aveva scritto, "Al giorno d'oggi, in aree sempre più crescenti della terra, si viene imprigionati non per ciò che uno fa, ma per ciò che uno è o, più esattamente, per quello che uno è sospettato di essere". Quello di cui Orwell era stato testimone, ed aveva esperito, durante la guerra civile spagnola, le cose che lo avevano allontanato dalla sinistra istituzionale, di quelle cose Koestler aveva fatto esperienza con maggiore intensità. Era stato in prigione parecchie volte, prima di trasferirsi a Bwlch Ocyn, e non solo per mano dei tradizionali nemici della sinistra. Era stato il periodo passato in un campo di prigionia a Siviglia, sotto la minaccia costante di un'esecuzione, che aveva scolpito la sua scrittura. Aveva passato anche qualche tempo nel famigerato campo di prigionia politico di Le Vernet, in Francia, in quanto sospetto rivoluzionario comunista, ed era stato nella prigione di Pentoville, a Londra, fin dal momento in cui aveva messo piede in Inghilterra, dopo essere sfuggito ai nazisti.
Nel 1945, a guerra finita, il totalitarismo  - il nemico, sia di Koestler che di Orwell - continuava a fiorire, in tutta la sua grigia solennità, ed avrebbe continuato a farlo, nella Spagna di Franco fino al 1977, nel Portogallo di Salazaar fino al 1968 e nella Russia di Stalin per lungo tempo dopo la morte del despota avvenuta nel 1953. Le preoccupazioni di Orwell riguardo al totalitarismo trovavano riscontro nel lavoro di Koestler, e Orwell, come Koestler, aveva perso la sua fede nel socialismo comunista, in Spagna, negli anni trenta. Non aveva avuto bisogno, Orwell, di prigionia e tortura e, diversamente dal suo donchisciottesco amico ungherese, era un pragmatico. Ragion per cui, il loro rapporto non fu mai ... "regolare".
Proprio un mese prima che Koestler arrivasse a Bwlch Ocyn, Orwell era diventato vice-presidente della Freedom Defence Committee, un gruppo per le libertà civili che comprendeva anche Bertrand Russell. Il programma del Comitato era quello di contrastare i gruppi di sinistra, dominati dai comunisti, a Londra e sul continente. Ma ben presto Orwell, forse sentendo gli stessi aromi che aveva annusato in Spagna, cominciò a sentirsi troppo "stretto" dai capricci del presidente anarchico del comitato, Herbert Read. Koestler, cui era arrivata all'orecchio la disillusione di Orwell, lo invitò a trascorrere il Natale a Bwlch Ocyn. C'è da dire che insieme a Koestler e alla moglie, a Bwlch Ocyn c'era Celia, la cognata di Koestler, che Orwell aveva recentemente incontrato a Londra, e di cui si era innamorato. Koestler ne era a conoscenza e puntava sul fatto che Orwell avrebbe mollato tutto, per accettare l'invito. E così fu.
Koestler era interessato a fondare un Comitato di sinistra che non fosse in balìa di nessuna cricca, né comunista né anarchica. Orwell e Koestler, quel natale del 1945, parlarono a lungo della possibilità di fondare una nuova "Lega per i Diritti dell'Uomo". La loro visione del futuro era assai cupa, colorata solo dalla loro percezione che il totalitarismo ed il despotismo erano sempre più sostenuti dagli intellettuali, soprattutto in Inghilterra, come metodi degni di ammirazione. Orwell riteneva che la situazione richiedesse non solo un'azione politica, ma una ridefinizione della democrazia stessa. Mentre Koestler sapeva che per fondare il Comitato che lui aveva in mente, ci sarebbe stato del coinvolgimento intellettuale di Orwell e dell'approvazione di Bertrand Russell, il quale era l'indiscusso portabandiera dei progressisti a quel tempo.

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Non erano uomini avvezzi alle intimità dell'amicizia, Koestler ed Orwell. Testardo e forzatamente auto-disciplinato, Orwell, altrettanto testardo e spinoso, Koestler; eppure i due, a quanto pare, svilupparono una qualche sorta di amicizia, costruita sulla reciproca stima ed ammirazione, in quelle giornate, passeggiando e scambiandosi pensieri intimi e confessando le rispettive ambizioni. Ma le conversazioni, spinte da Koestler, tornavano sempre alla formazione del Comitato. Alla fine, dopo molti giorni, e notti, passati a dibattere sullo stato della sinistra in Europa e sulla velenosa influenza di Stalin, Orwell accettò di contribuire a formare questo Comitato. Tornato a Londra, Orwell trascorse una settimana a scrivere un Manifesto che poi fece recapitare a Koestler. "Mentre la libertà senza sicurezza sociale è priva di valore, ci si dimentica che, senza la libertà, non può esservi sicurezza alcuna", così cominciava il testo in cui Orwell si preoccupava di ridefinire la democrazia ed i rapporti fra la classe governativa ed il popolo su cui essa governava. Era il tentativo di una visione pura, non corrotta né dai mali e dall'avidità della destra né dalla corruzione della sinistra. La decostruzione della destra e della sinistra, era l'unica filosofia progressista praticabile; la più "orwelliana" delle eredità.
Il piano di Koestler, per coinvolgere Orwell, aveva funzionato; si trattava ora di reclutare altri per il comitato. Ma le cose andavano a rilento, alcuni dicevano che il manifesto era troppo anti-sovietico, altri lo ritenevano troppo astratto. Russell pensava che il mondo fosse sull'orlo del baratro di una guerra apocalittica e voleva trasformare il comitato in una conferenza sul pericolo di una guerra nucleare. Erano queste le condizioni di Russell, e Koestler ed Orwell, riluttanti, accettarono. Vennero coinvolti importanti filosofi politici come Victor Gollancz, Michael Foot, Edmund White, Andre Malraux, Manes Sperber, e gli editori di  "Polemic", un importante rivista teorica.
La conferenza non ebbe mai luogo e le ragioni di questo sono un esempio del meglio e del peggio di Koestler. Era stata la sua energia a mettere insieme tutte queste figure, e fu il suo temperamento che fece fallire il tutto. Nel giro di poche settimane, entrò in conflitto con i redattori di "Polemic", la cui collaborazione era fondamentale per il successo del movimento anche se solo da un punto di vista "amministrativo". Poi ruppe con Russell, dopo averne insultato la moglie durante un dibattito sul testo del Manifesto.

venerdì 27 dicembre 2013

Incertezza manifesta

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Si può amare il lavoro, la rigidità dei gesti obbligatori. Si può, altresì, godere del caos, dell'esitazione, della goffaggine, dell'errore. Si può amare la mancanza di scelta, si può perfino scegliere di non scegliere. In questo modo, ed in molti altri, "Manifeste Incertain" si muovi sui due territori, anche nel suo non essere veramente fumetto o romanzo, e neanche testo illustrato, oscillando fra testo ed immagine, quasi fosse solo una serie di frammenti sparsi, di storie, di citazioni, di dettagli storici, di aneddoti biografici. Come tracce di un naufragio avvenuto, dopo cui si raccolgono e si mettono insieme i pezzi rispescati al fine di costruire una qualche zattera. Una zattera su cui Frédéric Pajak se ne va alla deriva, galleggiando sulla Storia, dentro cui scruta per comprendere la propria, di storia, usando, a sua volta, il timone raffazzonato della sua propria esperienza, legato colle corde della sua timidezza paralizzante, per seguire una rotta immaginaria attraverso il passato. Convoca a sé, sulla zattera, Beckett, Céline, il pittore Bram Van Velde, il drammaturgo Ernst Toller, prima di abbandonarli per inseguire la stella di Walter Benjamin e i suoi anni fra Berlino e Ibiza, sballottati dal furore del secolo.
Le immagini non illustrano niente; piuttosto, vivono la loro vita trasportando sensazioni confuse. Un contrappunto, un modo differente di guardare. Danno inquietudine. I personaggi che ci vivono dentro hanno i tratti dissimulati, ci vivono come nascosti nell'ombra, a sottolineare come "Il luogo di nascita del romanzo è l'individuo nella sua solitudine".

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giovedì 26 dicembre 2013

Il Crollo

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Henryk Grossmann (1881-1954) rimane uno fra i pochi marxisti del XX secolo che hanno ancora qualcosa da insegnarci. Proprio per questo, è rimasto in gran parte sconosciuto e altrettanto sconosciuta rimane la sua traettoria, negli anni 1920 e 30, in seno a quella che in seguito verrà chiamata la Scuola di Francoforte. La sua teoria del crollo del capitalismo fu uno dei punti di maggior dissenso in seno al gruppo francofortese, prima della seconda guerra mondiale, e vide Horkheimer, Adorno e Marcuse - come reazione - aderire alla tesi, che oggi sappiamo essere erronea, del "primato della politica" nel quadro del capitalismo post-liberale (che Adorno continuava a chiamare "tardo capitalismo"), sorto intorno agli anni 1930. Era questa una tesi di cui Friedrich Pollock era stato il principale architetto in seno all'Istituto di Francoforte. Ma la polemica di fondo di cui si era fatto portatore un "outsider" come Grossmann, rimane tuttavia ancora oggi piena di significato, proprio dopo quegli avvenimenti che si sono verificati a partire dagli anni 1970 fino ai giorni nostri e che hanno contraddistinto una nuova configurazione storica del "kernel" capitalista: quella definito configurazione Keynesiana-liberale del capitalismo della crisi globale.
Era il 1924, quando Félix Weil, Friedrich Pollock e Max Horkheimer fondarono l'Istituto di ricerche sociali a Francoforte. Ed è il 22 giugno di quell'anno, quando il suo primo direttore, lo storico ed economista austriaco  Carl Grünberg - i cui allievi, a Vienna, erano stati all'origine della corrente austro-marxista -, conclude il suo discorso d'inaugurazione, affermando esplicitamente la sua adesione personale al marxismo. Si premura di precisare, tuttavia, che niente deve essere trasformato in un canone immutabile di verità eterne, inaugurando così quel"marxismo aperto" che verrà attribuito alla Scuola di Francoforte nel dopoguerra. Ma se, in seno all'Istituto, il dogmatismo della seconda e della terza Internazionale doveva affrontare delle critiche, era evidente che la maggioranza degli assistenti, in quella metà degli anni venti, era iscritta all'USPD (Partito Socialdemocratico Indipendente Tedesco) o al KPD (Partito Comunista di Germania), o comunque simpatizzanti del movimento comunista. In quell'epoca, tutti leggevano assiduamente le opere di Rosa Luxemburg, di Karl Korsch e di Georg Lukács, e molti dei giovani ricercatori dell'Istituto rimasero segnati dalla rivoluzione tedesca del 1918-22 (notamente consiliare) e dalla sua sconfitta.

