lunedì 31 dicembre 2012

Catania

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Fa freddo, d'aprile ad Amburgo. E' il 1932, e Walter Benjamin si appresta ad imbarcarsi sulla "Catania", per riprendere il suo lungo periplo dell'Europa. La Francia, la Danimarca, fino alle coste spagnole ed italiane. Pensieri, progetti, continuano più tardi, sul ponte della nave, mentre cammina avanti e indietro. Un libro, per "raccontare una lunga storia interrotta da dei sogni". I quarantasette racconti inediti che, raccolti sotto il titolo "Non dimenticare il meglio", andranno a comporre una trama singolare, fatta di spazi, di tempi, di sogni. Un giovane uomo che intraprende un viaggio per andare a far visita alla nonna morta da lungo tempo, e finirà per incontrare una giovane donna vestita di un abito azzurro sbiadito; un turista a Parigi beve un caffè e mentre sorseggia dalla tazza si domanda se una volta, da bambino, sia stato seduto a quello stesso tavolo.
"Quante navi avranno attraversato questo ghiaccio di marmo"!
Un borghese esaurito entra in un'osteria di Roma, una sorta di spelonca affollata di operai, e si ingozza di pezzi di baccalà nell'indifferenza generale; quest'uomo cammina, ma non si muove nelle strade della Roma fascista, ma dentro lo spazio della modernità.
Tutti i personaggi di Benjamin assomigliano al "flaneur" di Baudelaire: sono in cerca di un asilo in mezzo alla folla, e rimangono sulla soglia del mondo. Né borghesi né proletari, il cuore della massa. Il lettore viene trascinato, da questi racconti, dentro un universo onirico, in un sogno senza tempo. Lontano dal mondo dove la passione pubblica suprema reclama "un centro, un führer, una soluzione".
Il filosofo tedesco, marxista scettico, ostile alle istituzioni universitarie, viaggiatore insaziabile, traduttore di Baudelaire e di Proust, su quella nave non scrive niente di teorico, niente di rivoluzionario. Dissotterra dalle pieghe del tempo una materia letteraria sedimentata dai millenni, il racconto. Storie, racconti senza spiegazioni, senza psicologie, che fanno scivolare il lettore dal presente al passato, dalla realtà al sogno. Atmosfera, concisione, l'arte della caduta, farebbero pensare a Borges e, certamente, a Kafka. Ma soprattutto è al filosofo Walter Benjamin che bisogna pensare; proprio a lui, a quello che nella sua opera a proposito del "Narratore" rivela il posto particolare, e dimenticato, che ha il racconto, spazzato via dal romanzo e dall'informazione. "Ogni mattina, veniamo informati sugli ultimi avvenimenti sopravvenuti sulla superficie terrestre. Eppure, siamo poveri di storie degne di nota". Non dimenticare il meglio, rimane fedele alla sua estetica, che cerca incessantemente di riportarci la potenza dell'origine. L'aura dell'opera d'arte e quella del racconto, subiscono le stesso identico declino.
Perché si sta perdendo l'arte di raccontare delle storie?
"Non si poteva forse già allora constatare che le persone ritornano mute dal campo di battaglia? Non più ricche, ma più povere di esperienza comunicabile."
Continua a dire Benjamin, sul ponte della "Catania", nell'aprile del 1932, mentre medita il progetto di "raccontare una lunga storia interrotta da dei sogni".

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domenica 30 dicembre 2012

la Cina è vicina

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Dentro l'imballaggio di una lapide in polistirolo, Julie Keith ha trovato una lettera. Julie Keith è una mamma americana, in Oregon, che si era recata, prima di Halloween, al supermercato vicino, per comprare qualcosa che potesse decorare il suo giardino per la festività incombente. Voleva fare solo qualcosa di divertente per i suoi figli, e si è ritrovata di fronte questa richiesta di aiuto da parte di un operaio forzato cinese.
Si può leggere, in inglese, e con qualche parola in cinese: "Signore, se lei ha acquistato questo prodotto, potrebbe essere così gentile da inviare questa lettera all'Organizzazione mondiale per i diritti umani (...) Ci saranno migliaia di persone, perseguitate dal partito comunista cinese, che vi ringrazieranno per questo, e non vi dimenticheranno mai." Poi si fa menzione di giornate lavorative lunghe 15 ore, senza pausa domenicale né vacanze, ma si fa cenno anche a torture, e si parla di salari irrisori. Questi lavoratori, di cui l'autore della lettera fa parte, scontano una pena da uno a tre anni, cui sono stati condannati senza alcun processo.
L'operaio precisa che le finte pietre tombali in polistirolo vengono fabbricate nel campo di lavoro di Shenyang, a nord di Pechino.


fonte: http://bigbrowser.blog.lemonde.fr

attenzioni

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Barcellona, 1909.

Dopo aver duramente represso gli operai di Barcellona, nel corso di quella che verrà chiamata la "settimana tragica" (si rifiutavano di andare a morire in guerra, in Marocco!), il governo decise di sbarazzarsi dell'insegnante e pedagogo Francisco Ferrer Y Guàrdia (fondatore della "scuola moderna”: il diavolo in persona, praticamente!) che venne assassinato senza pietà (legalmente e secondo il diritto), e, mentre che c'era, decise anche di chiudere 120 scuole laiche a Barcellona e nella provincia. Così riusciva a prendere due piccioni con una fava, grazie al silenzio e alla collaborazione della Chiesa.
E tutto questo avvenne anche a dispetto di alcuni dei sostenitori del governo, come il conservatore Antonio Maura che continuava a dire che era "necessario fare la rivoluzione dall'alto, per evitare che la facciano dal basso". E come avviene solitamente, in questi caso, la sua lucidità la pagò cara! E proprio a lui, che probabilmente era uno dei politici che meglio aveva capito che i problemi sociali della Spagna non potevano essere risolti con le pallottole sparate, toccò, in quanto capo del governo in quel momento, ordinare la repressione degli insorti di Barcellona, di cui alcuni erano chiaramente anarchici e comunisti, però molti altri erano dei semplici padri di famiglia, riservisti che volevano solo continuare a fare la loro normale vita di tutti i giorni, e che non erano implicati in alcuna attività che potesse essere considerata sovversiva dal governo. Maura diede ordine di sparare alla polizia e all'esercito, che erano oltremodo desiderosi di ricevere un simile ordine. E, alla fine, questo gli costò anche la sua destituzione. Va detto che, come premio, ricevette l'attenzione di due attentati; ad ogni modo, in questo, risultò maggiormente fortunato di altri politici del suo tempo. In ogni caso, governo, re e classe dirigenti non fecero alcun tesoro dei suoi consigli. Sparare era molto più facile!

sabato 29 dicembre 2012

scienza della politica

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"Per quanto riguarda la stesura della vostra Costituzione, vorrei attrarre la vostra attenzione sulle meravigliose virtù del negativo! Accentuate il negativo! Fate sì che il vostro documento sia costellato di tutte le cose che al governo sarà per sempre proibito di fare."

- Robert A. Heinlein - La luna è una severa maestra - 1966 -

venerdì 28 dicembre 2012

abitare

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E' nel "fare spazio" che viene giocato il carattere distruttivo, in questo breve frammento di Benjamin. Fare spazio non è fare tabula rasa, ma riuscire a mandare in crisi la configurazione attuale di quella costruzione che chiamiamo "realtà", scompigliandone l'ordine. Nessun oggetto che occupa la realtà è inamovibile o insostituibile. Fare spazio non significa fare il vuoto. Sosterrà più tardi, nel 1932, in un altro frammento, che lo spazio abitativo dovrebbe configurarsi così come avviene in alcune abitazioni del meridione spagnolo, in cui il mobilio ha improbabile ed incerta provenienza ed è suscettibile, pertanto, di diversi, seppure non predeterminati, utilizzi, e a conformazioni e disposizioni sempre nuove, non prevedibili e sempre di nuovo rimovibili.
Oggetti, come dire "deprivati dell'aura", quelli spagnoli, che vivono nella prassi, nell'agire politico, senza luogo né ruolo prestabilito. Disponibili sempre ad entrare a far parte di nuove "costruzioni". La perdita e la scomparsa si possono tradurre, così, nella comparsa di qualcos'altro, possono "fare spazio" a qualcos'altro; non migliore né peggiore di quanto perduto e scomparso. Operazione difficile assai che si scontra con il romantico attaccamento a quanto si perde, per sempre, e che prescrive, proprio per questo, la consapevolezza dell'importanza, e la messa in categorie, di quel che si perde. Un amore, una casa, una città, un mondo.

IL CARATTERE DISTRUTTIVO
di Walter Benjamin - 1931 -

Nel guardare indietro nella propria vita, potrebbe capitare di riconoscere che quasi tutti i legami più profondi, a cui in essa si è sottostati, hanno avuto origine da persone, sul cui carattere distruttivo erano tutti d'accordo. Un giorno si potrebbe incappare, forse per caso, in questo fatto, e quanto più forte sarà lo shock da cui si sarà colpiti, tanto più grandi saranno le chances per una rappresentazione del carattere distruttivo.
Il carattere distruttivo conosce solo una parole d'ordine: creare spazio; una sola attività: far pulizia. Il suo bisogno di aria fresca e di uno spazio libero è più forte di ogni odio.
Il carattere distruttivo è giovane e sereno. Distruggere infatti ringiovanisce, perché toglie di mezzo le tracce della nostra età; rasserena, perché ogni eliminare, per il distruttore, significa una perfetta riduzione, anzi un'estrazione della radice della propria condizione. A tale immagine apollinea del distruttore ci conduce ancora di più la considerazione di come si semplifichi infinitamente il mondo, se si appura che merita di essere distrutto. Questo è il grande vincolo che stringe armoniosamente tutto l'esistente. Questa è una visione che procura al carattere distruttivo uno spettacolo della più profonda armonia.
Il carattere distruttivo quando lavora è sempre fresco e riposato. E' la natura a prescrivergli il tempo, almeno indirettamente: poiché egli la deve prevenire. Altrimenti intraprenderà lei stessa la distruzione.
Il carattere distruttivo non ha alcun modello. Ha pochi bisogni, e nulla gli importa meno che sapere cosa subentra al posto di ciò che è stato distrutto. In un primo momento, almeno per un attimo, lo spazio vuoto, il luogo dove stava la cosa, dove la vittima ha vissuto. Si troverà certamente qualcuno che lo usa, senza prenderne possesso.
Il carattere distruttivo fa il suo lavoro, evita solo il lavoro creativo. Come il creatore cerca la solitudine, colui che distrugge deve continuamente attorniarsi di gente, di testimoni della sua attività.
Il carattere distruttivo è un segnale. Come un disegno trigonometrico è esposto da tutti i lati al vento, egli è esposto da tutti i lati al pettegolezzo. Proteggerlo da ciò è privo di senso.
Al carattere distruttivo non importa affatto essere compreso. Sforzarsi in questa direzione lo ritiene superficiale. L'essere frainteso non lo può danneggiare. Al contrario tutto questo lo provoca, come lo provocano gli oracoli, queste distruttive istituzioni statali. Il più piccolo-borghese dei fenomeni, il pettegolezzo, ha luogo solo perché la gente non vuole essere fraintesa. Il carattere distruttivo si lascia fraintendere; così non incoraggia il pettegolezzo.
Il carattere distruttivo è nemico dell'uomo-astuccio. L'uomo-astucccio cerca la propria comodità e di questa l'astuccio ne è la quintessenza. L'interno dell'astuccio è la traccia, rivestita di velluto, che lui ha impresso nel mondo. Il carattere distruttivo cancella perfino le tracce della distruzione.
Il carattere distruttivo sta nel fronte dei tradizionalisti. Mentre alcuni tramandano le cose rendendole intangibili e conservandole, altri tramandano le situazioni rendendole maneggevoli e liquidandole. Questi vengono chiamati i "distruttivi".
Il carattere distruttivo ha la coscienza dell'uomo storico, il cui sentimento fondamentale è un'insormontabile diffidenza nel corso delle cose, nonché la prontezza con la quale prende nota del fatto che tutto può andare storto. Perciò il carattere distruttivo è la fiducia stessa.
Il carattere distruttivo non vede niente di durevole. Ma proprio per questo vede dappertutto delle vie. Ma poiché vede dappertutto una via, deve anche dappertutto sgombrare la strada. Non sempre con cruda violenza, talvolta anche con violenza raffinata. Poiché dappertutto vede vie, egli stesso sta sempre ad un incrocio. Nessun attimo può sapere ciò che il prossimo reca con sé. L'esistente lui lo manda in rovina non per amore delle rovine, ma per la via che vi passa attraverso.
Il carattere distruttivo non vive per il sentimento che la vita merita d'essere vissuta, ma perché non vale la pena di suicidarsi.

