mercoledì 29 agosto 2012

Il lavoro è un mestiere che va a morire!

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Guillaume Paoli è il terzo membro degli "chômeurs heureux" (Disoccupati Felici), trio tedesco autore del manifesto dallo stesso nome, pubblicato nel 1996. Francese, residente a Berliono da 20 anni, autore di opuscoli dal titolo evocativo come "Abbasso il lavoro", o "Più carote e meno bastoni", si è fatto (ri)conoscere soprattutto grazie al suo "Elogio della demotivazione”, pubblicato nel 2008. Fine analista di quella patologia che viene chiamato lavoro, questo francese di 62 anni installato a Berlino è alla ricerca di una via di mezzo fra l'inerzia totale e un attivismo vuoto. Quella che segue è una sua recente intervista.

Quando, e in quali condizioni, ha deciso di non lavorare?

E' stato nel ventre di mia madre, credo ... In effetti, non ho mai pensato a fare una domanda di impiego, a fare carriera, per quanto ne so, trovando più desiderabile fare quello che mi piace, senza tener conto dei "vincoli del mercato". Ho avuto la possibilità di essere adolescente in un'epoca - gli anni settanta - in cui tale attitudine esistenziale era più facile e più diffusa di oggi. Ciò detto, non si tratta di un rifiuto per principio. Quando mi propongono di pagarmi per continuare a fare quel che mi conviene, accetto volentieri. Come in questo periodo, al Central Theater di Lipsia, dove organizzo delle discussioni, dei dibattiti o delle proiezioni, come filosofo da camera.

Si sente un parassita?

Ogni essere umano reca in sé una tensione contraddittoria fra attività e riposo, quietezza e inquietudine, azione e contemplazione. Quando si vive in dipendenza del lavoro salariato, questa tensione si sente continuamente. Quando la vigilanza si allenta, si sprofonda nell'inerzia totale o nell'attivismo vuoto. Far coesistere questi due estremi, cercare la via di mezzo è l'apprendistato di tutta una vita.

Lei ha scritto - "La cura di sé è anche la cura degli altri". Ciò a dire?

Non ho alcuna considerazione per chi non cerca altro che la sua auto-soddisfazione narcisista, che sia bottegaio o scansafatiche. Noi siamo esseri sociali e prosperiamo in quanto esseri sociali. Quel che c'è da criticare nel lavoro così com'è, sta proprio nel fatto che spinge a comportamenti antisociali, porta a vivere a detrimento degli altri, sia che si truffi il cliente, con il sorriso sulle labbra, sia che si sia subordinati che calpestano la testa del collega.

Il manifesto dei disoccupati felici è stato scritto più di 15 anni fa. Lo giudicate più credibile. oggi?

Sul piano pratico, era certo più facile prima (almeno dove abito, a Berlino) eludere il lavoro salariato senza per questo piombare nella miseria. Da questo punto di vista, ciò che è stato la descrizione di un modo di vita effettivo è diventato una sorta di ideale difficile da realizzare. Invece, sul piano delle idee, niente ha potuto contraddire la nostra esposizione, al contrario. Il mondo del lavoro diventa ogni giorno più assurdo e distruttivo. Perciò la domanda diventa sempre più pressante: come vogliamo vivere davvero?

Avete scritto nel Manifesto: "Per i disoccupati felici si tratta di conquistare un riconoscimento sociale per mezzo di un finanziamento senza condizioni, oppure si tratta di sovvertire il sistema con mezzi di azione illegali, come il non pagare l'elettricità?" Siete sempre partigiani di questo tipo di sovversione?

Non si tratta affatto di glorificare l'illegalità. Ricordiamo l'evidenza: noi non viviamo sotto il regno della legge, ma sotto quello dei rapporti di forza, a sfavore dell'individui atomizzato. Non è permesso ai disoccupati di far valere collettivamente i loro diritti: recarsi in gruppo nell'ufficio del responsabile  dell'occupazione significa già mettersi fuori dalla legge. Come vendere delle salsicce grigliate all'angolo della strada, o allacciarsi da solo all'elettricità, rifiutare di assolvere ai propri debiti o resistere ad un'espulsione. Tutte queste pratiche non sono possibili che collettivamente. Ed ogni collettivo genere la propria pratica, che non è necessariamente illegale, ma più o meno legale nella misura in cui porta avanti la propria legittimità.

Che fine hanno fatto gli altri membri del vostro collettivo, scioltosi nel 2002?

Uno si è convertito all'Islam e vive a Dubai, un altro in Cina, un terzo si è votato all'architettura critica, un altro alla fotografia, un altro coltiva il suo giardino.

Nel suo libro "L'abolizione del lavoro", Bob Black sostiene la festa permanente, la rivoluzione ludica ... Cosa ne pensi?