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I primi anni dell'Istituto furono quindi caratterizzati da un dibattito interno sulla natura dell'Unione Sovietica e sulla teoria della crisi in Marx; dibattito che in parte rifletteva un conflitto generazionale. Il conflitto principale oppose le tesi di Henryk Grossmann a quelle di Friedrich Pollock - i due più importanti economisti dell'Istituto a quel tempo. Grossmann era stato allievo, a Vienna, di Carl Grünberg e proprio quest'ultimo lo aveva invitato, nel 1925, ad unirsi all'Istituto: fu per Grossmann, questa, l'occasione per poter sfuggire alla polizia che, in Polonia, lo aveva messo agli arresti domiciliari a causa delle sue simpatie verso il regime sovietico. La sua opera - diversamente, da quanto se ne dicesse - non era affatto caratterizzata dal marxismo positivista e meccanicista di Engels e di Kautsky. Piuttosto, la sua riflessione si inscriveva in una serie di risposte al revisionismo di Bernstein e sviluppava una critica delle osservazioni e dei commentari fatti da Rosa Luxemburg agli schemi dei modelli riproduttivi elaborati da Marx nel II Libro del Capitale. Negli anni 1926 e 1927, Grossmann tiene dei corsi che poi verranno raccolti, nel 1929, sotto il titolo de "La legge dell'accumulazione e del crollo del sistema capitalista". La pubblicazione di tale opera coincideva con l'inizio della crisi mondiale del 1929, e per tale motivo rivestiva un'enorme importanza.
Nel libro, viene rimessa al centro della teoria marxista la questione dei limiti oggettivi allo sviluppo del capitalismo, riprendendo la questione sollevata dalla Luxemburg ne  "L'accumulazione del capitale", che però ai suoi occhi era posta in maniera imperfetta ed in polemica con la teoria di Marx. Grossmann intende riprendere il problema, a partire dalle teorie della Luxemburg, concentrandosi sulla produzione, e non solo sulla realizzazione del plusvalore, come pensava quest'ultima. Sviluppa, in tal modo, una teoria del "crollo del capitalismo" provocato da una "assenza di valorizzazione in rapporto ad un eccesso di accumulazione". Per lui, la crisi consiste in una "diminuzione della massa del plusvalore". Nel 1940, Grossmann prosegue le sue riflessioni e pubblica, in poche copie, "Marx, l'economia politica classica e il problema della dinamica", la cui lettura non è affatto priva di interesse. Ma, diversamente dalle tesi di Rosa Luxemburg, la teoria del crollo del capitalismo di Grossmann divenne, rapidamente ed evidentemente, causa di divisione all'interno dell'Istituto.

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Fu Friedrich Pollock (1894-1970) il principale avversario della "tesi del crollo". Partendo da quelle che riteneva fossero le insufficienze del concetto di "lavoro produttivo" in Marx, presenta nel 1929 la sua critica a Grossmann nel libro "Esperienze di pianificazione economica in Unione Sovietica (1917-1927)", scritto in seguito ad un viaggio in Unione Sovietica dovr aveva potuto frequentare l'opposizione minoritaria all'interno del partito comunista sovietico. I forti dissensi interni riguardo al soggetto del lavoro di Pollock (che non venne mai pubblicato) e il sostegno incrollabile dato da Grossmann all'Unione Sovietica (che lo isolava dagli altri suoi colleghi) fecero sì che l'argomento finisse per passare sotto silenzio a partire dal 1929. Tanto che, nel primo numero della rivista dell'Istituto, nel 1932, due contributi - uno di Grossmann, l'altro di Pollock - trattavano di "economia marxista", di teoria delle crisi e di "alternative" pianificate al capitalismo, ma ciascuna delle tesi si preoccupava di ignorare bellamente l'altra. Nel frattempo, Horkheimer, si schiera dalla parte di Pollock, suo amico d'infanzia, e quando diventa direttore dell'Istituto, nel 1931, avrà a dire che il marxismo molto teorico e militante non è più adeguato. L'orientamento dell'Istituto diventa quello del "riesame dei fondamenti del marxismo". L'arrivo, nel 1932, di Marcuse e quello del 1938, ufficialmente, di Adorno - entrambi schieratisi dalla parte di Pollock - avrà l'effetto di cristallizzare ulteriormente il dissenso. Praticamente ignoranti delle questioni economiche e con una conoscenza assolutamente superficiale dell'opera di Marx - se non per quello che affermava il marxismo tradizionale - sposeranno velocemente la tesi pollockiana del primato della politica nel capitalismo post-liberale.
Con l'arrivo del nazismo in Germania, questo conflitto interno, cristallizzatosi attorno a Grossmann e a Pollock, uno autore della teoria del crollo e l'altro interprete della natura dell'Unione Sovietica, si trasporrà nell'analisi teorica del fascismo. Tutti gli articoli della rivista vengono discussi nell'ufficio di Horkheimer. Ma questo modello di funzionamento si blocca sulla questione del fascismo. Due campi (Kirchheimer, Franz Neumann, Grossmann da un lato, e Pollock, Löwenthal, Adorno, Marcuse ed Horkheimer dall'altro) che in parte riproducono i campi della precedente opposizione. In tale contesto, un po' teso, c'è da dire che Grossmann non ha partecipato a nessuno dei progetti di ricerca empirici dell'Istituto e conserva un posto del tutto marginale, alla luce della sua specialità. Paradossalmente, se si considera la situazione di crisi economica senza precedenti, i problemi della teoria critica dell'economia politica, ed in particolare la questione dell'accumulazione e del crollo del capitalismo, hanno un posto assai secondario nel programma definito da Horkheimer.
Nel 1949, Grossmann finirà per trovare un posto di professore di economia presso l'Università di Leipzig e lascerà l'Istituto qualche anno dopo, poco prima di morire, l'anno successivo.

mercoledì 25 dicembre 2013

Arricchitevi!!!

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Un mondo senza denaro
di Robert Kurz
 
Il pensiero utopico ha sempre giocato con l’idea di abolire il denaro. Generalmente, ad ogni modo, tale ragionamento non è stato all’altezza del suo obiettivo poiché il denaro è soltanto il fenomeno in superficie di una determinata forma sociale. Il denaro, secondo Marx, è l'apparenza di un’essenza sociale, che è il “lavoro astratto”, e del valore (la valorizzazione del valore). Qualsiasi tentativo di abolire solo la manifestazione superficiale, senza toccare la fondamentale struttura soggiacente, causerà disgrazia piuttosto che liberazione. Vale a dire che se, in una società produttrice di merci, il denaro viene spogliato della sua funzione regolatrice, abolendolo, al suo posto può sorgere solo una burocrazia totalitaria. Nella storia recente, sotto il regime di Pol Pot, le conseguenze più atroci di un tale progetto sono divenute realtà; anche i regimi nazionali in via di sviluppo, socialisti ed a capitalismo di stato, hanno mostrato ugualmente alcune di queste caratteristiche. Altri approcci all’abolizione del denaro, come i circuiti del baratto, hanno dovuto rinunciare ai vantaggi delle società altamente integrate. Inoltre, sono stati costretti ad emettere surrogati del denaro ("buoni di servizio" ecc.) e alla fine hanno fallito, come nel caso dell’Argentina. 
In generale, a quanto pare, l’energia utopica va comunque ad esaurirsi. Sotto il regno globale del radicalismo economico neoliberale, la soggettività del denaro è diventata indiscutibile, come mai prima, persino nelle baraccopoli. Paradossalmente, tuttavia, è lo stesso capitalismo che comincia ora ad abolire il denaro in quanto forma generale di mediazione sociale. E non solo nel senso superficiale, tecnologico, per cui le banconote vengono rimpiazzate da transazioni immateriali elettroniche, e scambi monetari basati su internet (“electronic banking”), così come era avvenuto in passato, quando le banconote avevano sostituito i metalli preziosi. Piuttosto, bisogna considerare come, in seguito alla crisi della terza rivoluzione industriale microelettronica, sempre più persone non sono in grado di partecipare all'economia monetaria generale. In quelle regioni economiche disconnesse dall’economia mondiale, la circolazione del denaro si riduce drammaticamente. Può succedere che, nelle regioni rurali del Brasile, la metà dei residenti di un villaggio devono essere chiamati per aiutare un negoziante locale affinché questi possa cambiare una banconota, mai vista prima, da venti euro. La metà dei sudafricani adulti non ha conti bancari. Due miliardi e 800 milioni di esseri umani, quasi la metà dell’umanità, dispongono di meno di due dollari al giorno.
Da lungo tempo, questa tendenza ha cominciato ad estendersi anche al mondo occidentale. Negli Stati Uniti sempre più lavoratori a tempo pieno cadono al di sotto della soglia di povertà, mentre, allo stesso tempo, tutti quelli che pagano in contanti, piuttosto che con la carta di credito, vengono considerati individui sospetti. In quel paese, come tutti sanno, le banche aprono con riluttanza un conto corrente alle persone che usufruiscono degli aiuti sociali. In molti paesi occidentali si diffonde un nuovo fenomeno di massa: coloro che non hanno un conto in banca il più delle volte non hanno nemmeno l’assistenza sanitaria, né il telefono, per non parlare di Internet. Nei discount, le persone calcolano le loro “decisioni di acquisto” esattamente al centesimo. Nel bel mezzo di un’economia monetaria, in apparenza completamente elettronica, una parte sempre più grande della società non ha accesso ai mezzi di pagamento si “smonetizza”. Le gigantesche bolle di debito corrispondono ad un’“economia del centesimo” sempre più in aumento.
Nel dibattito pubblico, di questa dimensione della crisi monetaria, che è in realtà una crisi del “lavoro astratto”,  non si parla. L’amministrazione capitalista della crisi, invece, reagisce alla riduzione della circolazione generale del denaro in un modo che non è molto differente da quello dei primi regimi a capitalismo di stato dell’utopia totalitaria: per mezzo di abusi burocratici nei confronti delle persone involontariamente “smonetarizzate”.
Allo stesso tempo, invece di portare avanti una critica emancipatrice nei confronti del sistema, e in un clima di angoscia per quanto riguarda i mezzi di pagamento, si assiste alla nascita di ideologie, razziste ed antisemite, che parlano di denaro "buono ed onesto" in cambio di lavoro "buono ed onesto".
Chi avrebbe mai pensato che il capitalismo potesse diventare un'utopia negativa!?!