giovedì 27 dicembre 2012

la culla del gatto

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Kurt Vonnegut assistette, come prigioniero di guerra, all'uccisione di migliaia di civili inermi, nella città di Dresda, durante i bombardamenti del 13 e del 15 febbraio del 1945, quando la Germania era oramai circondata e si sapeva che la guerra sarebbe finita di lì a poco. Per i tedeschi, la devastazione di Dresda fu un trauma che riuscirono a raccontare solo cinquant'anni dopo, quando W.G. Sebald pubblicò "Luftkrieg und Literatur", dove l'autore, nativo di Austerliz, pose fine al silenzio tedesco sulle vittime dei bombardamenti alleati, strappando le sue rivendicazioni alle minoranze di estrema destra. A vonnegut, invece, l'esperienza di Dresda lo spinse a diventare uno scrittore e gli diede anche l'argomento per uno dei suoi migliori romanzi, "Mattatoio n°5". Ma gli consegnò anche una visione pessimista del mondo che lo accompagnerà fino alla fine dei suoi giorni.
Ricorda Chesterton nella sua Autobiografia, il modo in cui apprese la differenza tra un riso sardonico ed il sarcasmo, per merito di un professore che gli fornì il seguente esempio: "Se fossi per strada, e dovessi scivolare nel fango, riderei di una risata sardonica; ma, se camminando per strada, dovessi vedere il preside di questa scuola scivolare nel fango, allora riderei di una risata sarcastica". Vonnegut, che riesce ad essere incredibilmente sarcastico, nei suoi libri, senza dubbio, non si è mai scordato del fatto che tutte le risate sono sardoniche, e che è sempre uno solo quello che scivola e cade nel fango. Meglio ancora, che è tutta l'umanità a cadere nel fango ogni volta che un preside scivola. Uno scrittore di fantascienza, Vonnegut (e questo rimarrà sempre, anche a suo proprio dispetto!), che a differenza di una buona parte dei suoi colleghi credeva che la scienza non fosse in grado di apportare niente di rilevante, all'umanità, salvo i mezzi perché questa si distruggesse da sé sola. Vonnegut vide la cosa più vicina alla fine del mondo che il ventesimo secolo ha conosciuto, e, a partire da quello, decise di mettersi a scrivere per cercare di far felice un'umanità che sapeva stesse aspettando la prossima opportunità di distruggersi, e che non meriterebbe altro che quel fine a cui tanto contribuisce. Un'umanità che non gli ispirava né rispetto né affetto.
Immaginò questa fine in molti modi, nelle sue opere, ma mai in una forma così esplicita come quella che mette in scena in "Ghiaccio Nove", forse il più pessimista dei suoi romanzi, scritto nel 1963. La prima edizione venderà solo 500 copie. Racconta la storia di uno scrittore che fa una ricerca su Felix Hoennikker, uno dei padri della bomba atomica, e di come questa indagine lo porti su un'isola caraibica. I personaggi più disparati si muovono tutt'intorno allo scrittore e allo scienziato disinteressato per le implicazioni morali del suo lavoro. Da una prostituta loquace ad un venditore di lapidi che sa esattamente cosa non funziona in questo mondo, al presidente di un'associazione di poeti e pittori a favore di una guerra nucleare immediata, un medico che pretende di salvare, sull'isola, tutte le vite che non aveva salvato ad Auschwitx, l'inventore di una religione disperata che trasmette i suoi insegnamenti sulle note del calypso, un nano, un gigante ... Nessuno ha a che fare con Hoennikker, tranne il nano ed il gigante che sono due dei suoi tre figli ed i depositari della sua ultima invenzione: il Ghiaccio 9. Una sostanza in gradi di porre fine alla vita sulla terra. E lo farà, inevitabilmente, solo per il fatto di essere stata inventata, e quindi utilizzata. Cosa, del resto, affermata nella realtà - non nel romanzo - dal generale di brigata Frederick L. Anderson che, interpellato sul perché alla fine della guerra l'aviazione alleata si fosse accanita sulla popolazione civile tedesca, rispose che le bombe sono "merce costosa" e non possono essere lanciate in campo aperto, dopo tutto il lavoro ed i soldi che sono costate per fabbricarle!

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Il titolo originale del romanzo, "Cat's cradle"- la culla del gatto - si riferisce al gioco popolare di abilità che si fa con una cordicella, dove si suppone che, manipolando la cordicella, si possa creare una "culla per il gatto", solo che l'osservatore non vede mai nessuna culla, vede solo un groviglio di fili senza senso; che assomiglia parecchio al mondo.
"Mio padre" - dice un personaggio del libro allo scrittore - "ha bisogno di un libro che si possa leggere alle persone che stanno agonizzando, alle persone che soffrono molto dolore"

mercoledì 26 dicembre 2012

misconosciuto

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"Unsung Hero" è espressione americana, la cui etimologia risale al 1860, per definire "una persona che ha dato un sostanziale e non riconosciuto contributo; e ancora, una persona il cui valore e coraggio è rimasto sconosciuto, o misconosciuto.
Be', Edmund Dene Morel, allora, è un "unsung hero"! Un uomo che contribuì a determinare la fine di un impero, brutale come tutti gli imperi. Animatore instancabile di "campagne", la cui attività getterà le basi per associazioni come "Amnesty International. Arrivò perfino, durante un'elezione, a sconfiggere Winston Churchill, cosa di cui nessuno - o quasi - ha mai sentito parlare.
La storia di Morel comincia con l'invenzione del pneumatico, la quale invenzione, insieme alla crescente popolarità della bicicletta, farà lievitare la domanda per la gomma. La gomma veniva allora prodotta in Congo, e poi spedita in Europa. Al tempo, il Congo era conosciuto come Libero Stato del Congo ed era, praticamente, proprietà personale del re Leopoldo di Belgio, che lo governava per mezzo del suo esercito privato.
Morel aveva un lavoro da impiegato in un ufficio di spedizioni con sede a Liverpool; era immigrato in Inghilterra dalla Francia, di dove era originario. La sua padronanza del francese gli procurò un lavoro direttamente in Congo. E in Congo, si accorse che le navi che viaggiavano portando gomma verso l'Europa, al ritorno erano cariche di soldati e di armi. Ben presto, si rese conto che tutto questo serviva a garantire lavoro forzato e rapina delle risorse naturali di quel territorio. I lavoratori che non resistevano ai ritmi imposti, si ritrovavano con le mani amputate. Stupri, mutilazioni ed omicidi erano all'ordine del giorno. Re Leopoldo ed il suo esercito si erano resi responsabili, fino ad allora, della morta di non meno di 15 milioni di congolesi.
Di fronte ad un simile rompicoglioni, le autorità, dapprima, cercarono di corromperlo, poi passarono alle minacce. Il risultato fu che Morel, dopo essersi licenziato, diede inizio ad una campagna volta a "smascherare e a porre fine quello che sapevo essere un'infamia legalizzata ... accompagnata da barbarie inimmaginabili e responsabili di un vasta distruzione della vita umana".
Morel si armò di una macchina fotografica e cominciò a diffondere immagini di bambini mutilati e di cataste di cadaveri, per contrastare la propaganda ufficiale. Scrisse un libro, "Red Rubber", Gomma Rossa, e fondò anche un giornale, il West African Mail, che cominciò a servire da veicolo per rendere pubblico quello che stava accadendo. E ancora, diede vita alla Congo Reform Association, che divenne la prima campagna di massa per i diritti umano. A questa organizzazione si associarono ben presto sia rivoluzionari irlandesi che diplomatici, ed autori di fama mondiale come Joseph Conrad e Mark Twain. L'ondata di opinione pubblica, che ne conseguì, spinse i governi europei a fare pressione sul Belgio, così che, nel 1908, Leopoldo vendette la sua quota allo stato belga, ricavandone un enorme profitto personale. Venne promessa la riforma, ma le atrocità continuarono. Morel continuò nella sua campagna.
Nel frattempo, nubi si addensavano sull'Europa, e Morel tornò in Inghilterra, scelto come candidato del partito liberale per la circoscrizione di Birkenhead. Preoccupato per il pericolo di probabili brogli, decise di fondare l'Unione di Controllo Democratico che darà vita al più grande movimento anti-bellicista contro la prima guerra mondiale.
La stampa sciovinista lo odiava, ed era disposta a tutto per metterlo in condizioni di non nuocere. Le riunioni dell'unione venivano sabotate ed interrotte, e Morel venne fisicamente aggredito più di una volta. Venne liquidato, come candidato, dal suo proprio partito e, alla fine, arrestato, su ordine del Ministro dell'Interno - anche se la polizia non fu capace di reperire nessuna prova di una sua qualche eventuale colpevolezza. Passò sei mesi in galera, in condizioni tali da far sì che non si sarebbe mai più ripreso.
Dopo la guerra, Morel è apertamente critico del Trattato di Versailles, profeticamente consapevole del fatto che le sue condizioni umilianti avrebbero inevitabilmente portato ad un'altra guerra. Abbandona il partito liberale e si unisce al nuovo partito laburista. Scelto come candidato per Dundee, batte Winston Churchill e guadagna un seggio nel primo governo laburista della storia.
Mentre ci si aspetta che ottenga il Ministero degli Esteri, il capo del governo nomina, invece, sé stesso a quel dicastero. Nel tentativo di farlo stare tranquillo, lo candidano al Nobel per la pace, nel 1924. E ancora una volta, Morel dimostra di essere incorruttibile, pronunciandosi contro la politica di governo del suo partito, che considera immorale. Sarà la sua influenza a determinare che il governo inglese riconosca il nuovo governo comunista della Russia. Morel morirà due settimane più tardi, per un attacco di cuore.