Raoul Vaneigeim l'aveva scritto prima di lui. Questi erano gli slogan del 68, c'è stato un tempo in cui li ho fatti miei, senza rifletterci troppo. Poi, ho letto la critica feroce che ha fatto Philippe Muray, e soprattutto ho visto come questi slogan sono stati applicati: carnevalizzazione della rabbia, depoliticizzazione festaiola, infantilismo di massa. Rifiutare il lavoro non significa rifiutare l'impegno, e chi sogna la rivoluzione non può trascurare l'impegno, non sempre ludico, necessario all'auto-organizzazione, alla costruzione paziente di una rete, all'esperienza. Ma, soprattutto: mi romperei le palle di brutto ad una festa permanente!

Alcuni vedono l'anti-lavoro come una postura dandy in contraddizione con il popolo che fatica. Come cambiare questa visione?

Questa visione crolla da sé sola, nel momento in cui si osservano le condizioni concrete del lavoro oggi, mobbing, gerarchia, precariato, sottoimpiego delle facoltà individuali, perdita di senso e di desiderio, la sensazione di lavorare all'autodistruzione generalizzata. Chi ha detto che si deve rifiutare tutto, del Dandy?

Ne "La nostra pigrizia", Camille Saint-Jacques scrive: "Qualunque cosa si pensi dell'epoca del lavoro della nostra società produttivistica, nella stragrande maggioranza dei casi, un'inattitudine al lavoro rivela una grande sofferenza sovente accompagnata da una dipendenza all'alcol o alle droghe, o ad altre patologie psichiche o somatiche", o ancora, "al di fuori di un dandysmo asociale e parassita, la realtà della pigrizia, nel quotidiano, è la depressione e l'impotenza" ... Un commento?

Ho scritto ne "L'elogio della demotivazione" che la mancanza di lavoro provova una sofferenza identica alla mancanza di droga. Dei soggetti resi tossicodipendenti passati dalla scuola alle prestazioni e al rendimento si ritrovano in crisi di astinenza, depressi, si ammalano o ricorrono ad altre droghe compensative. Non si tratta di negare questa patologia, ma di trattarla come una conseguenza della dipendenza nociva dal lavoro, dalla violenza fisica e biologica che viene imposta. In altri termini, quello che questa signora chiama inattitudine al lavoro è inattitudine alla pigrizia.

Cosa direbbe ai disoccupati depressi che si sentono "esclusi" ed "inutili"?

La stessa cosa che direi ai lavoratori depressi che si sentono esclusi ed inutili. La prima domanda è: esclusi da cosa, esattamente? Da una vita ricca di esperienza, di incontri, di passione? Oppure, da un lavoro ripetitivo, usurante, senza reale gratificazione? Esclusi dalla riconoscenza dei loro simili o dalla concorrenza generale e autistica? Poi, parliamo dell'utilità. Che cos'è che è utile? vendere degli hamburger, dei finti medicinali e delle pubblicità stronze? O prendersi cura dei propri cari, preparare un buon pasto, fare l'amore, o leggere un buon libro? Senza dimenticare che se siamo umani, allora il superfluo è necessario e l'inutile è utile. Il beneficio che deriva da una lunga passeggiata non è quantificabile.

Le mentalità condizionate dal mondo del lavoro per un periodo troppo lungo possono ancora cambiare?

Le mentalità sono in costante evoluzione, e il mondo del lavoro va ancora più veloce. Le ragioni per cui le persone si attaccano al proprio mestiere sono adesso ostacoli "arcaici" al loro impiego. Per esempio, prendiamo il tempo che ci vuole a elaborare un prodotto di qualità, a guadagnarsi la fiducia del cliente, a gioire di una certa sicurezza materiale, l'assicurazione che copre in caso di malattie, una pensione decente, ecc ... Tutte queste cose non hanno più alcun posto nel mondo dell'impresa, da qui una demotivazione galoppante da parte dei salariati. Oggi, molte persone comprendono senza difficoltà che è proprio l'attaccamento a certi valori, ad una qualità della vita, che è incompatibile con la sfera dell'occupazione.

Quale dovrebbe essere il primo passo verso un mondo senza lavoro?

Sopprimere le rendite del capitale. Il sistema del lavoro come esiste oggi ha una sola funzione: moltiplicare la rendita dell'oligarchia mondiale. Il diritto di voto non cambia niente, è sempre feudalesimo. Finché sarà così non sarà possibile alcuna libertà. Ora, la questione è di sapere come fare a sopprimere le rendite del capitale, ed io ovviamente non ho una risposta. Se ce ne fosse una, questo sarebbe già accaduto.

fonte: http://raumgegenzement.blogsport.de

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