mercoledì 18 gennaio 2012

Torna lo Stato

carcere

I partiti di sinistra attribuiscono la crisi economica globale attuale a cause politiche. Il neoliberismo, con la sua totale deregolamentazione del mercato e, soprattutto, con la sfrenatezza dei mercati, ha fallito. Ora, pretendono che ci si avvicini ad un'epoca di regolamentazione e controllo da parte dello Stato, e il nostro compito sarebbe quello di influenzare le forme che tale controllo andrebbe ad assumere. La richiesta principale è quella di tornare a prima che si verificasse l'influenza del capitale finanziario, ed ottenere un rafforzamento dell'economia reale che, a sua volta, dovrebbe essere riformata sia in senso ecologico che sociale. Che tutto questo abbia successo, viene considerato principalmente come una questione di rapporti di forza e di mobilitazione politica.
Tuttavia, una simile analisi dimentica la natura fondamentale della crisi globale. Anche se è precipitata a causa del crollo finanziario del mercato, le sue cause vanno cercate da tutt'altra parte. L'enorme sviluppo dei mercati di capitale nel corso degli ultimi trenta anni non è stato causato da decisioni politiche sbagliate, ma è stata l'espressione di una crisi strutturale della valorizzazione del capitale, una crisi iniziata con la fine del boom del fordismo, nel dopoguerra. Con la riorganizzazione delle condizioni di lavoro e dei rapporti di produzione, nel corso della terza rivoluzione industriale (automazione, flessibilità e precarietà del lavoro, utilizzo di manodopera a basso costo, ecc.), si è dato luogo ad una massiccia razionalizzazione del lavoro nei settore centrali del capitalismo.
Tutto questo ha minato la base della valorizzazione del capitale, che consiste nello sfruttamento continuamente crescente della capacità di lavoro. Cosa che, a sua volta, ha portato ad un dirottamente, sempre maggiore, di capitale verso i mercati finanziari: il capitale non riusciva più a trovare opportunità sufficienti alla sua valorizzazione all'interno dell'"economia reale" e così si è gonfiata una gigantesca bolla di "capitale fittizio", senza alcuna garanzia. Se non ci fosse stata questa deviazione che ha permesso il rinvio della crisi di accumulazione del capitale, l'economia mondiale sarebbe crollata molto tempo fa.
Tuttavia, il prezzo da pagare è stato l'accumulo di un potenziale di crisi che si è fatto sempre più grande. Non è perciò sorprendente che alla fine l'incidente è arrivato: piuttosto, quello ha bisogno di una spiegazione è il fatto che ci sia voluto tutto questo tempo. Ciò è' stato possibile solo perché a livello statale, e a livello transnazionale, la politica è stata principalmente mirata al sostegno delle dinamiche dei mercati finanziari, ed ha risposto, all'inizio di ogni crisi (quelle del Messico, Asia, Russia, quella della "New Economy"), allo stesso modo: con la creazione di credito aggiuntivo, per incoraggiare l'inflazione di una nuova bolla.
Il modello di queste reazioni è la prova che il motivo strutturale dei processi di crisi si trova oltre lo portata della politica, in quanto è il risultato di una contraddizione fondamentale interna alla dinamica storica del capitalismo. Il capitalismo crea delle forze produttive immense ed una potenziale ricchezza [materiale] che permetterebbe una buon livello di vita per tutti (proprio per tutti!). Ma questa ricchezza non è compatibile con l'obiettivo di sfruttare il lavoro vivo, dal momento che rende il lavoro sempre più inutile. Questo non può che finire col determinare un processo fondamentale di crisi, capace di minare non solo i principi fondamentali di valorizzazione del capitale ma, allo stesso tempo, anche i rapporti di riproduzione sociale da cui dipende. L'inflazione dei mercati finanziari non è la causa della crisi, ma uno dei suoi sintomi. Essa dimostra che l'accumulazione del capitale può funzionare solo in modo precario, in quanto appendice del capitale fittizio.
In un simile contesto, il contenuto effettivo dei tanto evocato "ritorno dello Stato" diventa chiaro. Malgrado tutto l'interesse. tutto formale, per la "regolamentazione" e per il ritorno all'"economia reale", la difesa dei mercati finanziari vanno a gonfiare un'ulteriore nuova bolla di speculazione e di credito che continuerà a rimanere al centro di qualsiasi politica di amministrazione della crisi.