Nel 1946, George Orwell ricorderà "quest'uomo, eroico e dimenticato". Ma nemmeno la potente penna di Orwell riuscirà a salvare dall'oscurità il ricordo e l'eredità di Morel.

fonte: http://www.onthisdeity.com

martedì 25 dicembre 2012

Susie Twain

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Negli anni '80 del diciannovesimo secolo, nel periodo di natale, quando non era occupato a mandare slitte, tirate dai cavalli, piene zeppe di cibo e giocattoli ai vicini meno fortunati di lui, Samuel Clemens, conosciuto anche come Mark Twain, poteva essere trovato a casa, con la sua famiglia, dove spesso fingeva di essere babbo natale. Era la mattina del giorno di natale del 1875, quando Susie Clemens, 3 anni, svegliandosi, trovò una lettera sul suo letto.

Palazzo di St. Nicholas
Sulla Luna.
Mattina di Natale.

Mia cara Susie Clemens:

Ho ricevuto e letto tutte le lettere che tu e la tua sorellina mi avete scritto, per mano di vostra madre e delle vostre balie; ho letto anche che quella voi, piccolo popolo, mi avete scritto con le vostre mani - per quanto non usiate nessuno dei caratteri che si trovano nell'alfabeto delle persone cresciute, usate i caratteri che tutti i bambini usano, sulla terra e sulle stelle scintillanti; e dal momento che tutti i miei sudditi sulla luna sono bambini che non usano altri caratteri che quelli, potrai facilmente capire che posso leggere i fantastici ghirigori tuoi e di tua sorella, senza nessun problema.
Devo dire però che ho avuto problemi con quelle lettere che avete dettato a vostra madre e alle vostre balie, dal momento che io sono uno straniero e non so leggere bene l'inglese. Vi accorgerete che non ho fatto errori, riguardo alle cose che tu e tua sorella avete chiesto nelle lettere scritte da voi - sono venuto giù dal camino, a mezzanotte, quando eri addormentata, ed ho consegnato tutto -  e vi ho baciato tutt'e due, inoltre, perché siete delle bambine buone, beneducate, piene di buone maniere, e praticamente le più obbedienti del piccolo popolo che io abbia mai visto.

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Ma nella lettera che hai dettato c'erano alcune parole di cui non ero sicuro, ed uno o due piccole ordinazioni che non ho pouto soddisfare perché i prodotti erano esauriti. L'ultimo lotto di forniture di cucina per bambole è appena andato ad una piccola bambina molto povera che vive sulla Stella Polare, in un freddo paese sopra l'Orsa Maggiore. Tua madre può mostrarti quella stella, così tu dirai:"Piccolo Fiocco di Neve," (perché quello è il nome della bambina)"sono lieta che abbia avuto tu i mobili per la cucina, in quanto ne hai più bisogno di me." Ma, in altre parole, bisogna che tu le scriva, di mano tua, così Fiocco di Neve, a sua volta, ti scriverà una risposta. Se ti limiti a parlarle, lei non può sentirti. Fa' che la tua lettera sia sottile e leggera, perché la distanza è grande e le spese di spedizione sono molto care.
C'era una parola o due nella lettera di tua madre di cui non sono riuscito ad essere sicuro. L'ho presa per qualcosa tipo "baule pieno di vestiti per bambole". E' così? Sarò alla porta della tua cucina verso le nove di questa mattina per scoprirlo. Ma non deve vedermi nessuno e non devo parlare con nessuno tranne che con te. Quando suonerà il campanello alla porta della cucina, George dovà essere bendato epoi mandato ad aprire la porta. Poi deve tornare in sala da pranzo con il cuoco. Devi dire a George che deve camminare in punta di piedi e non deve parlare - altrimenti un giorno morirà. Poi devi andare nella stanza dei bambini e metterti in piedi su una sedia o su un lettino, e appoggiare il tuo orecchio al tubo per parlare che comunica con la cucina e quando io ci fischierò dentro, devi parlare nel tubo e dire, "Benvenuto, Babbo Natale". Allora io ti chiederò se era o no un baule, quello che hai ordinato. Se dirai di sì. ti chiederò di che colore vuoi che sia il baule. La tua mamma ti aiuterà a trovare il nome di un bel colore ed allora dovrai dirmi, in dettaglio, ogni singola cosa che vuoi che il baule debba contenere. Poi, quando dico "Arrivederci e Buon Natale alla mia piccola Susie Clemens", dovrai dire "Arrivederci buon vecchio Babbo Natale, ti ringrazio tantissimo e ti prego di dire a Fiocco di Neve che stanotte guarderò verso la sua stella e lei dovrà guardare giù verso qui - sarò proprio alla finestra che dà ad est; ed ogni notte, quando sarà sereno, guarderò verso di lei  e dirò, 'So che lassù c'è qualcuno e io le voglio bene." Poi andrai giù, in libreria, e dirai a George di chiudere tutte le porte che danno sul salone principale, e tutti dovranno ancora stare fermi nel frattempo. Io andrò sulla luna e prenderò quelle cose ed in pochi minuti tornerò giù per il tubo del camino che si trova nella sala - se è un baule quello che volevi - perché non posso portare un baule giù per il camino della stanza dei bambini, lo sai.
Gli altri potranno parlare, se vogliono, finché non sentiranno i miei passi nella sala. Allora dirai loro di stare zitti per un istante mentre me ne torno su per il camino. Forse dopo tutto non sentirai i miei passi - così di tanto in tanto puoi guardare attraverso la porta aperta della sala, così potrai vedere la cosa che desideri comparire sotto il pianoforte, in salotto, dove io la metterò. Se dovessi lasciare della neve nella sala, dovrai dire a George di pulire, perché io non ho tempo per queste cose. George non deve usare una scopa, ma uno straccio - altrimenti morirà un giorno. Devi stare attenta a George e non lasciare che corra questo rischio. Se i miei stivali dovessero lasciare delle strisciate sul marmo, George non dovrà fare niente. Lascia che rimangano lì, in ricordo della mia visita; ed ogni volta che le guarderai o le mostrerai a qualcuno ti ricorderanno di essere una brava bambina. Ogni volta che sarai cattiva e qualcuno ti indicherà quel segno sul marmo lasciato dallo stivale del tuo buon vecchio babbo natale, cosa dirai, piccolo tesoro?

Addio per qualche minuto, fino a quando non verrò giù a suonare il campanello.

Il tuo amore

Babbo Natale

Che la gente qualche volta chiama "L'Uomo nella Luna"

fonte: http://www.lettersofnote.com

lunedì 24 dicembre 2012

natale

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la povertà dell’esperienza, e viceversa

Verrebbe quasi da considerarlo preveggente, questo scritto, questo frammento, di Walter Benjamin, risalente al 1933 e così attuale.
Un nuovo concetto, positivo, di barbarie, nel quadro della perdita dell'esperienza, e di una crisi economica alle porte, quasi inseguita dall'ombra di una guerra a venire. Vengono i brividi, pensandolo nell'oggi, questo frammento, mentre continuo a rileggerlo e mentre i secoli, e le barbarie, si confondono, per poi staccarsi nettamente su uno sfondo in cui, noi, continuiamo ad agitarci e ci apprestiamo a sopravvivere. Anche grazie a Walter Benjamin.