Robert Kurz

fonte: Ozio Produttivo

martedì 24 dicembre 2013

Xmas Carol

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Certo, pensare che si possa proibire il Natale, soprattutto nell'emisfero occidentale, suona come qualcosa di assai estremo (tranne a Cuba, dove è stato proibito, da Fidel, per quarant'anni), ma l'aspetto curioso di questa storia sta nel fatto che una cosa del genere è accaduta in una delle tredici colonie destinate, più tardi, a formare il paese più potente del mondo che è oggi il più "natalizio" di tutti. Fatto sta, però, che le celebrazioni del Natale vennero proibite legalmente in Massachussets per un periodo di 22 anni, ed inoltre si resero necessari molti altri anni, prima che il Natale venisse celebrato apertamente come giorno di riunioni familiari e di riposo obbligatorio. Bisognerà arrivare a metà del XIX secolo, perché la festa del Natale diventi di moda, a Boston.
La storia comincia quando i Padri Pellegrini e i puritani arrivarono sul Mayflower, in fuga dall'Europa del 1620, portando con sé il loro frugale e rigoroso stile di vita, il loro credo religioso ed il loro disprezzo per la festa della Natività che vedevano come un falso giorno di festa che aveva molto più a che fare con il paganesimo che con il cristianesimo. In quanto cristiani devoti e riservati, nutrivano una fortissima avversione per il ballo e per le bevute associate ai giorni di non lavoro. A loro, il Natale, ricordava la Chiesa d'Inghilterra ed il vecchio mondo dal quale erano scappati ed inoltre non lo ritenevano una festa religiosa: la data del 25 dicembre, come giorno della nascita di Cristo, era stata scelta molti secoli dopo la sua morte. E le festività includevano bevute, feste e gioco d'azzardo, tutte cose che sarebbe eufemistico dire che la setta non vedeva di buon occhio.

natale

Man mano che l'insediamento stabilitosi nella baia del Massachussets cresceva, e continuavano ad arrivare sempre più inglesi, aumentavano anche le tensioni, specialmente tra i puritani e la maggioranza presbiteriana più recente. Fu nel 1659 che il divieto divenne ufficiale: il Tribunale Generale della colonia proibì la celebrazione del Natale e degli altri giorni di festa, insieme ad altri comportamenti, come il gioco d'azzardo,il consumo di alcol e l'ozio! A tal fine venne disposta una multa di cinque scellini nei confronti di chiunque venisse sorpreso a celebrare quella festa pagana. Il divieto verrà revocato nel 1681, da un governatore nominato dall'Inghilterra, Sir Edmund Andros, ma la visione puritana conservò la sua forza e dovettero passare quasi due secoli prima che, nel 1870, il Natale venisse dichiarato giorno di festa, da Ulysses Grant.

lunedì 23 dicembre 2013

il terzo uomo

norman

George Peter Norman quel giorno arrivò secondo (anche se, ancora oggi, molti giornalisti, rievocando quella giornata, lo danno per terzo) e così anche lui finì dentro quella fotografia destinata a diventare una delle icone di quell'epoca. Lui, bianco e australiano, quel giorno non alzò il pugno guantato e si limitò ad esibire, cucito sulla tuta sportiva, un adesivo con lo stemma dell'Olympic Project for Human Rights. Dicono che sia stato lui a suggerire a Tommie Smith e a John Carlos - visto che quest'ultimo aveva smarrito il proprio paio di guanti - di dividersi l'unico paio di guanti, uno sulla destra e l'altro sulla sinistra, quando avrebbero alzato i pugni, su quel podio che sarebbe passato alla storia.
00f/45/arve/g1936/037

Venti secondi e 06, il suo record nei duecento metri, tutt'ora imbattuto in Australia, che tuttavia non gli sarebbe servito ad evitare il boicottaggio dei media australiani per quanto aveva fatto nel corso della cerimonia di premiazione a Città del Messico, nel 1968. Nel 1972, verrà escluso dai giochi olimpici di Monaco di Baviera, nonostante si fosse qualificato sia nei cento che nei duecento metri. Quando morirà, per un infarto, nel 2006, all'età di 64 anni, saranno proprio Smith e Carlos a portarne la bara, al suo funerale.

norman funerale

domenica 22 dicembre 2013

La guerra disegnata

Ne avevo già ampiamente parlato, qui e qui, dei disegni fatti dai bambini spagnoli, rifugiati od evacuati, orfani e non, durante la guerra civile. Anche questi sono stati disegnati da bambini e ragazzini, la cui età andava da 4 a 14 anni. La loro visione, chiaramente, appare a volte innocente, a volte decisamente influenzata; comunque sorprendente.

Spagna disegni

sabato 21 dicembre 2013

Il grande Blek

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« La prima volta, e l'ultima, che ho pianto di cuore in vita mia è stato all'età di sette anni e proprio per il Grande Blek. Qui forse varrebbe la pena una spiegazione sulla diversità del «pianto di cuore» dagli altri pianti. Il pianto di cuore si caratterizza per una straordinaria forza vitalistica; chi piange di cuore non è certo allegro, è disperato, ma è come se «in cuor suo» intravedesse intero il cammino del riscatto dalla sofferenza momentanea. Niente a che vedere con la fase attuale di sacche lacrimarie vuote, anzi malate per essere secche e svuotate, e il pianto raro, quando c'è è veramente esplosione nervosa all'esterno di una ferita grossa così, vera e sanguinolenta dentro.
Insomma dicevo del mio ultimo e primo pianto. Ero legato ad un palo di «tortura», catturato da una banda rivale di ragazzini in un campo di periferia, in borgata, a nord della Grande Città. Non soffrivo per le minacce della banda nemica che mi aveva torturato, la banda dei Texviller: («Parla, se no!», «No, non parlo io non tradisco!»). Piangevo perché dopo la battaglia persa, i nemici avevano catturato come bottino di guerra il nostro scatolone di cartone che conteneva ben due annate di giornaletti del Grande Blek. E adesso, quelle carogne, davanti ai miei occhi sconfitti, stavano bruciando lo scatolone con dentro gli esili rettangoletti multicolori di carta stampata, che si accartocciavano in nero dentro la fiamma.
Quello era il segno vero che la battaglia, quel giorno (altre ne avevamo vinte però), fatta di fionde, toppe di terra, sassi e bastoni, di qua e di là dalla marrana del fosso, era inevitabilmente persa.
Mi sono spesso chiesto che cosa legasse me e gli altri bambini come me a Blek Macigno, tanto da farlo diventare la nostra bandiera. L'altra banda, dall'altra parte del rigagnolo della marrana, della borgata di Tomba di Nerone, la cui unica delimitazione era costituita, dalla storia dei nuclei umani degli edili che l'avevano fondata e costruita il sabato e la domenica, aveva invece come bandiera Tex Willer. Tex era il caw boy classico, solitario quanto basta per unirsi con presunzione anche in azioni da commando, spavaldo e un po' provinciale, anche se le sue avventure rasentavano sempre un improbabile mistero ai confini d'una città perduta, e quindi ci risultava quanto mai scontato. Il trionfo della giustizia per lui non era cosa sempre limpida; i suoi interrogatori dei nemici catturati sono sempre violenti. Addirittura egli usava la tortura. Insomma un vero rappresentante del mondo adulto.
Blek era proprio l'opposto. Di fronte ad una persona indifesa che sta correndo un qualsiasi pericolo, sia essa amica o nemica, partiva all'assalto, senza contare il numero dei nemici da affrontare. L'azione era il suo linguaggio, sempre dentro il tempo da vivere, mai sopra o sotto, o ai margini. Blek trattava i prigionieri e i vinti con rispetto, bestemmiava come intercalare, sognava ad occhi aperti. Anarchico, non amava nessun capo e nessuna legge, pur avendo un suo codice morale rigorosissimo. Scappava dalle donne, è vero, ma le salvava sempre nei momenti di pericolo e solo se loro lo chiedevano.
E tutto questo da solo, assolutamente. Ecco dopo molto tempo, posso riconoscere che la scoperta di Blek è stata per me la scoperta della solitudine che agisce nella realtà.
Altro fatto inspiegabile era il legame col mondo del Grande Blek a partire dal nostro scenario di borgata: marrana, casette di tufo non terminate, cancelletti di legno, niente acqua, né luce, né strade, qualche rudere romano e bunker di cemento delle truppe tedesche della seconda guerra mondiale, boschetti incerti ai margini delle fogne. Una desolazione che viveva in attesa delle visite in città, della radio che portava la città fino nelle parti in cui stava ancora definendosi. Invece l'area mitica, temporale e geografica, del Grande Blek andava dalle regioni americane del Maine fino al Massachussets, in una zona molto vasta dominata dai monti Appalachi, ricca di fiumi che vanno a gettarsi nell'Oceano Atlantico, con un ricco manto verde di foreste di conifere, betulle, pioppi. La fauna era composta di orsi bruni, tassi, aquile ed enormi pesci di fiume. Roditori, tanti roditori. Anche noi avevamo i roditori, topi grossi così.
Ma era come se l'aria polare dell'anticiclone del Manitoba, che proveniva dal Canada, arrivasse fino a noi in borgata. Con il cappello da cacciatore d'orsi, quello con la coda di castoro, che per noi era inevitabilmente e più facilmente coda di coniglio, scoprivamo con Blek un mondo di foreste incontaminate dove gli animali e gli uomini, gli indiani e i pionieri-trappers erano la stessa persona. »

- Tommaso Di Francesco - da "il manifesto" del  2 agosto 1987 -


Il primo numero di Blek uscì nel 1954 nel formato a strisce tipico di quegli anni, e quasi subito raggiunse un successo clamoroso, superando tutti i suoi diretti concorrenti (Tex compreso!) con vendite che si aggiravano intorno alle 400.000 copie, cifra che, nel fumetto italiano, sarebbe stata replicata solo trent'anni dopo da Dylan Dog. Il suo dominio durò all'incirca un decennio, fino a quando, nel 1965, la casa editrice che ne curava le pubblicazioni, la Dardo, ruppe con gli autori e lasciò la serie in altre mani, con scarsi risultati e una breve sopravvivenza.

venerdì 20 dicembre 2013

“Uomini efficaci”!!