Anche i partiti di sinistra, i socialdemocratici ed i sindacalisti devono necessariamente esigere che le banche vengano salvate. Le uniche differenze soggiacciono nel dettaglio - vale a dire, anche se non dovrebbero essere nazionalizzate, dovrebbero pagare i costi. Ma la questione è già risolta, comunque: i costi sono così enormi che possono essere soddisfatti solo da un enorme debito pubblico. Tutto il resto ("tassare i ricchi", i tagli in busta paga, la responsabilità dei banchieri privati, ecc.) è puramente simbolico. Ma la funzione di tutto questo ambaradan all'interno del dibattito politico è assolutamente regressiva, e serve solo a denunciare dei capri espiatori al fine di diffondere l'idea che ci sia in corso un'atrocità morale, e mascherando così le reali dimensioni della crisi.
Ma il debito pubblico di massa per salvare il sistema finanziario - anche se riuscisse, temporaneamente, a rinviare il termine del processo di crisi, per mezzo di un aumento violento di denaro - non può evitare che nei prossimi anni molti aspetti della riproduzione sociale verranno ulteriormente ridotti perché non possono più essere considerati "finanziariamente sostenibile".
Ma le somme che verranno stanziate per ripagare i debiti accumulato non potranno mai essere recuperate attraverso le politiche restrittive di austerità. Non è possibile, non c'è più una tale massa di dipendenti, precari e disoccupati che possa pagarle.
Ci sono questi lavoratori, questi precari e questi disoccupati che sentiranno sempre di più gli effetti dei "salvataggi", perché il debito servirà per le restrizioni brutali di ogni futura politica, e non importa quale partito sarà a farla. Infatti, mentre non ci saranno limiti al debito pubblico futuro, l'onere per i pagamenti degli interessi crescerà in maniera massiccia.
Le conseguenze sono evidenti: la politica si concentrerà principalmente sul mantenimento di "funzioni appropriate per il sistema", e queste sono, oltre ai mercati finanziari, i nuclei e i "gruppi" rimasti per la valorizzazione del capitale produttivo, con le infrastrutture ed il personale di cui hanno bisogno. L'infrastruttura generale, la protezione sociale, i servizi sanitari pubblici verranno smantellati ancora di più, i salari e le pensioni saranno ridotte (per i tagli e attraverso l'inflazione) ed il numero di persone insicure e "superflue" continuerà a crescere. La gestione della crisi, per loro, significa la disciplina autoritaria e l'esclusione. Anche i partiti politici, che andranno al potere sulle ali delle promesse di riforme sociali e ambientali, seguiranno questa logica di gestione politica della crisi.
L'attuale dibattito sulle riforme è una farsa, perché suggerisce una prospettiva le cui base materiali non esistono più. Durante i periodi di boom del capitalismo, e in particolare ai tempi del boom fordista del dopoguerra, un relativo miglioramento della vita - e delle condizioni di vita - è stato possibile all'interno della struttura del capitalismo, in quanto le dinamiche di crescita del movimento della valorizzazione creavano una pressione per integrare un numero crescente di persone nel sistema di produzione di beni e del lavoro. Da allora, queste persone, sempre più, sono state rese "superflue" dal punto di vista del capitale, il ruolo della "politica delle riforme" si è ridotto all'organizzazione e alla facilitazione della crescente frammentazione, culturale e territoriale, della società. Questa tendenza sarà sempre più visibile nel nuovo sviluppo della crisi. Una nuova prospettiva per l'emancipazione sociale, può essere formulata solo in opposizione coerente alla politica di smantellamento della gestione della crisi: tentando coerentemente di far sì che il punto di vista della ricchezza materiale e della soddisfazione dei bisogni si applichi a ciascuno.
Solo allora le lotte dei lavoratori, come quelle dei "superflui" contro il massacro delle infrastrutture sociali o quelle che puntano all'appropriazione diretta e collettiva delle risorse sociali (alloggio, spazi sociali e culturali, ecc.), potranno avere una nuova prospettiva di emancipazione.
Fino a quando la ricchezza verrà pensata in termini di valore - e attraverso la forma della merce - l'accesso alla ricchezza materiale sarà possibile solo attraverso il denaro, e le restrizioni e le follie di questo tipo continueranno fino alla fine ad essere presupposte ed accettate.
E' a causa di questa forma di valore che le chiusure dei grandi impianti di produzione di cose ragionevoli e utili (come il buon cibo) appaiono "inevitabili", mentre allo stesso tempo ci battiamo per il mantenimento e l'espansione della produzione di autovetture, anche se gli effetti di avvelenamento del clima sono noti da molto tempo.
E' questa forma di valore che blocca l'unica uscita dall'attuale autodistruttiva società delle merci, un processo che inizia nella nostra testa, e che si riflette nelle nostre azioni.
L'unica nostra possibilità è rompere questo blocco.

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