benjamin
Esperienza e Povertà - 1933 -
di Walter Benjamin

In tutte le nostre antologie scolastiche compare la favola del vecchio che, sul suo letto di morte, fa credere ai suoi figli che c'è un tesoro sepolto nella vigna. Non devono fare altro che cercarlo. I figli scavano, ma non c'è traccia del tesoro. Quando arriva l'autunno, però, la vigna fruttifica, come nessun'altra in tutto il paese. Capiscono allora che il loro padre ha voluto lasciare loro il frutto della sua esperienza: la vera ricchezza non risiede nell'oro, bensì nel lavoro. Sono le esperienze di questo genere, quelle che ci vengono contrapposte, minacciosamente o bonariamente, per tutto il tempo della nostra adolescenza: «E' ancora un moccioso e vuole mettere bocca.» « Hai ancora un bel po' da imparare.» L'esperienza, sappiamo perfettamente che cos'è: gli anziani l'hanno sempre consegnata ai più giovani. In modo conciso, con l'autorità dell'età, sotto forma di proverbi; in maniera più articolata, loquacemente, sotto forma di storie; perfino nei racconti di terre lontane, intorno al camino, davanti ai figli e ai nipoti. - Ora tutto questo è finito? Ci sono ancora delle persone in grado di raccontare delle storie? I moribondi pronunciano ancora delle parole imperiture, che si trasmettono di generazione in generazione, come un anello ancestrale? A chi, oggi, viene in mente di recitare un proverbio per tirarsi fuori dall'imbarazzo? Chi è che prova a chiudere il becco alla gioventù, invocando la propria esperienza passata?
No, una cosa è chiara; le quotazioni dell'esperienza sono crollate, ed è accaduto dentro la generazione che nel 1914-1918 ha fatto una delle più terrificanti esperienze della storia universale. Il fatto, perciò, non può essere così sorprendente come sembra. Non si poteva forse già allora constatare che le persone ritornano mute dal campo di battaglia? Non più ricche, ma più povere di esperienza comunicabile. Quello che si è riversato dieci anni più tardi nel diluvio di libri di guerra non aveva niente a che fare con una qualsiasi esperienza, perché l'esperienza si trasmette dalla bocca all'orecchio. No, questa svalutazione non ha niente di sorprendente. Perché mai le esperienze acquisite sono state così radicalmente smentite, come l'esperienza strategica è stata smentita dalla guerra di posizione, l'esperienza economica dall'inflazione, l'esperienza corporale dalla prova della fame, l'esperienza morale dalle manovre dei governanti. Una generazione che era andata a scuola sui tram tirati dai cavalli si è ritrovata in breve dentro un paesaggio dove più niente era riconoscibile, tranne le nuvole, ed in mezzo, in un campo di forze attraversate dalla tensione e dalle esplosioni distruttrici, i minuscoli e fragili corpi umani.
Quest'impressionante dispiegamento della tecnica ha piombato gli uomini in una povertà del tutto nuova. E tutto questo ha avuto, come altra faccia della medaglia, l'oppressiva profusione di idee che si desta nelle persone - o piuttosto: che si diffonde su di loro - la reviviscenza dell'astrologia e dello yoga, dello scientismo e della chiromanzia, del vegetarianesimo e della gnosi, della scolastica e dello spiritismo. Non tanto un'autentica reviviscenza, quanto una galvanizzazione, quella che qui si svolge. Pensate alle magnifiche pitture di Ensor, che mostrano le strade delle grandi città piene di tumulto, dove si riversa, non vista, una coorte di piccoli borghesi in costume da carnevale, con maschere ghignanti smorfie e fronti ornate da corone di paillettes. Questi quadri mostrano forse soprattutto la rinascita spaventosa e caotica nella quale tante persone ripongono le loro speranze. Ma noi qui vediamo, nel modo  più chiaro, che la nostra povertà d'esperienza non è che un aspetto di questa grande povertà che ha di nuovo trovato un volto - un volto netto e distinto che è quello del mendicante del Medio Evo. Cos'è allora che rimane del nostro patrimonio culturale, se non abbiamo più con esso, semplicemente, nessun legame di esperienza? Cosa ne consegua, dal simularla o ingannarla, il terribile miscuglio di stili e ideologie del secolo scorso, ce l'ha reso troppo chiaro, dimostrandoci quanto sia disonorevole confessare la nostra povertà. Diciamo la verità, la povertà non sta solo nelle nostre esperienze private, ma nelle esperienze di tutta l'umanità. E questo è un nuovo tipo di barbarie.
Barbarie? Certo. Lo diciamo per introdurre un nuovo concetto, positivo, della barbarie. A cosa è spinto, il barbaro, dalla povertà di esperienza? A ricominciare da capo, a ripartire da zero, ad accontentarsi di poco, a costruire con praticamente niente, senza volgersi né a destra né a sinistra. Tra i grandi creatori, ci sono sempre stati di questi spiriti implacabili, che cominciavano col fare tabula rasa. Volevano avere, per prima cosa, un grande tavolo da disegno; erano dei costruttori. Cartesio era uno di questi, che per tutta la sua filosofia volle una sola certezza: "penso, dunque sono", e da lì partì. Anche Einstein era un costruttore di tal genere cui, dell'intero vasto mondo della fisica, niente lo interessava più di una piccola, singola discordanza tra le equazioni di Newton ed i risultati delle osservazioni astronomiche. E lo stesso, identico, 'cominciare daccapo' lo avevano ben in mente gli artisti, come i cubisti, quando facevano riferimento alla matematica, e costruivano il mondo da forme stereometriche, o come Klee che si ispirava al lavoro degli ingegneri. Poiché le figure di Klee, si possono dire progettate praticamente sul tavolo da disegno, e come una buona automobile in cui, anche la carrozzeria, obbedisce agli imperativi della meccanica, esse rispondono, nell'espressione facciale, innanzitutto alla struttura interna. Alla loro struttura, più che alla loro vita interiore: è questo che le rende barbare.
Qua e là, le migliori menti hanno da lungo tempo cominciato a farsi un'idea a proposito di queste tematiche. Si sono caratterizzate per una totale mancanza di illusioni sul loro tempo e, ciononostante, per una pronuncia senza riserve in suo favore. Questo è il loro contrassegno. Lo stesso atteggiamento che si trova in Bert Brecht, quando osserva che il comunismo è l'equa distribuzione, non della ricchezza, ma della povertà, e quando il precursore dell'architettura moderna, Adolf Loos, afferma: "Scrivo per gli uomini con una sensibilità moderna (...) Non scrivo per gli uomini che si consumano di nostalgia per il Rinascimento o per il rococò." Un artista così complesso, come Klee, ed uno così programmatico, come Loos - entrambi rifiutano l'immagine umana tradizionale, solenne, nobile, fregiata di tutte le offerte sacrificali del passato, e si rivolgono al loro contemporaneo, spogliato di ogni ornamento, che piange come un bambino in fasce, le sudicie fasce di quest'epoca. Nessuno gli ha riservato un'accoglienza più gioiosa e ridente di quanto abbia fatto Paul Scheerbart. Ha scritto romanzi che, da lontano, assomigliano a quelli di Jules Verne, ma a grande differenza di Verne, nelle cui opere sono sempre presenti piccoli redditieri, inglesi o francesi, impegnati a volare in giro per lo spazio nei più fantastici veicoli, Scheerbart si è interessato al problema di come queste creature completamente nuove, amabili e curiose, i nostri telescopi, i nostri razzi ed aerei, trasformino il nostro uomo di ieri. Queste creature già parlano una lingua completamente nuova. Il fattore determinante in questa lingua è l'attrazione per tutto ciò che è parte di un piano deliberato di costruzione, soprattutto se in contrasto con la realtà organica. E' il segno inconfondibile del linguaggio umano - o meglio, delle persone - in Scheerbart. Proprio a partire dal rifiuto di qualsiasi somiglianza con l'uomo, il principio dell'umanesimo. Perfino nei suoi nomi propri: i personaggi, nel libro "Lesabéndio", si chiamano Peka, Labu, Sofanti e simili. Anche ai russi piace dare ai propri figli nomi disumanizzati. Li chiamano "Ottobre", come il mese della rivoluzione, oppure "Piatililitka", come il piano quinquennale, o ancora "Aviakhim", il nome di una compagnia aerea. Nessun rinnovamento tecnico della lingua, ma una mobilitazione della stessa al servizio della lotta o del lavoro; in ogni caso, la trasformazione della realtà, piuttosto che la descrizione.

Paul Scheerbart in the Glas Pavilion 1914

Scheerbart, per tornare a lui, attribuisce una grande importanza ad installare i suoi personaggi - e secondo tale modello, i suoi concittadini - in case degne del loro rango; dentro case mobili fatte di vetro, come Loos e Le Corbusier intanto hanno costruito. Il vetro, non è una coincidenza, è un materiale duro e liscio a cui niente si attacca. Ma è anche un materiale freddo e sobrio. Le cose di vetro non hanno "aura". Il vetro è soprattutto il nemico del mistero. E' anche il nemico della proprietà. Il grande scrittore André Gide ha detto una volta: ogni oggetto che voglio possedere, per me diventa opaco. Se persone come Scheerbart sognano case di vetro, non è forse perché sono gli apostoli di una nuova povertà? Ma forse un esempio ci dirà di più, a tale scopo, di quanto possa fare la teoria. Entrando in una stanza borghese degli anni 1880, in tutta la comoda e tranquilla agiatezza che essa irradia, l'impressione più forte è quella del "qui tu non hai da cercare niente". Non hai niente da cercare, perché non c'è angolo dove gli abitanti non abbiano lasciato un segno: i ninnoli sulle mensole, la coperta sulla poltrona, le vetrofanie alle finestre, il parafuoco davanti al camino. C'è una bella espressione di Brecht, che qui aiuta ad andare avanti, molto avanti: "Cancella le tracce", dice il Coro della prima poesia del Manuale per gli abitanti delle città. Qui, nel salone borghese, l'atteggiamento opposto è l'abitudine. E' l'interno, d'altra parte, che obbliga il suo abitante a prendere la maggior parte delle abitudini, le quali sono appunto commisurate assai più all'interno in cui vive, che a sé stesso. Per convincersene, basta riflettere sullo stato in cui cadevano quando nella loro dimora qualcosa andava in pezzi. Il loro stesso modo di irritarsi - e sapevano accentuare virtuosamente, questa passione che a poco a poco comincia ad estinguersi - era soprattutto la reazione di una persona cui viene cancellata ogni "traccia del suo soggiorno terreno". E da qui, Scheerbart con il suo vetro, e il Bahaus con il suo acciaio, sono riusciti a costruire spazi dove è difficile lasciare tracce. Tutto quello che è stato detto in questo libro - spiegava Scheebart più di vent'anni fa - ci autorizza a parlare di una civiltà del vetro [Glaskultur]. Il nuovo ambiente che trasformerà completamente l'uomo. E c'è da sperare soltanto che la nuova civiltà del vetro non trovi troppi avversari.
Povertà di esperienza: questo non va inteso come se gli uomini anelassero ad una nuova esperienza. No, essi aspirano ad essere esonerati una qualsiasi esperienza di sorta, desiderano un ambiente in cui possano far risaltare la loro povertà, quella esteriore e, in definitiva, quella interiore, in modo così netto e chiaro che ne possa venir fuori qualcosa di decente. Del resto, non sono sempre ignoranti o inesperti. Spesso, anzi, si può dire il contrario: hanno divorato tutta questa "cultura" e tutto "l'uomo", e ne sono stanchi e disgustati. Nessuno si sente coinvolto da queste parole di Scheerbat: "Siete tutti così stanchi - ed in realtà è solo perché non concentrate tutti i vostri pensieri intorno ad un piano semplice ma veramente grandioso." Alla stanchezza segue il sonno, e quindi non è raro che che il sogno compensi la tristezza e lo scoramento del giorno, rendendo la vita assai più semplice, ma grandiosa, realizzando qualcosa per cui, nello stato di veglia, manca la forza. L'esistenza di Topolino è uno dei sogni degli uomini di oggi. Un'esistenza piena di meraviglie che non solo superano quelle della tecnica, ma se ne prendono gioco. Perché quel che è più notevole, è che non mettono in gioco alcuna macchineria, ma saltano direttamente fuori dal corpo di Topolini, dei suoi complici e dei suoi persecutori, dai comuni mobili della casa, così come da un albero, dalle nubi o da un lago. Natura e tecnica, primitività e comfort, sono diventati perfettamente una cosa sola. E questo, agli occhi della gente, stancatasi delle complicazioni senza fine della vita quotidiana, e per cui il fine della vita affiora soltanto come un lontanissimo punto di fuga, in un'infinita prospettiva di mezzi, appare come liberatorio e liberante un'esistenza che basta a sé stessa, in ogni frangente, nel modo più semplice e più confortevole allo stesso tempo, dove un'automobile non pesa più di un cappello di paglia e il frutto dell'albero si gonfia velocemente come un pallone areostatico.
Ma manteniamo le distanze, facciamo un passo indietro!
Siamo diventati poveri. Pezzo dopo pezzo, abbiamo fatto scialo del patrimonio dell'umanità, lo abbiamo dovuto lasciare al Monte di Pietà, spesso per ottenere in cambio solo un centesimo del suo valore, in moneta corrente. La crisi economica è alle porte, dietro di essa un'ombra, la guerra che avanza. Rimanere saldi è ormai affare solo di pochi potenti che, lo sa iddio, non sono più umani di molti, anzi sono spesso più barbari, ma nel senso sbagliato. Tutti gli altri, quindi, devono arrangiarsi come possono, ripartire con un altro piede e con poca scelta. Fanno causa comune con quegli uomini impegnati ad esplorare delle possibilità radicalmente nuove, fondandosi sul discernimento e sulla rinuncia. Nei suoi edifici, fra i suoi dipinti e la sua storia, l'umanità si appresta a sopravvivere, se necessario, alla scomparsa della cultura. E quel che più importa è che lo fa, ridendo. Forse, a tratti, questo riso suona barbaro. Bene!
Talvolta il singolo può cedere un po' della sua umanità a quella massa che, un giorno, gliela renderà con interessi doppi.

- Walter Benjamin -

domenica 23 dicembre 2012

debiti

david-graeber

Per dirla con Anselm Jappe, "Lo slogan "noi siamo il 99%" è assolutamente il più demagogico ed il più stupido che si può sentire, ed è potenzialmente il più pericoloso." Questo non toglie tuttavia, in alcun modo, interesse al libro di David Graeber (che tale slogan ha coniato), "Debito. I primi 5000 anni", il quale - avvalendosi di strumenti antropologici - indaga relazioni di potere e nascita del denaro, facendo giustizia delle favolette propedeutiche alla nascita della "scienza economica", a proposito di una sorta di trapasso quasi indolore da un presunto "baratto primordiale" alla nascita della moneta.
Comprendere, credo che sia un prerequisito fondamentale, a prescindere dal fatto che, a partire dalla comprensione, si possono anche non condividere conclusioni e analisi della realtà attuale.
Quella che segue, è un'intervista a Graeber, realizzata dall'antropologo Philip Pilkingron e pubblicata sul blog naked capitalism, che riesce a riassumere le analisi svolte nel libro.

fonte: http://sinistrainrete.info/teoria/1701-david-graeber-che-cose-il-debito-.html

 

debito

Philip Pilkington: La maggior parte degli economisti sostiene che il denaro fu inventato per sostituire il sistema basato sul baratto. Ma le ricerche svolte hanno condotto a risultati completamente diversi, dico giusto?