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Il padre fondatore del management moderno nell'industria pensava che la "limitazione della produzione" volontaria o la "pigrizia" fosse sempre stato il peccato originale della classe operaia. "La pigrizia naturale dell'uomo è importante" scriveva Frederick W. Taylor, "ma il più grande male di cui soffrono gli operai e gli impiegati è la pigrizia sistematica la quale è pressoché universale". La crociata di tutta una vita contro l'operaio "autonomo ed inefficace" è stata la cristallizzazione del sue esperienze personali in qualità di caporeparto alla Midvale Steel Company, a Filadelfia. Per tre anni, portò avanti una crociata incessante contro i macchinisti ed i lavoratori che accusava di ridurre collettivamente la produzione. Alla fine, riuscì a rompere la coesione del gruppo dei lavoratori e a ridurre "la pigrizia" dopo una serie di multe e di licenziamenti spietati. Per questa vittoria di Pirro ci vollero "tre anni di lavoro, duro, odioso, spregevole ... passato a cercare di guidare i miei amici a fare un lavoro corretto". Tutto ciò convinse Taylor che la sola repressione era una base inappropriata su cui costruire il controllo manageriale sulle condizioni di produzione. Dopo diversi anni di sperimentazione nell'industria dell'acciaio e nelle officine degli aggiustatori, e con l'aiuto occasionale dei principali leader del settore, di industrie come Bethlehem Steel ed altri grandi imprese, Taylor sistematizza le sue idee in una serie di libri. Fra tutti, la sua opera "The Principles of Scientific Management" è stata la più efficace ai fini della diffusione delle sue idee. Alla fine, il libro, in cui si proponevano delle soluzioni efficaci al problema della limitazione intenzionale della produzione e della pigrizia nel lavoro, venne tradotto in una dozzina di lingue, e divenne la bibbia degli "uomini efficaci" in tutto il mondo.
La base tradizionale della pigrizia nel lavoro - spiegava - è stato il grado di controllo esercitato dai lavoratori qualificati , grazie alla loro padronanza del processo di produzione. L'esclusività del mestiere, mantenuto attraverso il controllo dell'ingresso nella forza lavoro, e la monopolizzazione delle competenze usate pressoché come una forma artigianale di proprietà individuale, ha impedito alle forze del libero mercato di operare relativamente ai salari e all'occupazione.
Inoltre, Taylor era cosciente che la sottomissione degli occupati alla nuova disciplina della catena di montaggio non risolveva automaticamente i problemi summenzionati, fino a quando una minoranza del personale conservava il diritto di definire cosa fosse una "giornata di onesto lavoro". Taylor insisteva sul fatto che la condizione "sine qua non" per dare tutto il potere al management era che questi si doveva appropriare integralmente dei segreti del mestiere e delle tradizioni degli operai qualificati. Le tecniche di studio dei tempi e dei movimenti, sviluppata da Taylor, e poi perfezionate da altri, consistevano in dei metodi precisi volti ad analizzare le competenze degli operai qualificati, richieste dal processo di produzione. Tali studi "scientifici", condotti da una nuova categoria di ingegneri della produzione, e dai devoti di Taylor, diverranno lo standard per poter minare l'autonomia del lavoro qualificato. La conoscenza dei processi di produzione sarebbe stato monopolizzato dal management, tanto che i compiti qualificati sarebbero stati divisi in attività più semplici e compatibili.
Gli operai qualificati presero immediatamente coscienza della doppia minaccia portata dall'organizzazione scientifica del lavoro: la perdita del controllo sul mestiere e la polarizzazione radicale tra lavoro manuale e lavoro intellettuale. Nel 1916, un leader del sindacato dei fonditori analizza con perspicacia la situazione in via di degradazione degli operai qualificati americani: "La grande risorsa dei lavoratori è il loro saper fare. Il più grande colpo che potrebbe essere portato al sindacalismo ed ai lavoratori organizzati sarebbe il riuscire a separare le competenze ed il saper fare. Recentemente, tale separazione tra competenze e saper fare, è stata realizzata in settori sempre più numerosi e sempre più velocemente. Questo processo si riconosce dall'introduzione di macchine e dalla standardizzazione degli strumenti, delle materie prime, dei prodotti e dei processi che rendono possibile la produzione in grande scala. La seconda forma, più insidiosa e più pericolosa della prima, consiste nel raggruppamento sistematico nelle mani del padrone, di tutte le competenze sparse, il quale in seguito le ridistribuisce sotto forma di istruzioni minute, dando a ciascun lavoratore solo quella quantità di informazioni necessarie alla realizzazione meccanica di un'attività cronometrata. Questo processo - è evidente - separa la competenza ed il saper fare, anche quando queste due cose sono strettamente legate. Una volta realizzato questo processo, il lavoratore non è assolutamente più un operaio qualificato, ma una marionetta animata dalla direzione."

giovedì 19 dicembre 2013

Colpe

Engels-Marx

"(...) Di più né io né Marx abbiamo mai affermato. Se ora qualcuno distorce quell'affermazione in modo che il momento economico risulti essere l'unico determinante, trasforma quel principio in una frase fatta insignificante, astratta e assurda. La situazione economica è la base, ma i diversi momenti della sovrastruttura - le forme politiche della lotta di classe e i risultati di questa - costituzioni stabilite dalla classe vittoriosa dopo una battaglia vinta, ecc. - le forme giuridiche, anzi persino i riflessi di tutte queste lotte reali nel cervello di coloro che vi prendono parte, le teorie politiche, giuridiche, filosofiche, le visioni religiose ed il loro successivo sviluppo in sistemi dogmatici, esercitano altresì la loro influenza sul decorso delle lotte storiche e in molti casi ne determinano in modo preponderante la forma. È un'azione reciproca tutti questi momenti, in cui alla fine il movimento economico si impone come fattore necessario attraverso un'enorme quantità di fatti casuali (cioè di cose e di eventi il cui interno nesso è così vago e così poco dimostrabile che noi possiamo fare come se non ci fosse e trascurarlo). In caso contrario, applicare la teoria a un qualsiasi periodo storico sarebbe certo più facile che risolvere una semplice equazione di primo grado.
Ci facciamo da noi la nostra storia, ma, innanzitutto, a presupposti e condizioni assai precisi. Tra di essi quelli economici sono in fin dei conti decisivi. Ma anche quelli politici, ecc., anzi addirittura la tradizione che vive nelle teste degli uomini ha la sua importanza, anche se non decisiva. Lo Stato prussiano è nato e si è sviluppato anche per motivi storici, in ultima istanza economici. Ma sarebbe pressoché impossibile non cadere nella pedanteria affermando che tra i molti staterelli della Germania settentrionale proprio il Brandeburgo era destinato per una necessità economica e non anche per altri fattori (primo fra tutti il fatto di esser coinvolto, tramite il possesso della Prussia, con la Polonia e, attraverso questa, con tutta la situazione politica internazionale - la quale è certo decisiva anche nella formazione dei possedimenti privati della dinastia austriaca) a diventare quella grande potenza in cui si sarebbe incarnata la differenza economica, linguistica, e a partire dalla Riforma anche religiosa, tra nord e sud. Difficile sarebbe non rendersi ridicoli spiegando economicamente l'esistenza di ogni staterello tedesco del passato e del presente, o 1'origine della rotazione consonantica altotedesca, che ha fatto della barriera formata dalle montagne dai Sudeti al Tauno una vera e propria frattura che attraversa la Germania.
Ma in secondo luogo la storia si fa in modo tale che il risultato finale scaturisce sempre dai conflitti di molte volontà singole, ognuna delle quali a sua volta è resa quel che è da una gran quantità di particolari condizioni di vita; sono perciò innumerevoli forze che si intersecano tra loro, un gruppo infinito di parallelogrammi di forze, da cui scaturisce una risultante - l'avvenimento storico - che a sua volta può esser considerata come il prodotto di una potenza che agisce come totalità, in modo non cosciente e non volontario. Infatti quel che ogni singolo vuole è ostacolato da ogni altro, e quel che ne viene fuori è qualcosa che nessuno ha voluto. Così la storia, quale è stata finora, si svolge a guisa di un processo naturale, ed essenzialmente è soggetta anche alle stesse leggi di movimento. Ma dal fatto che le singole volontà - ognuna delle quali vuole ciò a cui la spinge la sua costituzione fisica e le circostanze esterne, in ultima istanza economiche (le sue proprie personali o quelle generali e sociali) - non raggiungono ciò che vogliono, ma si fondono in una media complessiva, in una risultante comune, da questo fatto non si può comunque dedurre che esse vadano poste = 0. Al contrario, ognuna contribuisce alla risultante, e in questa misura è compresa in essa.
(...)
Del fatto che da parte dei più giovani si attribuisca talvolta al lato economico piú rilevanza di quanta convenga, siamo in parte responsabili anche Marx ed io. Di fronte agli avversari dovevamo accentuare il principio fondamentale, che essi negavano, e non sempre c'era il tempo, il luogo e l'occasione di riconoscere quel che spettava agli altri fattori che entrano nell'azione reciproca. Ma appena si arrivava alla descrizione di un periodo storico, e perciò a un'applicazione pratica, le cose cambiavano, e nessun errore era qui possibile. Ma purtroppo è fin troppo frequente che si creda di aver capito a fondo una nuova teoria e di poterne senz'altro fare uso non appena ci si sia impadroniti dei suoi principi fondamentali, e anche questo non sempre in modo corretto. E questo rimprovero non posso risparmiarlo neanche a qualcuno dei recenti "marxisti", e ne è venuta fuori anche della roba incredibile. (...)"