David Graeber: Sì, c'è una storiella convenzionale che è stata raccontata a tutti noi, un "c'era una volta" – nient'altro che una fiaba, in effetti. Non merita davvero di essere introdotta diversamente da così: secondo questa teoria, in origine tutti gli scambi erano fondati sul baratto. "Sai cosa ti dico? Ti darò venti galline per quella vacca. O tre punte di freccia per quella pelliccia di castoro o per qualcos'altro tu possa offrirmi." Questo creava degli inconvenienti, magari perché il tuo vicino non aveva bisogno di galline in quel momento, ragion per cui si dovette inventare il denaro.
Questa storia risale almeno ad Adam Smith e a suo modo è il mito fondativo della scienza economica. Ora, io sono un antropologo e noi antropologi sappiamo da parecchio che si tratta di un mito, per il semplice fatto che, se ci fossero stati luoghi in cui gli scambi quotidiani si svolgevano secondo la formula "ti darò venti galline per quella vacca", avremmo scoperto almeno uno o due esempi di questa pratica. Dopo tutto, simili esempi sono stati cercati fin dal 1776, anno in cui fu pubblicata per la prima volta "La Ricchezza delle Nazioni". Ma se ci si pensa un attimo, difficilmente può sorprenderci il fatto che non si sia trovato nulla.
Si pensi a cosa sottintende quest'idea. Fondamentalmente, che un qualche gruppo di contadini neolitici, i Nativi americani o altri per essi, effettuavano scambi fra loro soltanto attraverso quelle che noi oggi chiameremmo operazioni a pronto [contrapposte alle operazioni "pronto contro termine", in cui un bene viene ceduto da A a B sul momento, in cambio di un bene di eguale o maggior valore che sarà ceduto nel futuro da B ad A, NdT]. Perciò, se il tuo confinante non ha quello che ti serve in questo momento, niente da fare.
Ovviamente, nella realtà accadrebbe qualcosa di ben diverso – ed è esattamente questo che gli antropologi osservano quando dei confinanti si impegnano in qualcosa come uno scambio reciproco: se vuoi la vacca del tuo vicino, tu diresti "Accidenti che bel capo!", e lui risponderebbe "Ti piace? Prendilo!" – e tu ti troveresti in debito con lui. Abbastanza di frequente, poi, le persone non si impegnano affatto in uno scambio; se si trattasse di Irochesi o di altri Nativi americani, ad esempio, tutti questi beni sarebbero probabilmente redistribuiti dai Consigli delle donne.
Perciò la vera domanda non è come il baratto generò un qualche mezzo di scambio, che assurse poi al rango di "denaro", quanto piuttosto come quel "sono in debito con te", nel suo senso più generale, diede origine ad un sistema preciso di misurazione, vale a dire al denaro come unità di conto.
All'epoca cui risalgono i reperti storici dell'antica Mesopotamia, intorno al 3.200 avanti Cristo, questa transizione è già avvenuta. Esistono già un sistema piuttosto elaborato di denaro di conto e un complesso sistema di credito. Soltanto il denaro inteso come mezzo di scambio o come un insieme standardizzato di unità circolanti in oro, argento, bronzo o altro, arriverà più tardi.
Questa ricostruzione, piuttosto che la classica storiella - quella secondo cui prima sarebbe venuto il baratto, poi il denaro, infine il credito – è la migliore spiegazione oggi a nostra disposizione. Il debito e il credito vennero per primi, quindi la coniazione di moneta emerse a distanza di qualche millennio e infine, quando ti capita di trovare il sistema di baratto del tipo "ti darò venti galline per quella vacca", è di solito in luoghi dove prima c'erano mercati basati sul denaro, ma per qualche motivo – come nel 1998 in Russia, ad esempio – sono collassati, o nei quali la moneta è scomparsa dalla circolazione.
 
PP: Lei sostiene che all'epoca cui risalgono i primi resoconti storici, redatti in Mesopotamia intorno al 3.200 A.C., c'era già in piedi una complessa architettura finanziaria. All'epoca quindi la società era già divisa in classi di debitori e creditori? Se la risposta è no, quando accadde ciò? Lei crede inoltre che sia questa la più fondamentale divisione in classi della storia umana?

DG: Da un punto di vista storico sembrano esserci due possibilità. Una è quella scoperta nell'Antico Egitto: uno stato fortemente centralizzato e un'amministrazione che riscuoteva delle tasse da chiunque non ne facesse parte. Per la maggior parte della storia egizia, l'usanza di prestare denaro ad interesse non si sviluppa affatto. Probabilmente non ne avevano bisogno.
In Mesopotamia le cose stanno diversamente perché lì lo stato emerse in modo discontinuo e incompleto. Inizialmente c'erano grandi templi in cui vigeva un controllo burocratico, poi fecero la loro comparsa anche dei sistemi di palazzo, ma non si trattava di veri e propri "governi" e non riscuotevano tasse dirette, che erano invece considerate un dovere dei popoli sottomessi. Piuttosto, possiamo dire si trattasse di enormi complessi industriali, con le loro terre, il loro bestiame e le loro fattorie. Fu qui che il denaro venne impiegato per la prima volta, come unità di conto; era utilizzato per redistribuire le risorse all'interno di questi complessi.
I prestiti ad interesse, a loro volta, hanno probabilmente la loro origine negli accordi fra gli amministratori e i mercanti che trasportavano, poniamo, i manufatti in lana prodotti nelle fattorie di proprietà dei templi (che inizialmente erano almeno in parte delle imprese caritatevoli, offrendo ospitalità agli orfani, ai profughi o alle persone disabili, ad esempio) e commerciavano questi beni in terre lontane scambiandole con metallo, legno o pietre preziose. I primi mercati si formarono ai confini di questi complessi e pare funzionassero in larga misura sulla base del credito, utilizzando le unità di conto introdotte nei templi. Tuttavia questa circostanza offrì ai mercanti, agli amministratori dei templi e ad altri individui "ben piantati" l'opportunità di offrire prestiti per il consumo ai contadini per cui, se ad esempio il raccolto andava male, tutti cominciavano a restare invischiati nei debiti.
Fu questa la grande sciagura sociale dell'antichità – le famiglie si trovavano costrette ad ipotecare il bestiame e le terre e, dopo un po', persino le mogli e i figli potevano essere richiesti come pegno per i debiti. Spesso gli individui potevano trovarsi costretti ad abbandonare del tutto le città, unendosi a bande semi-nomadi, minacciando di tornare armati e di rovesciare del tutto l'ordine esistente. I governanti conclusero quindi che l'unico modo per prevenire un completo collasso sociale consisteva nel dichiarare bancarotta o "pulire le tavolette", cancellando tutti i debiti dei consumatori per ricominciare da capo.
Non è un caso che la prima parola che ci è stata tramandata con il significato di "libertà" sia il termine sumerico amargi, che stava per "libertà dai debiti" e che in senso letterale significava "ritorno alla madre": quando veniva dichiarata bancarotta, infatti, tutti i pegni offerti come garanzia del debito potevano "tornare a casa".
 
PP: Lei ha sottolineato nel suo libro che quello di "debito" era un concetto morale, ben prima di diventare un concetto economico. Ha inoltre notato che si tratta di una nozione morale piuttosto ambivalente, dal momento che può essere intesa sia in senso positivo che negativo. Potrebbe spiegare questo passaggio? Quale dei due aspetti ha svolto il ruolo più importante?

DG: Il concetto tende ad oscillare molto. Si potrebbe riassumere la storia in questo modo: ad un certo punto l'approccio egizio (tasse) e quello mesopotamico (usura) si fusero insieme, e le persone si trovarono a contrarre prestiti per pagare le tasse. Il debito fu istituzionalizzato.
Anche le tasse rappresentarono un passaggio-chiave per la creazione dei primi mercati fondati sulla moneta circolante; pare infatti che la coniazione di monete sia stata inventata, o quanto meno si sia diffusa su ampia scala, per pagare i soldati. Ciò accadde più o meno simultaneamente in Cina, in India e nel Mediterraneo, dove i governi scoprirono che il modo più semplice per garantire l'approvvigionamento delle truppe consisteva nel concedere loro piccole porzioni standard di oro o di argento, e quindi esigere che chiunque altro all'interno della giurisdizione adoperasse quelle stesse monete come mezzo di pagamento per le tasse. Fu così che il linguaggio del debito e quello della morale cominciarono a svilupparsi.
In sanscrito, ebraico ed aramaico, per dire "debito", "colpa" e "peccato" si impiegava in effetti lo stesso termine. Buona parte del lessico dei grandi movimenti religiosi – giudizio, redenzione, equilibrio karmico e via dicendo – derivano dal linguaggio dell'antica finanza. Ma quel linguaggio risultava sempre mancante e inadeguato e cominciò ad essere travisato fino a trasformarsi in qualcosa di completamente diverso. È come se i grandi profeti e maestri di dottrina non avessero altra scelta che cominciare con quel genere di lessico perché era l'unico lessico disponibile all'epoca, ma che adottandolo l'abbiano stravolto, fino a trasformarlo nel suo opposto: come un modo per dire che i debiti non sono sacri di per sé, ma che il condono dei debiti, o la capacità di azzerarli, o di fare in modo che i debiti non siano effettivi – questi atti sì che sono veramente sacri.
Come accadde ciò? In precedenza ho detto che la grande domanda sull'origine del denaro è come possa essere accaduto che un generico senso di obbligazione ("sono in debito con te") si sia potuto trasformare in qualcosa che poteva essere quantificato in modo preciso. La risposta sembra quindi essere: ciò accade dove c'è la possibilità che la controversia si risolva con la violenza. Se si dà a qualcuno un maiale e in cambio si riceve soltanto qualche gallina, si potrebbe dire di aver a che fare con uno spilorcio, e schernirlo per questo; ma è improbabile che si riesca ad elaborare una formula matematica per misurare questa semplice percezione soggettiva. Ma se qualcuno colpisce il vostro occhio in un combattimento, o uccide vostro fratello, è in casi come questi che si comincia a dire "l'usanza prevede una compensazione di ventisette cavalle sane della migliore razza, e se non sono sane e della migliore razza, questo significa guerra!".
Il denaro, nel senso di un esatto equivalente, sembra emergere da situazioni come queste, ma anche dalla guerra e dal saccheggio, dalla distribuzione del bottino, dalla schiavitù. Nell'Irlanda medievale, ad esempio, la valuta più pregiata era rappresentata dalle schiave. E, in una qualsiasi casa, si sarebbe potuto specificare il valore esatto di ogni cosa, anche se pochissimi di quegli oggetti erano realmente vendibili, per il semplice fatto che erano utilizzati per pagare multe o danni se qualcuno li rompeva.
Ma una volta compreso che tasse e denaro cominciarono a diffondersi con la guerra, diventa più semplice capire cosa accadde realmente. Si tratta di una regola ben nota ai mafiosi. Se si vuole instaurare un rapporto di estorsione violenta, di potere assoluto, e quindi trasformarlo in qualcosa di "morale" – facendo addirittura sembrare che siano le vittime a doversi vergognare – quello che si deve fare è trasformare questo rapporto in uno fondato sul debito: "mi devi parecchio, ma per ora ti concedo ancora un po' di tempo...".
Molti esseri umani nella storia devono aver sentito parole del genere dai loro creditori. Il punto cruciale è: che altra risposta potresti dare se non "aspetta un attimo, chi deve cosa a chi"? E naturalmente per migliaia di anni è precisamente questo che hanno detto le vittime; ma nel momento stesso in cui lo facevano, utilizzavano il linguaggio dei loro governanti, ed ammettevano quindi che debito e moralità erano davvero la stessa cosa. Era questa la situazione che teneva in scacco i pensatori religiosi, e fu per questo che, prendendo le mosse dal linguaggio del debito, essi cercarono di rigirarlo e di trasformarlo in qualcos'altro.

PP: Questo modo di pensare somiglia molto a quello di Nietzsche. Nella sua "Genealogia della morale", il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche propose una celebre argomentazione secondo cui tutta la moralità si fondava sulla riscossione dei debiti sotto la minaccia della violenza. Il senso di obbligazione instillato nel debitore era, per Nietzsche, l'origine della civiltà in quanto tale. Lei ha studiato nel dettaglio come moralità e debito si intrecciano fra loro. Come le sembra l'argomentazione nietzscheana a distanza di più di 100 anni? E cosa ritiene sia venuto prima: la moralità o il debito?

DG: Per essere onesti, non sono mai stato tanto sicuro che Friedrich Nietzsche parlasse seriamente in quel passaggio, o se l'intera argomentazione non fosse piuttosto un modo per scandalizzare il suo pubblico borghese; un modo insomma per sostenere che se si parte dalle assunzioni del pensiero borghese riguardo alla natura umana, il ragionamento conduce in modo logico ad una conclusione che metterà a disagio gran parte di quel pubblico.
In effetti, Nietzsche fa partire il suo ragionamento esattamente dalle stesse premesse da cui aveva preso le mosse Adam Smith: gli esseri umani sono razionali. Ma qui razionalità significa calcolo e scambio, e dunque commercio e baratto; vendere e comprare è allora la prima espressione del pensiero umano ed è quindi antecedente a qualsiasi tipo di relazione sociale. Ma ciò rivela allora in modo esatto per quale motivo Adam Smith sosteneva che gli uomini neolitici interagissero attraverso il commercio "a pronto". Infatti, se non intratteniamo alcuna precedente relazione su basi etiche, e la moralità emerge soltanto attraverso lo scambio, allora le relazioni sociali in via di sviluppo fra due individui si formeranno solo se lo scambio è incompleto – ossia se qualcuno non ha pagato.
In questo caso, una delle due parti agisce in modo criminale, e la giustizia dovrà essere istituita per consentirne la punizione tramite vendetta. Da ciò ne consegue pertanto che tutti i codici di leggi, quando ricorrono a formule del tipo "venti cavalle per un occhio strappato", in origine implicavano precisamente il contrario. Se devi a qualcuno venti cavalle e non sei in grado di assolvere il tuo debito, costui è autorizzato a strapparti l'occhio. L'etica inizia con la "libbra di carne" di Shylock.
Inutile dire che non c'è alcuna prova di tutto questo – Nietzsche inventò il ragionamento da cima a fondo. La domanda è semmai se credeva davvero nella sua argomentazione. Forse sono un ottimista, ma preferisco credere che non ci credesse sul serio. In ogni caso, il ragionamento ha senso se si prendono per buone quelle premesse; ossia che tutte le interazioni umane sono basate sullo scambio e, quindi, che tutte le relazioni che si sviluppano a partire da lì, sono fondate sul debito. Queste assunzioni fanno a pugni con tutto quello che oggi sappiamo o di cui facciamo esperienza riguardo alla vita umana. Ma se si comincia a pensare che il mercato è il modello per tutto il comportamento umano, le conclusioni sono queste.
Se al contrario si abbandona del tutto il mito del baratto, si assume come premessa una comunità dove gli individui intrattengono relazioni morali anteriori allo scambio, e ci si chiede come accadde che queste relazioni finirono per essere inquadrate in termini di "debiti" – il che vuol dire come qualcosa di esattamente quantificabile, impersonale e quindi trasferibile – beh, in questo caso si pone una domanda completamente diversa. In questo caso sì, bisogna considerare anzitutto il ruolo della violenza.
 
PP: Interessante. Forse è questo il momento giusto per chiederle come vede la sua ricerca sul debito in rapporto al classico saggio sul dono del grande antropologo francese Marcel Mauss.

DG: A suo modo, il mio lavoro rientra nel solco della tradizione maussiana. Marcel Mauss fu uno dei primi antropologi a chiedersi: va bene, ma se non cominciò con il baratto allora come? Come si comportano i popoli che non usano il denaro quando i beni cambiano di mano? Gli antropologi hanno documentato una varietà infinita di sistemi economici del genere, ma non hanno sviluppato dei veri e propri principi generali. Mauss notò che in quasi tutti questi sistemi, ognuno si comportava come se stesse semplicemente regalando qualcosa ad un altro, negando in modo deciso di aspettarsi qualcosa in cambio. Ma in realtà tutti sottintendevano delle regole implicite e coloro che ricevevano si sentivano obbligati ad offrire qualcosa in cambio.
Ciò che affascinava Mauss era il fatto che ciò sembrava essere universalmente vero, persino oggi. Se invito a pranzo un economista liberista, lui si sentirà in dovere di rendermi il favore e di invitarmi a pranzo in un'altra occasione. Potrebbe persino pensare di essere uno sciocco se non lo fa, e questo anche se la sua teoria gli suggerisce che ha semplicemente ottenuto qualcosa in cambio di nulla e dovrebbe esserne felice. Perché funziona così? Qual è la forza che mi fa sentire in obbligo di offrire un contro-dono?
Si tratta di un punto molto importante, e dimostra che esiste sempre una qualche moralità sottesa a quella che chiamiamo "realtà economica". Ma mi colpisce il fatto che se ci si concentra troppo su un solo aspetto della tesi di Mauss, si finisce di nuovo per ridurre tutto allo scambio, solo con l'aggiunta della clausola per cui alcuni fingono di non essere interessati ad ottenere nulla in cambio. In realtà Mauss non pensava a tutti in termini di scambio. Questo diventa chiaro se si leggono gli altri suoi saggi oltre a quello sul dono. Mauss insisteva sul fatto che oltre alla reciprocità ci sono molti principi differenti all'opera in ogni società, inclusa la nostra.
Come esempio, si potrebbe citare la gerarchia. Doni offerti a individui di rango superiore o inferiore non devono essere affatto ricambiati. Se un altro professore invita a cena il nostro economista, di sicuro egli si sente in dovere di ricambiare; ma se lo fa una matricola, penserà probabilmente che accettare l'invito sia già di per sé abbastanza. E se è George Soros ad offrirgli la cena, in quel caso non si sentirà affatto obbligato ad offrire qualcosa in cambio. In relazioni esplicitamente asimmetriche, se si dà qualcosa a qualcuno, lungi dall'offrire un favore in cambio, è assai più probabile che gli altri si aspettino che lo si faccia di nuovo.
Un altro esempio sono le relazioni di tipo comunistico – definisco questo tipo di relazioni, in accordo con Mauss, come quelle in cui gli individui interagiscono sulla base del principio "da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni". In relazioni del genere gli individui non si affidano alla reciprocità dello scambio; ciò accade ad esempio quando cercano di risolvere un problema, persino dentro un'impresa capitalistica (come dico sempre, se un dipendente della Exxon dice, "passami il cacciavite", l'altro non gli risponde "certo, ma cosa mi dai in cambio?"). In un certo senso, il comunismo è alla base di tutte le relazioni sociali, nella misura in cui se il bisogno è sufficientemente grande (sto affogando) o il costo da sostenere abbastanza ridotto (posso avere della luce?) ci si aspetta che tutti agiscano in quel modo.
In ogni caso, ecco cosa ho ripreso da Mauss: ci saranno in ogni caso molti principi di tipo diverso che agiscono in modo simultaneo in un qualsiasi sistema sociale o economico, ed è questo il motivo per cui non potremo mai rendere tutto ciò oggetto di una vera e propria scienza. L'economia ci prova, ma lo fa ignorando tutto eccetto lo scambio.

PP: Spostiamoci allora sul terreno della teoria economica. Gli economisti hanno alcune teorie abbastanza specifiche sulla natura del denaro. C'è l'approccio più diffuso che abbiamo già discusso brevemente; c'è la cosiddetta teoria del bene-moneta (Commodity Theory of Money), secondo cui alcuni beni specifici sono stati adottati come mezzi di scambio per rimpiazzare le rudimentali economie fondate sul baratto. Ma ci sono anche delle teorie alternative, oggi più in voga. Una è la teoria circuitista (Monetary Circuit Theory), secondo cui tutto il denaro deriva dalla creazione di debito all'interno del sistema bancario. L'altra – che integra l'approccio circuitista – è la teoria cartalista (Chartalism), per la quale tutta la moneta è un mezzo di scambio rilasciato da un ente sovrano e sostenuto dalla capacità, da parte di quell'ente, di riscuotere tributi. Spenderebbe qualche parola su queste teorie?

DG: Una delle mie fonti d'ispirazione per "Debt: The First 5.000 Years" è stato il saggio di Keith Hart intitolato "Two Sides of the Coin" ("Le due facce della moneta"). In quel saggio Hart sottolinea che non solo le diverse scuole economiche hanno differenti teorie sulla natura del denaro, ma che c'è anche motivo di credere che entrambe hanno ragione. Per la maggior parte della sua storia, il denaro è stato una strana entità ibrida che presenta le caratteristiche sia di un bene (la moneta intesa come oggetto) sia di una forma sociale (credito).
Quello che penso di aver detto in più rispetto a questa tesi, è che da un punto di vista storico, pur essendo sempre stato entrambe le cose, il denaro ha oscillato avanti e indietro: ci sono stati periodi in cui il credito veniva per primo, per cui si può adottare più o meno la teoria cartalista della moneta; e ci sono stati periodi in cui predominava la moneta corrente, per cui risultano più utili le teorie del bene-moneta. Tendiamo a dimenticare , ad esempio, che nel medioevo, dalla Francia alla Cina, il cartalismo era nulla più che senso comune: il denaro era pura convenzione; in pratica, era qualsiasi cosa il re fosse disposto ad accettare come pagamento delle tasse.
 
PP: Lei afferma che la storia oscilla fra periodi di moneta-bene e periodi di moneta virtuale. Non pensa che abbiamo raggiunto una fase nella storia in cui, grazie all'evoluzione tecnologica e culturale, potremmo assistere alla scomparsa definitiva della moneta-bene?