- Friedrich Engels - dalla "Lettera a J. Bloch" - 21 settembre 1890 -

mercoledì 18 dicembre 2013

La bellezza dell'insuccesso

benjam

Walter Benjamin, L’angelo assassinato
di Tilla Rudel

Chi è, lui, Walter Benjamin, eroe indiscusso del nostro tempo? E' stato un'icona per diverse generazioni, è stato celebrato da ricercatori e intellettuali, gli «stakanovisti benjaminiani», come li chiama George Steiner, dopo essere stato ignorato, respinto dall'università, disprezzato o quasi dai suoi contemporanei. A Francoforte, durante l'occupazione studentesca dell'università nel 1968, l'Istituto di studi germanici viene ribattezzato proprio con il suo nome: Benjamin, uno degli intellettuali europei più importanti del XX secolo, che tuttavia incarna, meglio di chiunque altro ad eccezione forse di Franz Kafka, suo fratello spirituale e di pensiero «la purezza e la bellezza dell'insuccesso». Come se avesse scelto apposta di soffrire così tanto.
Sempre al di fuori delle correnti, inclassificabile, sfuggente a qualunque catalogazione. Assolutamente senza confronto, come lo definisce Hugo von Hofmannsthal: schlechtin unvergleichlich. Cosa importa, quest'opera è fatta per essere esplorata, nel disordine e nell'amicizia, nell'arbitrarietà' stessa del caso, nella golosità dell'estratto. E' fatta di citazioni, di frammenti, di tentativi, di scintille, di diamanti come di carbone. Stéphane Hessel testimone prezioso riferisce della tradizione che consisteva, a casa di Walter Benjamin come a casa di suo padre Franz Hessel, quando si incontravano, nell'infilare un coltello fra le pagine della Bibbia. Poi leggevano il primo versetto in alto a sinistra: quelle parole erano considerate la spiegazione di qualche cosa del presente, o la risposta a una domanda fatta subito prima.
Così è l'opera di Benjamin: incompiuta, anacronistica, inqualificabile, ingiusta, imperfetta, frammentata, composta di tratti folgoranti, di razzi illuminanti. Benjamin è difficile da seguire, ed è per questo che si cerca la sua compagnia: con lui, il più abbandonato fra i solitari, ci si sente stranamente meno soli. Affascina.
Theodor W. Adorno dice semplicemente che «quando si era sensibili al suo pensiero, ci si sentiva come un bambino che intravede l'albero di Natale dalla serratura di una porta chiusa» (Su Walter Benjamin). Eppure l'esercizio che consiste nel ripercorrerne la vita e gli itinerari è reso difficile dal suo gusto per l'andare a zonzo, dalla sua percezione del tempo, della lentezza tipica dei malinconici, e dalla sua passione per lo spostamento continuo.
Questo Socrate moderno ha avuto mille indirizzi diversi. Contrariamente alla maggior parte dei filosofi della sua epoca o del XIX secolo, Benjamin ha viaggiato moltissimo, all'inizio volontariamente, poi nel periodo dell'esilio costretto a farlo. Possiede un'inclinazione per la fuga, perché l'amore lo porta a seguire le sue passioni ai quattro angoli d'Europa, è un gran camminatore, perché gli piace osservare e descrivere, di passaggio eppure di casa nelle città cui è più legato, Parigi e Berlino, Mosca e Gerusalemme, sognata con meno forza, New York immaginata ma mai raggiunta. Un fuggitivo forse, senza fissa dimora: quando scappa dalla Germania nel 1933, è per andare in Francia... Non va né a Londra, dove si sono trasferiti la sua ex moglie e suo figlio, Dora e Stefan, né in Palestina dove il suo amico Gershom Scholem lo aspetta per anni. E quando infine, a Parigi nel 1940, di fronte all'evidenza del pericolo, si decide a emigrare negli Stati Uniti con la complicità di Theodor W. Adorno e di Max Horkheimer, è troppo tardi...
L'esiliato, il proscritto, l'apolide è condannato all'anonimato della morte e alla mancanza di una vera sepoltura. Gettato nella fossa comune dell'indifferenza. In assenza di una spoglia sotto una pietra tombale, Benjamin resterà un filosofo in movimento, un filosofo di passaggio. Le uniche tracce certe di lui sono i suoi testi.
L'uomo è un giocatore, anche nella vita. Benjamin gioca a poker, il re dei giochi, con Gershom Scholem e Bertolt Brecht, e con quest'ultimo fa lunghe partite a scacchi. «Stancare l'avversario era la sua tattica preferita /Durante le partite di scacchi all'ombra del pero / il nemico che ti ha fatto abbandonare tutte le tue carte / da persone come noi non si lascia stancare » dice una poesia di Brecht. Gioca anche a Parigi, in rue Dombasle, con Arthur Koestler. Con degli sconosciuti su un treno. Gioca a carte, gioca al «go», gioca a soldi. E' bravissimo nel perdere tutto, tanto più che non possiede nulla. Frequenta i casinò, mette tutto sul banco, ne esce principe o mendicante.
Benjamin ama l'immagine di coloro che sono stati rovinati al gioco: la sua malinconia rivoluzionaria lo porta a dare la parola ai vinti, agli umiliati, ai dimenticati. Ha presagito con largo anticipo il disastro che la società europea stava per partorire: un immenso declino, come il passaggio dall'infanzia all'età adulta. La sua acutezza nel prevedere la rovina è impressionante.
Benjamin senza dubbio è inclassificabile. L'uomo dei passaggi di frontiera e delle trasgressioni. Lui che scrive dei passages parigini, che attraversa l'Europa come apoteosi del labirinto della vita, morirà vicino a una frontiera. Non si passa! E' la frontiera della sua opera: al crocevia fra critica, arte, filosofia, letteratura, cultura, teologia, storia, politica, combattuto fra marxismo e giudaismo, fra materialismo storico e mistica ebraica.
La sua modernità, l'eco straordinaria che incontra oggi si deve al fatto che è uno dei primi pensatori a incarnare quella multidisciplinarità che caratterizza la nostra epoca. E' uno scrittore, un traduttore, un giornalista, un filosofo, un poeta, un collezionista? Tutte queste cose o nessuna? E' certamente molto dotato. Tanto che Hannah Arendt scrive che «quello che era davvero difficile da capire in Benjamin era che, pur senza essere un poeta, pensava poeticamente» , mentre Gershom Scholem afferma: «Benjamin era un filosofo. Lo era in tutte le fasi della sua attività, e in tutte le forme che questa assumeva. Visto dall'esterno, scriveva per lo più su temi rilevanti della letteratura e dell'arte, spesso anche su fenomeni al limite fra letteratura e politica, raramente sulle cose che per convenzione passano per temi di filosofia pura e sono riconosciute come tali. Ma ad animarlo in tutto ciò sono le esperienze proprie del filosofo» (Walter Benjamin e il suo angelo). Per Adorno, questa filosofia «è fonte di terrore tanto quanto promessa di felicità».
Muore a quarantotto anni, nel 1940, quando si sta preparando l'Apocalisse. Muore senza aver mai saputo chi erano i suoi predecessori, né chi saranno i suoi discepoli. La memoria di lui è assassinata selvaggiamente nel 1940, ma gli uomini, che pure non amano ricordare, lo scopriranno e ne faranno un loro contemporaneo. La sua vita non è conclusa, non meno della sua opera. Susan Sontag dice che in lui «ogni frase è scritta come se fosse la prima o l'ultima». L'opera è straordinariamente anacronistica, unica. Postuma. Ogni giorno, dopo la sua morte, Benjamin vive un po' di più.

- Tilla Rudel - 

martedì 17 dicembre 2013

consapevolezza

wigan pier

"Sul retro d'una di quelle case, una giovane donna, ginocchioni sulle pietre, frugava con un bastone nella tubatura di piombo che proveniva dall'acquaio interno e che suppongo fosse ingorgata. Ebbi tempo di vedere ogni cosa di quella donna, il grembiule di tela di sacco, i suoi goffi zoccoli, le braccia arrossate dal freddo. Ella alzò lo sguardo al passaggio del treno, e io fui quasi sul punto di incontrare quello sguardo. Aveva il volto pallido e tondo, la solita faccia esausta della ragazza di slum, che ha venticinque anni e ne dimostra quaranta, grazie ad aborti e fatiche; ed era improntata, quella faccia, alla più desolata, disperata espressione che io abbia mai visto. Mi colpì allora il pensiero che noi tutti ci sbagliamo quando diciamo che per loro non è la stessa cosa che sarebbe per noi, che la gente cresciuta nelle baracche e in vicoli sordidi non può immaginare altro che baracche e vicoli sordidi. Perché ciò che vidi nella sua faccia non era l'ignara sofferenza di un animale. Ella era ben consapevole di quanto le stava accadendo, capiva chiaramente come me che terribile sorte sia doversene stare ginocchioni nel freddo intenso, sulle viscide pietre di un retro di baracca, a frugare con un bastone in un tubo di scarico intasato di sporcizia."

- George Orwell - da "La strada di Wigan Pier" -

lunedì 16 dicembre 2013

Tutti insieme noi cantiam ...

Mickey Mouse mask 1942

Nel corso della seconda guerra mondiale, l'esercito imperiale giapponese, fra le altre cose, aveva messo a punto un programma di ricerca sulle armi biologiche, e lo aveva fatto conducendo esperimenti sulle popolazioni cinesi, soprattutto a Pechino ed in Manciuria. Solo quando i giapponesi bombardarono Pearl Harbour, gli Stati Uniti si resero conto che esisteva il rischio, ed un pericolo, terribilmente reale che il loro territorio poteva essere attaccato, e non solo con armi convenzionali. Il rischio era che potessero essere usate armi chimiche come quelle impiegate in Cina. Ragion per cui, in un quadro di sicurezza nazionale, il governo statunitense cominciò la distribuzione di maschere antigas alla popolazione delle Hawaii, e ben presto si rese conto che esisteva un problema non di poco conto: le maschere, costruite per adattarsi alla struttura facciale degli adulti, non erano adatte per i bambini, cui altresì procuravano paura solo a vederle, rendendo ancora più difficile, se non impossibile, il fatto che potessero indossarle.
Ben presto, cominciò a delinearsi una soluzione. Una soluzione che aveva le sembianze di ... "Topolino", la cui iconica faccia venne usata proprio per fabbricare maschere antigas infantili. La produzione ebbe inizio nel 1942, giusto un mese dopo cheil Giappone aveva bombardato le Hawaii. Del disegno se ne incaricò Walt Disney in persona, e la maschera venne progettata perché si potesse comodamente adattare anche sul viso di un bambino di quattro anni. La sua funzione era proprio quella di essere, per i bambini, una "maschera", un giocattolo come qualsiasi altro che però doveva avere anche un'utilità pratica, a partire dal fatto che si ipotizzava che i bambini la portassero sempre con sé, proprio in quanto giocattolo preferito.
Per portare a termine i primi test, ne vennero fabbricati. ed inviati, mille esemplari ad un migliaio di bambini che, però, non arrivarono mai a doverle utilizzare in quanto il pericolo, alla fine, non si concretizzò. Ragion per cui, la tiratura rimase assai limitata, e questo spiega perché oggi sia quasi impossibile trovare una di quelle maschere che, poi, a guerra finita, l'esercito regalò, come souvenir, ai più alti funzionari. civili e militari, dell'epoca.