DG: I cicli si stanno facendo via via più brevi man mano che andiamo avanti. Comunque ritengo che dovremo aspettare almeno 400 anni per scoprire se le cose stanno davvero così. È possibile che questa era si stia avvicinando al termine, ma sono più preoccupato dal fatto che ora viviamo in un periodo di transizione.
Le ultime volte in cui abbiamo assistito ad uno slittamento dalla moneta-bene alla moneta di credito non è stato esattamente un bello spettacolo. Per citarne alcune abbiamo la caduta dell'Impero Romano, l'Era di Kali in India e il crollo della dinastia Han... ci furono morte, catastrofi e massacri. Quello che ne risultò fu per molti versi profondamente liberatorio per la gran parte di coloro che sopravvissero – le forme schiavitù basate sull'equiparazione degli schiavi ad oggetti (chattel slavery) furono, ad esempio, in larga parte abbandonate dalle grandi civiltà. Si trattò di un risultato storico di grande rilievo. Il declino delle città significò, per molte persone, ridurre parecchio il lavoro. In ogni caso, tutti ci auguriamo che la transizione questa volta non sia così epica nelle sue dimensioni. Soprattutto se si considera che oggi i mezzi di distruzione sono di gran lunga più potenti.
 
PP: Cosa ritiene giochi il ruolo più importante nella storia dell'umanità: il denaro o il debito?

DG: Dipende dalle definizioni. Se si definisce il denaro nel senso più ampio del termine, come unità di conto mediante cui è possibile stabilire, poniamo, che 10 di questo valgono 7 di quest'altro, possiamo affermare non ci può essere debito senza denaro. Il debito è soltanto una promessa che può essere quantificata nei termini della moneta (e che in questo modo diventa impersonale e trasferibile). Ma se mi sta chiedendo quale è stata la forma più importante che ha assunto il denaro, il credito o la moneta coniata, in tal caso la mia risposta sarebbe: il credito.
 
PP: Passiamo ora ad alcuni problemi d'attualità. Sappiamo che in molti stati occidentali, negli ultimi anni, le famiglie hanno contratto debiti enormi ricorrendo alle carte di credito e alle ipoteche (queste ultime rappresentano una delle cause principali della recente crisi finanziaria). Alcuni economisti affermano che la crescita economica, a partire dall'era di Clinton, si è basata essenzialmente su un aumento insostenibile dei debiti delle famiglie. Da un punto di vista storico, come dovremmo considerare questo fenomeno?

DG: Da una prospettiva storica, è piuttosto inquietante. In realtà ci potremmo spingere più un là dell'era Clinton – si potrebbe dire che quella che stiamo vedendo oggi è la stessa crisi che ci trovavamo ad affrontare negli anni '70; semplicemente, siamo riusciti a schivarla per 30 o 35 anni proprio grazie a tutti quegli elaborati strumenti di credito (e, naturalmente, con l'iper-sfruttamento del Sud globale attraverso i debiti contratti dai paesi del Terzo Mondo).
Come ho detto, la storia eurasiatica, presa nei suoi contorni più generali, oscilla avanti e indietro fra periodi dominati dalla moneta di credito, virtuale, e periodi dominati invece dalla moneta coniata e dai lingotti. Il sistema di credito dell'antico Vicino Oriente aprì la strada ai grandi imperi schiavisti dell'era classica in Europa, India e Cina, che utilizzavano la coniazione per pagare le truppe al loro servizio. Con il medioevo, gli imperi vennero meno e lo stesso destino subì la coniazione, con l'oro e l'argento custoditi in larga parte in templi e monasteri. Il mondo tornò così al credito. Dopo il 1492, tornano sulla scena i grandi imperi mondiali, e, con essi, ricompaiono la valuta d'oro e d'argento e la schiavitù.
Quello che è accaduto da quando Nixon ha abolito il gold standard nel 1971 ha rappresentato nient'altro che un'ulteriore giro di ruota, anche se ovviamente transizioni del genere non accadono mai due volte allo stesso modo. Nel passato, i periodi dominati dalla moneta virtuale di credito furono anche periodi in cui esistevano forme di protezione sociale per i debitori. Se si riconosce che il denaro è soltanto una convenzione sociale, un credito, un "pagherò", allora la priorità è comprendere cosa può frenare le persone dal generare denaro senza fine. Ancora: come si previene la circostanza per cui i poveri finiscono intrappolati nel debito e diventano di fatto asserviti ai ricchi? È stato per risolvere problemi del genere che abbiamo avuto la "pulitura delle tavolette" in Mesopotamia, i Giubilei, e le leggi medievali contro il prestito ad usura sia nel mondo cristiano che in quello islamico.
Già nell'antichità si pensava che il peggior scenario in grado di condurre alla dissoluzione della società era proprio una grossa crisi del debito; le persone comuni erano così indebitate con quell'uno o due percento della popolazione che deteneva il grosso della ricchezza, da trovarsi costrette a cedere in schiavitù membri della famiglia o addirittura se stessi.
Cosa accade invece oggi? Anziché dar vita a qualche genere di istituzione sovraordinata per proteggere i debitori, si creano queste immani istituzioni planetarie come il Fondo Monetario Internazionale e Standard & Poor's per proteggere i creditori. Queste istituzioni dichiarano, in spregio ad ogni logica economica, che a nessun debitore dovrebbe essere consentito fallire. Inutile a dirsi, il risultato è catastrofico. Stiamo sperimentando qualcosa che – a me, almeno – ricorda le circostanze tanto temute dagli antichi: una popolazione di debitori che cammina sull'orlo del disastro.
Dovrei aggiungere che se Aristotele fosse tra di noi oggi, dubito seriamente che penserebbe che la distinzione fra affittare o vendere se stessi o membri della propria famiglia per lavorare, sia qualcosa di più che una sfumatura legale. Concluderebbe probabilmente che la maggior parte degli americani sono, da tutti i punti di vista, schiavi.
 
PP: Ha detto che il FMI e S&P sono istituzioni tese principalmente a riscuotere debiti in nome dei creditori. Questo sembra anche essere il caso dell'Unione Monetaria Europea. Cosa pensa dell'attuale situazione europea?

DG: Penso sia un chiaro esempio del perché le attuali condizioni sono chiaramente insostenibili. Ovviamente "l'intero debito" non può essere pagato. Ma anche quando alcune banche francesi hanno offerto volontariamente garanzie per la Grecia, le altre hanno insistito nel trattarla in ogni caso come se fosse fallita. La Gran Bretagna ha preso una posizione persino più assurda, secondo cui questo vale anche per i debiti che i governi devono alle banche che sono state nazionalizzate – il che vorrebbe dire, tecnicamente parlando, che lo stato è debitore di se stesso! Se ciò significa che coloro che percepiscono pensioni di invalidità non saranno più nelle condizioni di usufruire del trasporto pubblico, o che i centri giovanili devono essere chiusi, questa ci viene presentata semplicemente come "la realtà dei fatti".
Questa "realtà dei fatti" appare sempre più chiaramente come la realtà del potere. In tutta chiarezza, ogni pretesa che i mercati si autosostengano e che i debiti siano sempre onorati, è stata spazzata via nel 2008. Questo è uno dei motivi per cui a mio avviso assisteremo ad una reazione molto simile a quella che abbiamo visto al culmine della crisi del debito del Terzo Mondo – ciò che fu chiamato, in modo piuttosto assurdo, il "movimento no-global". Questo movimento chiedeva una democrazia autentica, e sperimentò al suo interno forme di democrazia diretta e orizzontale. Dall'altra parte c'era la temibile alleanza tra le élite finanziarie e i burocrati delle istituzioni globali (FMI, Banca Mondiale, WTO, oggi l'Unione Europea...).
Quando migliaia di persone cominciano a radunarsi nelle piazze in Grecia e Spagna, chiedendo vera democrazia, quello che stanno realmente dicendo è: "nel 2008 avete fatto scappare i buoi dalla stalla. Ma se il denaro è soltanto una convenzione sociale, una promessa, un 'pagherò', e se persino miliardi di debiti possono essere cancellati se dei concorrenti sufficientemente potenti lo chiedono; se le cose stanno in questo modo, e se 'democrazia' significa davvero qualcosa, allora tutti devono avere voce in capitolo nel processo decisionale che stabilirà su quali basi queste promesse sono state fatte e come vanno rinegoziate". Trovo tutto ciò straordinariamente incoraggiante.

PP: Parlando in generale, come pensa si svilupperà l'attuale crisi finanziaria e dei debiti sovrani? Senza chiederle di leggere nella proverbiale sfera di cristallo, cosa pensa ci attenderà nel futuro? In che direzione dovremmo orientarci?

DG: Ragionando sul lungo termine, sono abbastanza ottimista. Avremmo dovuto cominciare a fare qualcosa già almeno 40 anni fa; certo che se pensiamo nei termini di cicli di 500 anni, 40 anni non sono nulla. Forse si riconoscerà finalmente che in una fase dominata dal denaro virtuale, devono essere attuate alcune misure di sicurezza, e non solo per proteggere i creditori. Quanti disastri occorreranno perché si cominci a ragionare in questi termini? Non saprei dirlo.
Ma c'è un'altra domanda che dobbiamo porci: una volta che avremo realizzato queste riforme, quello che ne risulterà potrà essere ancora chiamato "capitalismo"?

sabato 22 dicembre 2012

frammenti … di vetro

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"Il vetro - non a caso - è un materiale duro e liscio sul quale niente ha presa. Un materiale freddo e sobrio, allo stesso tempo. Gli oggetti di vetro non hanno alcuna « aura ». Il vetro, in generale, è il nemico del mistero. Ed è anche il nemico della proprietà. Il grande scrittore André Gide, una volta, ha detto: ogni oggetto che voglio possedere mi diventa opaco."

Walter Benjamin

verità

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"Forse la vera radice del nostro problema, il problema umano, è che si sacrifica tutta la bellezza delle nostre vite, che imprigioniamo noi stessi nei totem, nei tabù, nelle croci, in sacrifici di sangue, campanili, moschee, razze, eserciti, bandiere, nazioni, tutto per negare la verità della morte, la sola verità che possediamo. A me sembra che invece si dovrebbe gioire della verità della morte - bisognerebbe decidere, davvero, a guadagnarsi la propria morte confrontandosi con passione all'enigma della vita."