mickey maschera

domenica 15 dicembre 2013

Reincantare il mondo

melanconia

Grandezza e limiti del romanticismo rivoluzionario
di Anselm Jappe

Non è passato molto tempo da quando il mondo si divideva in due: da una parte, i "progressisti", dall'altra, i "conservatori", i "reazionari". Tutto quello che stava "a sinistra", quello che era rivoluzionario o, almeno, realmente riformatore, tutto ciò che si batteva per l'emancipazione delle classi oppresse e sfruttate, si poneva nella prospettiva del "progresso", di un'avanzata - generalmente considerata come ineluttabile - verso un futuro migliore; dall'altra parte della barricata, le classi dominanti si opponevano ad ogni progresso o volevano restaurare le vecchie forme di società di quando esse regnavano in maniera assoluta. Secondo tale visione, ogni distruzione di un elemento delle società ereditate dal passato costituiva un passo in avanti, un passo verso l'emancipazione. Questo "progresso sociale" trovava il suo fondamento e la sua garanzia nell'incessante progresso della scienza e delle sue applicazioni tecnologiche, e lo traduceva sul piano storico, secondo la teoria marxista per cui le forze produttive, alla lunga, finisco sempre per invertire i rapporti di produzione, quando questi non sono adeguati al loro sviluppo: alla fine, è il progresso stesso della tecnologia che fa trionfare la classe operaia sul borghese parassita. Il progresso era il figlio dei Lumi del XVIII secolo e della loro realizzazione parziale durante la Grande Rivoluzione francese, di cui tanto il marxismo quanto le altre correnti "progressiste", si sono proclamati continuatori - spesso con l'intenzione dichiarata di "portare a termine" il progetto emancipatore dei Lumi, che ritenevano tradito o lasciato incompleto dalla stessa borghesia che l'aveva iniziato.
Questa fiducia nella marcia della storia, spinta dalla scienza e dalla tecnica, è rimasta seriamente scossa nel corso di questi ultimi decenni. Inseguire lo sviluppo delle basi materiali del capitalismo, per cambiarne semplicemente il regime di proprietà, si è rivelata sempre più come una prospettiva desiderabile o semplicemente possibile (anche se questa convinzione, un po' riformulata, ha la vita dura, sia in seno alla "sinistra" riformista che in quella radicale). Il mondo non va affatto meglio e continua a suscitare il desiderio di cambiarlo profondamente. In tale contesto hanno cominciato ad emergere delle forme di opposizione al capitalismo che non si inseriscono facilmente nello schema concordato "progressista contro conservatore" - in particolare, l'ecologismo. E, parimenti, si è presa coscienza del fatto che la modernità capitalista ha generato, lungo il suo percorso, differenti critiche del progressismo, critiche spesso virulente che si nutrono della nostalgia di un passato suppostamente migliore e ne hanno tratto una condanna del presente; critiche che hanno messo in evidenza, accanto allo sfruttamento e all'oppressione, altre fonti di malessere, come la perdita di senso, il deterioramento dei rapporti umani, la deturpazione del mondo e l'impoverimento della vita quotidiana. Per lungo tempo, il marxismo, in pressoché tutte le sue varianti, ha guardato con disprezzo a quello che chiamava "anticapitalismo romantico": se a volte gli riconosceva la sincerità delle sue intenzioni, ed una certa perspicacia per quanto riguardava la descrizione di alcuni sintomi del capitalismo, il romanticismo restava, agli occhi dei sostenitori del "socialismo scientifico", solo un'ideologia "piccolo-borghese", tutt'al più sentimentale e impotente, oggettivamente reazionaria, e spesso perfino alla base delle ideologie fasciste. Non c'è niente di sorprendente in tale rigetto: secondo la visione progressista della storia, il romanticismo è nato come reazione all'illuminismo e alla Rivoluzione francese, come espressione di strati della società - aristocrazia fondiaria, borghesia renditiera - che aveva tutto da perdere nella ricerca del progresso. Elaborando un irrazionalismo aggressivo, fondato su dei concetti come "mito", "popolo", "sangue" e "destino", i romantici tedeschi in particolare hanno contribuito direttamente alla genesi del nazionalismo tedesco e, in fin dei conti, del nazismo; queste forme di anticapitalismo avrebbero tradito gli strati popolari, dirigendo la loro rabbia verso obiettivi sbagliati. György Lukács ha fornito una versione classica di questa identificazione del romanticismo con il pre-nazismo nel suo "La Distruzione della ragione", nel 1951. Una tale opinione è ancora del tutto comune in Germania, soprattutto in quella parte della sinistra tedesca che rimane assai vigilante a proposito di tutto quello somiglia - per esempio in alcune forme di ecologismo - ad una risorgenza dell' "ideologia tedesca" con il suo background sciovinista e antisemita.
Michael Löwy ha lavorato per oltre vent'anni, spesso in collaborazione con il sociologo ed anglicista Robert Sayre, per riscoprire il lato rivoluzionario ed anticapitalista del romanticismo. Oltre ai libri, o alla serie di articoli che Löwy ha esplicitamente consacrato alla questione, ci sono in proposito anche i suoi scritti su Walter Benjamin, su Franz Kafka o sui surrealisti, in cui espone la sua tesi centrale: il romanticismo, lungi da essere un movimento solo letterario, è una "visione del mondo" nata con l'inizio del capitalismo industriale, verso la metà del XVIII secolo. Esso è dunque contemporaneo dei Lumi, e non una reazione ad essi, e le due visioni possono essere compatibili - Come è dimostrato dal caso di Rousseau. Il romanticismo, come lo definiscono Löwy e Sayre, è coestensivo al capitalismo e dura fino ai nostri giorni.Essi fanno rientrare in questa categoria un gran numero di scrittori, di pensatori e di artisti, affermando che, nonostante la loro innegabile eterogeneità, hanno espresso un rifiuto almeno parziale della modernità capitalista ed industriale in nome di valori provenienti dal passato, rifiuto che acquista così una dimensione "utopica". Il tratto comune di tutti i romanticismi sarebbe dunque la loro opposizione alla borghesia, anche se quest'opposizione ha portato alcuni, soprattutto dopo la delusione subita in conseguenza della Rivoluzione francese, ad idealizzare il passato feudale e le sue sopravvivenze (Samuel Coleridge, Friedrich Schlegel, Novalis). Ma identificando il romanticismo con la reazione politica, come ha fatto una certa storiografia "marxista" a lungo egemonica anche in Francia, bisognerebbe dichiarare che  Friedrich Hölderlin o Georg Büchner non sono stati dei romantici, non più che Heinrich Heine o Victor Hugo. Alcuni romantici erano ardenti partigiani dei giacobini; altri, più tardi, hanno preso parte alla rivolta che ha scosso Parigi nel 1832.
La rivolta dei romantici è sempre stata tentata dalla malinconia, un sentimento di perdita di un mondo che è stato migliore, un sentimento di nostalgia. Una parte dei romantici considerava tuttavia che questa perdita fosse irreparabile; erano "anticapitalisti" in quanto erano inorriditi dalla società borghese che veniva istituita. Quindi, non si trattava di attribuire ad autori come Balzac delle virtù democratiche (come ha fatto Lukàcs), ma di ammettere che era proprio in quanto reazionario legittimista che Balzac coglieva così bene la bassezza della borghesia trionfante. Tutti i romantici, al di là delle loro differenze, tentano di ritrovare il paradiso perduto: nell'arte e nella bellezza, nel dandysmo, nei circoli di fraternità, nell'amore (il significato corrente più comune della parola "romantico"), l'infanzia, l'esotismo - o nella realizzazione collettiva di un futuro migliore, ispirato dal passato: è il "romanticismo rivoluzionario" in senso proprio. Tuttavia, se per la più parte dei romantici questa dimensione rivoluzionaria manca, o si limita ad una fase (sovente giovanile) del loro percorso, ciò non deve affatto, secondo Löwy e Sayre, farci dimenticare la loro forza critica: essi descrivono sempre la modernità capitalista come una situazione di esilio, di alienazione, di insufficienza.