James Baldwin - Abbasso la Croce: Lettera da uno Stato della mia Mente -

venerdì 21 dicembre 2012

paura del vuoto

ETICA-DEL-LAVORO

LAVORO FORZATO ed ETICA del LAVORO
di Claus Peter Orlieb

«I metodi di produzione moderna hanno reso possibile comfort e sicurezza per tutti; e invece, noi abbiamo scelto il superlavoro per alcuni e la fame per altri. Finora abbiamo continuato a svolgere le stesse attività che si svolgevano quando non c'erano le macchine; e qui ci siamo mostrati stupidi, ma non abbiamo l'obbligo di perseverare eternamente in questa stupidità.» - Bertrand Russell, Elogio dell'ozio, 1932 -

etica Ortlieb_FotoOttant'anni ed una crisi economica mondiale più tardi, la nostra intelligenza ha chiaramente fatto pochi progressi, al contrario: la produttività del lavoro nell'industria e nell'agricoltura è grosso modo aumentata di dieci volte, e non si può dire che questo fatto abbia portato comfort e sicurezza. L'Europa, che per il momento sta ancora relativamente bene, sta subendo un innalzamento record del suo tasso di disoccupazione. Quanto alle poche isole che sono rimaste competitive sul piano globale, esse lottano da anni contro le nuove pandemie provocate dalla contrazione progressiva dell'offerta di lavoro: dalla sindrome di perdita di lavoro alla morte improvvisa causata dal consumo abituale di psicofarmaci.
Proviamo tuttavia ad immaginare che tutto quest'ardore eccessivo verso il lavoro, constatato da Russell, non sia nient'altro che un'abitudine, divenuta obsoleta, e che si soffrirebbe a perderla - un'abitudine ereditata dai tempi in cui non c'erano le macchine. Nel Medio Evo, dove il lavoro come fine in sé era una cosa sconosciuta, si lavorava infatti assai meno di quanto si lavori oggi. Il motivo è semplice: il lavoro come noi lo intendiamo, cioè a dire il dispendio astratto di energia umana indipendentemente da qualsiasi contenuto particolare, è storicamente determinato. Non lo si incontra che sotto il capitalismo. In qualsiasi altra formazione sociale, l'idea oggi così universamente riconosciuta secondo la quale «un lavoro, un lavoro qualunque, è meglio che nessun lavoro», sarebbe stata giustamente considerata completamente delirante.
Tale delirio è il principio astratto che regge i rapporti sociali sotto il capitalismo. Tolte (astraendole) le attività criminali, il lavoro - che si tratti del nostro o dell'appropriazione del lavoro altrui - è per noi l'unico mezzo di partecipazione alla società. Ma, nello stesso tempo, esso non dipende dal contenuto dell'attività in questione; non ha nessuna importanza che io coltivi delle patate o che fabbrichi delle bombe a frammentazione, dal momento che il mio prodotto trova un acquirente e trasforma il mio denaro in ancor più denaro. Base di valorizzazione del valore, il lavoro costituisce un fine in sé ed un principio sociale associativo, il cui unico scopo consiste nell'accumulare sempre più "lavoro morto", sotto forma di capitale.
Un vincolo, cui tutto rimane sottomesso in egual misura, è durevole solo a condizione che coloro che ne sono prigionieri imparino ad amare le loro catene. Ed in questo la società borghese si distingue da quelle precedenti.
Da Aristotele a Tommaso d'Aquino e passando per Agostino, i filosofi dell'Antichità e del Medio Evo hanno celebrato l'ozio - e soprattutto mai il lavoro - come la strada che porta ad una vita felice:

"L'apprendimento della virtù è incompatibile con una vita da artigiano e da lavoratore" - Aristotele - Etica Nicomachea -
"Lasciamo queste occupazioni vane e vuote: abbandoniamo tutto il resto per la ricerca della verità" - Agostino - Confessioni -

Altri non erano dello stesso avviso, per esempio i fondatori di certi ordini monastici che vedevano nel lavoro un mezzo per raggiungere l'ascesi e l'astinenza. Ma sarà solo col protestantesimo che si cercherà di fare del lavoro, un principio valevole su grande scala, da applicare a tutto l'insieme della popolazione:

"L'ozio è un peccato contro il comandamento di Dio, perché Egli ha ordinato che quaggiù si debba lavorare tutti." - Martin Lutero -

E l'Illuminismo non smette di elevare costantemente l'etica del lavoro - chiamato anche obbligo morale di lavorare - a livello di fine in sé:

"E' della massima importanza che i bambini imparino a lavorare. L'uomo è il solo animale che deve lavorare." - Kant - Pensieri sull'educazione - 1803 -
"Esiste una sola scappatoia dal lavoro: fare lavorare gli altri per sé." - Kant - Critica del giudizio - 1790 -
"Di questi 3 vizi: pigrizia, viltà, inganno, il primo mi sembra il più spregevole." Kant - 1798 -
"Che ci si informi specificamente sulle persone che si distinguono per una condotta indegna! Si scoprirà invariabilmente che si tratta di coloro che non hanno mai imparato a lavorare, quelli che rifuggono il lavoro." - Fichte - Discorso alla nazione tedesca - 1807 -

Come appare dalle ultime citazioni, l'amore per il lavoro si lega strettamente all'odio per l'ozio:

"Ciascuno deve poter vivere del proprio lavoro, afferma un principio avanzato. Questo poter vivere è dunque condizionato dal lavoro e non esiste laddove tale condizione non viene soddisfatta." - Fichte - Fondamenti del diritto naturale -
"Nei paesi caldi, l'uomo è maturo a tutti gli effetti ma non raggiunge la perfezione delle zone temperate. L'umanità nella sua più grande perfezione, si trova nella razza bianca. Gli indiani gialli non hanno che poche capacità, i neri stanno ancora più sotto, e al livello più basso della scala, si trovano alcune tribù americane." - Kant - Geografia fisica - 1802 -
"Il barbaro è pigro e si distingue dall'uomo civile in quanto rimane immerso nel suo abbrutimento, perché la formazione pratica consiste precisamente nell'abitudine e nel bisogno di agire." Hegel - Principi della filosofia del diritto - 1820 -

Queste affermazioni escludenti e razziste uscite dalla penna dei filosofi illuministi non sono per niente dei semplici incidenti di percorso, ma rivelano, al contrario, l'essenza dell'ideologia del lavoro. Dal momento che questa corrente di pensiero, trasfigura il lavoro in vero scopo dell'esistenza de "l'uomo", tutti i "disoccupati", per contraccolpo, si vedono esclusi dalla "razza umana": l'uomo è costretto a lavorare; pertanto, quello che non lavora non può pretendere per intero lo status di essere umano.
Quella che qui viene espressa, è la rabbia dello stakanovista bianco contro la pressione che lui stesso si è imposto, una rabbia che se la prende con tutto quello che non si sottomette a tale pressione e conduce un'esistenza oziosa: le donne, incaricate della "vita reale" nel seno della sfera privata - separata dal lavoro - della famiglia borghese; tutti quei tipi di persone (qui le attribuzioni sono ancora più varie) che vivono, senza lavorare, d'amore e d'acqua fresca; oppure, ancora, "il capitale accaparratore" (contrapposto ad un capitale "buono") che si appropria senza lavorare del plusvalore creato dagli altri. Le ideologie moderne del sessismo, del razzismo, dell'anti-zingarismo e dell'anti-semitismo sono fondate, anch'esse, sull'etica del lavoro.
A partire dagli anni '70, cominciano a sparire dal processo di produzione delle quantità sempre più crescenti di lavoro, il potenziale della razionalizzazione della microelettronica ha gettato il capitalismo nella crisi. Tuttavia, la pressione interiore ed esteriore che spinge gli uomini a lavorare non è affatto diminuita ma, al contrario, si è accentuata nella misura in cui diminuiscono gli "impieghi".Per chi rimane a lavorare, le condizioni di fanno più dure: sono oramai troppo numerosi perché il loro mantenimento rimanga ancora compatibile con il mantenimento della competitività sul piano globale. "L'assoluta necessità di portare gli uomini al lavoro" (Angela Merkel) non fa che oscurare la percezione del problema: la responsabilità della disoccupazione non sarebbe più imputabile alla sparizione progressiva del lavoro, ma ai disoccupati stessi, che bisognerebbe, conseguentemente, portare, con tutti i mezzi di coercizione a disposizione, verso un lavoro che non esiste più. Qualcosa di simile si verifica a livello europeo: si impone ai "paesi in fallimento" rimasti al traino dell'Europa, delle politiche di austerità, grazie alle quali dovrebbero, una volta superata questa prova dolorosa, ridiventare competitivi. Come se la Federcalcio tedesca pretendesse di portare in Lega dei Campioni tutt'e diciotto le sue squadre della Bundensliga.
Non c'è via d'uscita, manifestamente, se non quella dell'abolizione del lavoso, ma questo, ovviamente, comporta anche di abolire il capitalismo. E a tutto questo, si oppone la nostra etica del lavoro, frutto di secoli di condizionamento:

eticaRussell-2

"Alcuni dicono che è sicuramente bello avere un po' di tempo, ma che la gente non saprebbe come riempire le proprie giornate se dovesse lavorare solo quattro ore al giorno. Nella misura in cui questo è vero nel mondo moderno, costituisce una vergogna per la nostra civiltà; in qualsiasi altra epoca anteriore, questo non sarebbe stato un problema." - Bertrand Russell - Elogio dell'ozio - 1932 -

Il destino che Hegel assegnava ai "barbari" ci ritorna indietro: chi è senza impiego non ha che da rimanere "immerso nel suo abbrutimento". In altre parole: se al soggetto borghese ripugna talmente immaginare la propria vita senza il lavoro, è anche perché, dietro la sua etica del lavoro, cova la paura panica del suo proprio vuoto.

Claus Peter Orlieb

fonte: http://palim-psao.over-blog.fr

giovedì 20 dicembre 2012

gattopardi

lussu

Lussu e Rosselli abitano a Montmartre, Hotel du Nord de Champagne, al numero 11 di rue Chabrol, una strada di botteghe artigiane e bistrot e anticaglierie con odore di gatti pisciatori, ed è questo uno dei luoghi dove Giustizia e Libertà comincia a prender forma. Oppure s'incontrano a Saint-Germain-en-Laye, residenza di Salvemini, e al numero 15 di rue Olivier, dove, con la moglie e quattro figli, sta di casa Alberto Tarchiani. È stato Salvemini a stendere una bozza di statuto. I costituenti la discutono. Hanno storie politiche diverse: liberali Tarchiani, Cianca e Vincenzino Nitti, primogenito dell'ex-presidente del Consiglio; repubblicani Cipriano Facchinetti, Raffaele Rossetti, Gioacchino Dolci e Fausto Nitti; socialista Rosselli, anomalo Lussu, amico dei repubblicani, tendenzialmente socialista.
Ma vediamole più da vicino, alcune di queste figure. Tarchiani, romano, ha quarantaquattro anni: lungo, snello, capelli castani ondulati, larghe le spalle, lineamenti fini, un bel viso con occhiali. È di gesti sobri, non perde mai la calma. Dopo l'espatrio nel '25, è stato corrispondente de “La Tribuna da New York” (città a lui familiare per averci lavorato prima della guerra dieci anni). Ora è disoccupato. Ma lasciando con Albertini il “Corriere”, aveva riscosso una liquidazione assolutamente rimarchevole, trecentomila lire, e questo gli consente di affrontare l'esilio senza affanno. Parla più lingue. Viaggia. A Bruxelles incontra spesso l'ex-ministro degli Esteri Carlo Sforza. Non ha altro fine che l'abbattimento di Mussolini. Giudica la dittatura fascista, terrorismo che si è fatto governo e poi Stato, e sulle forme della risposta non ha dubbi. «Tarchiani - testimonia Garosci - raccolse anche l'eredità anzitutto tirannicida e in qualche caso terroristica lasciatagli da Eugenio Chiesa, che, ricco industriale, profuse tutto il suo patrimonio per alimentare gesti insurrezionali».

da - Giuseppe Fiori - "Il cavaliere dei Rossomori", Einaudi, 1985