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Il romanticismo non è unicamente un affare tedesco; esso sorge, nella seconda metà del XVIII secolo, anche in Francia e in Inghilterra. Ugualmente è stato presente in Italia, ed è increscioso che Löwy e Sayre non menzionino Giacomo Leopardi. In quanto, il poeta e filosofo di Recanati rappresenta l'esempio più compiuto di un "romanticismo razionale": materialista ed ateo, senza alcuna compiacenza nei confronti di un passato idealizzato o delle tendenze "progressiste" della sua epoca. Osservatore impietoso della modernità nascente, senza sentimentalismi, senza pose aristocratiche, aperto - malgrado la sua "mélancolia" e il suo "Weltschmerz" (fatica del mondo) - alla dimensione "utopica" di una felicità e di una solidarietà umana a fronte del niente, Leopardi non si posiziona al seguito dei Lumi, ma al di là, con delle anticipazioni che sembrano perfino anticipare quello che avverrà un secolo più tardi, per esempio con la Scuola di Francoforte o con i situazionisti.
Il romanticismo tedesco del primo periodo (la Frühromantik) occupa un posto centrale in questa storia. Ispirato dalle nuove idee di libertà, uguaglianza e fraternità, Schelling, Hegel e Hölderlin, i fratelli Schlegel e Novalis abbozzano una vasta ridefinizione dell'esistenza umana che a sua vota ispira, ancora fino ai nostri giorni dei tentativi assai simili, per esempio i surrealisti, o Annie Le Brun. Ma se concepiamo il romanticismo come un fondamentale rifiuto del "disincanto del mondo", della solitudine, dell'alienazione e della dissoluzione dei legami sociali, della quantificazione e della meccanizzazione, così come delle forme sociali "astratte", quali lo Stato e la burocrazia alle quali oppone la "comunità", allora si possono trovare un po' dappertutto tracce del romanticismo. Löwy e Sayre ne distinguono numerose sottospecie, dal romanticismo "restituzionista", che rifiuta del tutto l'industria e si entusiasma per un Medioevo immaginario (da Novalis fino a George Bernanos), alle tendenze conservatrici (Edmund Burke) e a quelle perfino fasciste e pre-fasciste (Evola, Gottfried Benn, Drieu de La Rochelle), passando per un "romanticismo rassegnato" che constata le devastazioni della modernità, ma le dà per irrevocabili, così come faceva la scuola tedesca di sociologia che, per bocca di Max Weber, parlava di "disincanto del mondo" e della "gabbia d'acciaio" della modernità, o di Ferdinand Tönnies,
che opponeva la "società" alla "comunità", o George Simmel, che vedeva scomparso l' "individualismo qualitativo" a vantaggio dell' "individualismo numerico".
Con il romanticismo "rivoluzionario" e/o "utopico", Löwy e Sayre arrivano a quello che interessa loro di più e qui operano una distinzione tra le diverse tendenze. Una tendenza giacobina e democratica comprende William Blake - che faceva seguire ai suoi famosi versi sui "mulini ombre del diavolo", quelli sulle fabbriche che deturpavano il paesaggio e l'esortazione a "costruire Gerusalemme in mezzo alle verdi campagne dell'Inghilterra" -, Shelley - uno dei primi ad avere espresso l'idea, più tardi divenuta cara a Benjamin, che non si tratta di ritornare al passato tale e quale, ma di realizzarne i germi - o ancora Heinrich Heine. L'economista Sismondi e i populisti russi ne rappresentavano la versione populista, così come una tendenza utopista, umanista e socialista, la possiamo trovare incarnata in Moses Hess, figura fondatrice tanto del socialismo quanto del sionismo, per il quale: "il mondo moderno delle merci, di cui il denaro è l'essenza, è peggiore della schiavitù antica", e perciò "compito del comunismo è quello di abolire il denaro ed il suo malefico potere, e di stabilire una comunità organica autenticamente umana". Gustav Landauer e la sua critica di Marx, "figlia della macchina a vapore", così come la sua esortazione a creare delle comunità socialiste in campagna, che possano esprimere una sensibilità libertaria. Si distinguono, infine, i romantici marxisti: William Morris, Lukàcs, Ernst Bloch, gli autori della Scuola di Francoforte, Henri Lefebvre e José Carlos Mariategui - il quale fu il fondatore del Partito Comunista Peruviano ed affermò, negli anni venti, che il comunismo agrario degli antichi Incas, e la sua persistenza nelle tradizioni dei popoli autoctoni dell'America latina, costituiva una base per il comunismo futuro.
Lowy tenta anche di dimostra che il romanticismo è una delle "radici dimenticate" del pensiero degli stessi Marx ed Engels, percettibile assai bene in quella che è stata la loro denuncia della disumanizzazione dell'operaio, a prescindere dal suo sfruttamento economico, e nel loro interesse per le forme precapitalistiche di produzione, come le antiche comunità dei villagi russi o la "marca" germanica, fondate sulla proprietà comune del suolo. Mentre il marxismo della Seconda Internazionale era totalmente evoluzionista, positivista e progressista, Rosa Luxemburg denunciava la barbarie colonialista e si occupava con interesse del "comunismo primitivo" presso gli Incas ed altri, sebbene giudicasse impossibile (a differenza dei populisti russi) la sua ricostruzione.
Löwy e Sayre esaminano velocemente altri capitoli della lunga storia del romanticismo e, in Inghilterra, si soffermano su Coleridge: il suo passaggio da un'adesione iniziale alla Rivoluzione francese all'elogio della feudalità inglese non è per loro motivo di shock, in quanto ci vedono comunque una critica del regno dell'egoismo borghese. I romantici inglesi, e soprattutto John Ruskin, hanno dimostrato l'importanza dei criteri estetici al fine di una condanna del capitalismo. Se, come contrappunto al suo odio virulento per il mondo che gli era contemporaneo, Ruskin trovava, infelicemente, il suo ideale nella religione, nell'ordine patriarcale, nelle antiche gerarchie e nella guerra medievale, rimane però ancora attuale la sua denuncia della divisione del lavoro nell'industria, la quale crea nell'operaio una miseria non solo materiale, ma soprattutto intellettuale. Il suo rifiuto della civilizzazione industriale trova con William Morris, il fondatore del movimento Art and Crafts, consacrato a ristabilire l'artigianato, una continuazione che poi ispirerà direttamente Marx.
Attraverso le differenti sfaccettature del simbolismo (J.-K. Huysmans, Oscar Wilde), l'espressionismo e quello strano "cristiano anarchico" che era Charles Péguy, Löwy e Sayre arrivano al surrealismo, nel quale vedono una manifestazione maggiore della persistenza dei temi romantici a tonalità rivoluzionaria. Voler reincantare il mondo e creare una civiltà fondata su "la poesia, la libertà e l'amore" (André Breton) esprime al più alto grado la dimensione utopica del romanticismo. Altrettanto si potrebbe dire della filosofia di Ernst Bloch che nel suo primo libro, "Lo spirito dell'utopia" (1918), ha voluto combinare gli argomenti delineati dal "pessimismo culturale" reazionario con una prospettiva ottimista e rivoluzionaria: il Medioevo di Bloch era Thomas Müntzer e non il signore feudale. Qualche anno più tardi, il suo amico Lukàcs scriverà, con "La teoria del romanzo", uno dei capolavori di questo rinovellato romanticismo che si fonda essenzialmente su una critica culturale della mercificazione, la nostalgia di un passato "pieno di senso" ed il ricordo come sorgente di utopia (un romanticismo che riappare periodicamente, secondo Löwy, in tutta l'opera posteriore di Lukàcs: per esempio nei suoi giudizi, oscillanti, su Dostoevskji). Gli anni venti del '900 sono stati l'apogeo del pensiero neoromantico. Löwy ha consacrato un libro intero alla dimensione utopica e libertaria degli autori ebrei della Mitteleuropa e alla "affinità elettiva" fra messianesimo ebreo e romanticismo tedesco. Non si tratta solo di Landauer, Bloch, Lukàcs, Ernst Toller ed Erich Fromm, tutti anarchici e comunisti; anche presso pensatori esplicitamente religiosi come Martin Buner, Franz Rosenzweig e Gerschom Scholem, così come in Kafka, Löwy scopre un anticapitalismo romantico ed il desiderio di costruire una società completamente altra, il cui orizzonte "messianico" oltrepassa di molto i progetti "razionali" del movimento operaio della loro epoca. Sarà Walter Benjamin a portare al suo più alto grado questa fusione di idee sovente contraddittorie. Per lui, la sorgente dell'utopia non risiede più nel passato effettivo, ma nelle sue possibilità non ancora dischiusesi. Secondo Löwy e Sayre, la storia del romanticismo non si è affatto arrestata con le società del dopo-guerra, e citano un po' alla rinfusa l'ecologia ed altri "nuovi movimenti sociali" nati dopo il 1968: Henri Lefebvre, i situazionisti, Marcuse, la teologia della liberazione, i romanzi di Christa Wolff, la storiografia sociale inglese di Raymond Williams e di Edward P. Thompson e gli sforzi di Fredric Jameson per scoprire elementi utopici nella "cultura di massa contemporanea".

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Löwy e Sayre hanno contribuito a scoprire un vero e proprio tesoro, sovente misconosciuto, perfino denigrato: la ricerca di un'alternativa qualitativa allo sviluppo capitalista, differente dal progetto che vuole appropriarsi dei risultati di questo sviluppo. L'entusiasmo per le "conquiste" della borghesia, espresse nel Manifesto del Partito Comunista, e per la "missione civilizzatrice del capitale" di cui parla lo stesso "Il Capitale", che ha rappresentato a lungo la parte dominante nell'opposizione anticapitalista - che retrospettivamente ci appaiono come movimento che andrebbero qualificati come "alter-capitalisti". Il lavoro di Löwy e Sayre testimonia un'apertura maggiore per le altre forme storiche di contestazione. A fronte di questo sforzo volto a dimostrare l'importanza del romanticismo per l'emancipazione sociale, rimane nondimeno un sentimento di ambiguità. Nel 1992, Löwy e Sayre provavano il bisogno di dimostrare la compatibilità del romanticismo con alcuni elementi del marxismo tradizionale, ivi compresa una sociologia della cultura che si proponeva di determinare per ciascun fenomeno culturale, la classe sociale di cui doveva essere l'espressione. Allo stesso tempo, avevano la necessità di porre in evidenza il fatto che il romanticismo non è sempre una manifestazione di "Contro-Illuminismo", come affermava il Lukàcs de "La distruzione della ragione" o Isaiah Berlin, e che Illuminismo e romanticismo si erano sovente fatto buona compagnia (per esempio, in Victor Hugo). Tuttavia, oggi, la critica deve andare più lontano: non appare più così evidente che i Lumi siano la sorgente di ogni pensiero di emancipazione; autori assai differenti, come Michel Foucault e Robert Kurz, hanno dimostrato che i Lumi segnano anche il passaggio alla "società disciplinare" e all'interiorizzazione dei vincoli del nuovo ordine capitalista.
Löwy e Sayre sostengono che "irrazionale" e "non razionale" non significano la stessa cosa, e che "romanticismo" non è necessariamente sinonimo di "irrazionalismo". Parimenti, tentano di dimostrare che il pensiero politico romantico non si riduce sempre all'evocazione di una "comunità" regressiva proposta come pseudo-alternativa al capitalismo, e fondata su un'opposizione dei valori "concreti" del sangue e del suolo a quelli "astratti" del "denaro" e del "commercio", concezione che conduce, pressoché inevitabilmente, ad un antisemitismo, latente o evidente. Può essere sorprendente, constatare l'importanza che concetti come "comunità" e "organico" hanno per i pensatori ebrei tedeschi dell'inizio del XX secolo. Ed il caso di Péguy, ardente "dreyfussardo", ben mostra che anche il romanticismo cattolico e mistico non debba necessariamente essere antisemita. La critica sociale di ispirazione romantica ha evidentemente valorizzato il ruolo dell'immaginazione, nel combattimento politico, ruolo sovente trascurato dal "materialismo" del marxismo ortodosso. Per Ernst Bloch, è stato cruciale non abbandonare l'immaginazione, la tradizione, i miti al nazismo - ma è anche vero che è sempre stato pericoloso cercare di battere l'estrema destra sul suo proprio terreno. Il progetto di creare dei nuovi miti, dei miti moderni, ha spesso costituito, secondo Löwy e Sayre, un aspetto essenziale del romanticismo. I primi a parlarne, Schlegel e Schelling, non pensavano allora a dei miti nazionali, "tedeschi", ma a dei miti universali. Questa proposta ritorna nei surrealisti e in Georges Bataille, i quali vedevano nel mito e nell'esoterismo un'alternativa alla religione, una forma più antica e profonda del sacro. Georges Sorel avanza l'idea di una concezione più politica della creazione di nuovi miti (lo "sciopero generale"), e Löwy consacra un intero saggio all'influenza di Sorel sul giovane Lukàcs. Ma con il tema del "mito" ci s'avventura senza dubbio su un terreno scivoloso dove si rischia di ritrovarsi in cattiva compagnia.
I libri di Löwy e Sayre sono delle vere e proprie miniere di informazione e delle ricche fonti di ispirazione. Il loro approccio suscita nondimeno qualche riserva. In primo luogo, il loro concetto di romanticismo è talmente vasto che alla fine ingloba praticamente tutti coloro che non sono positivisti e progressisti in senso stretto (addirittura, pretendono di far risalire le origini del romanticismo fino a La Bruyère e perfino ad Orazio, o semplicemente a coloro che cantavano le lodi della vita in campagna o dei bei vecchi tempi). Scelgono in ciascun autore quel che a loro sembra "anticapitalista", anche se questo non occupa che una piccolissima parte della sua produzione, e lo astraggono da tutto il resto. Cos'hanno in comune Franz von Baader e Büchner, Ruskin ed Heine, Péguy e ANdré Breton? Essi stessi ammettono che è impossibile isolare una "posizione comune", su qualsiasi cosa, a parte un certo riferimento positivo al passato. La loro maniera di "pescare a strascico" non ha solamente una dimensione metodologica, ma anche politica. Ci possono essere buone, come cattive, ragioni per detestare il capitalismo, o per dire che lo si detesta. I problemi cominciano quando la critica si limita ad un solo aspetto, come l'interesse monetario, il denaro o il commercio. Quello che la terminologia marxista definisce una critica della sola "sfera della circolazione", che non influenza la "sfera della produzione". La differenza è capitale, soprattutto per quanto riguarda le conseguenze. Gli attacchi che non si rendono conto che la circolazione (tipicamente, il solo capitale finanziario) conduce al proudhonismo, ma anche all'ideologia nazista che oppone così il buon "capitale creativo e lavoratore" (tedesco) al cattivo "capitale parassita" (ebreo). Tale genere di critica non è "un primo passo nella buona direzione", ma può, al contrario, portare al peggio.
Questo ci permette di fare una deviazione, e di ricordare che per la teoria di Marx bisogna afferrare: l'essenziale della società capitalista, la sua struttura nascosta, e non solo i fenomeni che saltano agli occhi. Essa mette l'accento sulla produzione: la sfera dove si crea il valore, e quindi anche il plusvalore - grazie al plus-lavoro non pagato all'operaio, e di cui il capitale si appropria. La circolazione ingloba tutto ciò che è necessario alla realizzazione del valore sul mercato: il commercio, le banche e la finanza, ma anche la pubblicità, ecc. Secondo la critica dell'economia politica di Marx, è la sfera della produzione a causare tutte le miserie, le ingiustizie e le crisi del capitalismo. La frode nel commercio, gli squilibri negli scambi commerciali, l'interesse monetario (e dunque tutta la sfera finanziaria) non sono altro che degli elementi derivati, ed il profitto che essi possono fare viene prelevato sul solo unico profitto, quello ottenuto dal capitale investito nella produzione.
Nella "coscienza quotidiana" degli attori economici, le cose si rappresentano ancora spesso all'inverso. La sfera della circolazione è molto più visibile della sfera della produzione, e gli individui hanno la tendenza a vedere solo la circolazione. Lo scambio fra lavoro e capitale viene allora considerato come una giusta ripartizione dei frutti dello sforzo comune, effettuato nella produzione, dal lavoratore e dal capitalista (che apporta il capitale e organizza la produzione), mentre il commercio ed il prestito monetario (che esiste con gli interessi) appaiono come un semplice furto da parte degli attori non produttori e non lavoratori. Nonostante Marx abbia dimostrato che il capitale commerciale e quello finanziario non fanno che condividere con il capitale industriale il profitto che questi ha ottenuto per mezzo dello sfruttamento dei salariati, si continua a credere spesso che il vero sfruttamento abbia luogo nella circolazione.
I primi critici del capitalismo, come i "socialisti utopici", avevano concentrato i loro attacchi sulla sfera della circolazione: il commercio e la finanza. Questo aspetto si può leggere in modo evidente in Fourier ed in Proudhon. Essi mancano perciò un aspetto essenziale - ma avevano l'evidenza dalla loro parte. La teoria di Marx è la sola ad andare sistematicamente al di là della circolazione, dunque al di là della superficie empirica. Tuttavia, all'interno stesso del marxismo si sono velocemente diffuse delle tendenze che ricadevano implicitamente nella critica della sola circolazione, facilitati in questo da un altro equivoco: la "produzione capitalista" di cui parla Marx, consiste nel fatto che il lavoro possiede un doppio carattere, concreto ed astratto, e che il lavoro astratto - cioè il lavoro considerato sotto il solo aspetto della sua durata - crea il valore della merce, il quale si esprime con una merce particolare, il denaro, che diventa a sua volta la vera finalità della produzione. Per moltiplicare il denaro, bisogna trasformarlo in capitale ed accumularlo, e questo non è possibile se non assorbendo plus-lavoro. Il marxismo tradizionale, anche nelle sue forme più sofisticate, generalmente ha considerato solo l'ultima parte di questa definizione. Considerando implicitamente il lavoro astratto ed il valore, la merce e il denaro come dati evidenti, eterni e neutri, ha concentrato la sua attenzione esclusivamente sulla lotta che conducono i portatori viventi di capitale e di lavoro intorno alla distribuzione del plusvalore: la lotta delle classi. Il marxismo tradizionale ha perciò ristretto la sfera della produzione al solo antagonismo di classe che, nei fatti, appartiene piuttosto alla circolazione, cioè alla distribuzione del valore - una volta che questo è stato prodotto - fra tutti gli attori che vi hanno concorso, in una maniera o nell'altra (compresa, per esempio, la banca che ha anticipato il capitale necessario al capitalista industriale).
Dopo aver accettato, implicitamente o esplicitamente, le categorie di base della società di mercato, non gli è rimasto che lottare per una distribuzione più giusta - lotte salariali, attuazione e difesa dello Stato-provvidenza. La sfera politica, prolungamento della circolazione, non è altro che la negoziazione permanente intorno alla distribuzione della ricchezza del mercato. Di conseguenza, le varianti socialdemocratiche, leniniste e di estrema sinistra del marxismo sono state assai poco capaci di comprendere i pericoli che comporta una critica incentrata solo solo sulla circolazione, e che attribuisce tutti i guasti del sistema capitalista a dei fattori derivati, strutture come la finanza, e ne personalizza poi tali strutture. Il passaggio all'anticapitalismo di destra, che pretende difendere l'onesto lavoratore contro "Wall Street" e che presenta i mali del capitalismo come la conseguenza di una cospirazione ebrea, diventa quasi logico e spiega, in parte, la facilità con la quale dei paesi con grandi movimenti operai si siano potuti convertire così facilmente al fascismo. Esiste un anticapitalismo di destra, un anticapitalismo falso e ingannevole, ma sempre pronto a venir fuori, ed oggi più che mai, i cui temi si possono diffondere anche all'interno della sinistra.

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Tutto ciò può sembrare lontano dal romanticismo, ma siamo ancora al cuore della questione. A fronte di un movimento operaio che non mette più in questione le basi della società di mercato - e i cui membri si identificano perfino con il loro ruolo di lavoratori (Lenin e Gramsci si rallegravano del fatto che la disciplina "fordista" potesse dare agli operai, nel socialismo, dei sani costumi) e con il loro ruolo di cittadini, limitandosi a chiedere un salario più elevato in cambio della loro rinuncia alla vita -, il romanticismo, il quale pone l'accento su un' "altra vita", ha implicitamente messo sotto accusa la stessa base produttiva della società moderna e la trasformazione di ciascun aspetto della vita in merce. Tuttavia, quando si tratta di indicare le cause dell'infelicità, la più parte dei romantici non faceva che rimandare alla sfera della circolazione: il denaro (inteso non come rappresentazione del lavoro astratto che viene accumulato, ma come vettore di avidità e di egoismo), il commercio, le banche. Spesso, il lavoro veniva esplicitamente santificato (Ruskin, Péguy, la "morale dei produttori" di Sorel), e non si denunciava lo sfruttamento esercitato dai proprietari dei mezzi di produzione, ma solamente quello perpetrato dal commerciante e dall'usuraio (le banche). Tale genere di critica, indipendentemente dalle intenzioni soggettive dei loro autori, ha sempre corso il rischio di cadere nell'antimodernismo reazionario. Questo non dà ragione a tutti coloro che vogliono mettere tutto l'anticapitalismo romantico in conto alla destra - ma Löwy e Sayre tirano via un po' troppo facilmente su queste obiezioni, che non provengono solamente dai marxisti "ortodossi". Senza niente togliere all'importanza delle descrizioni fornite dai romantici e alla simpatia che possono suscitare, e senza doversi allineare alle critiche malevole, si rende più giustizia ai romantici se si sottolinea questa dialettica - che fa sì che il romanticismo appaia, a volte al di sopra, a volte al di sotto della critica espressa dal movimento operaio (è un po' il rapporto tra la "critica sociale" di Boltanski e Chiapello, cui brevemente Löwy e Sayre si riferiscono).
Costruire una grande tradizione di tutti i pensatori romantici che, in un'infima parte della loro opera, hanno espresso qualche critica del capitalismo, per quanto limitata sia stata, sembra corrispondere alle visioni politiche contemporanee che sognano di riunire i malcontenti più contraddittori, e perfino quelli più discutibili, in una sorta di "Fronte popolare" universale della contestazione. Ma una buona parte di tale malcontento non concerne altro che la circolazione: senza mettere in dubbio i fondamenti produttivi del sistema, si vuole semplicemente occupare un posto più confortevole. Perciò, si tratta di guardare a quello che il romanticismo rivoluzionario, con le sue aspirazioni "utopiche", può contenere come magnifico antidoto a certe tentazioni - ma anche, per quello che ci concerne, di conservare un occhio attento a quelle che sono delle solide basi teoriche.

Anselm Jappe (novembre - dicembre 2011)