venerdì 29 aprile 2011

Facebook come modo di essere al mondo

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"La disintegrazione della prassi, e la falsa coscienza anti-dialettica che l’accompagna, ecco ciò che viene imposto ad ogni ora della vita quotidiana sottomessa allo spettacolo; e che bisogna comprendere come un’organizzazione sistematica della «mancanza della facoltà d’incontro», e come la sua sostituzione con un fatto allucinatorio sociale: la falsa coscienza dell’in-contro, l’«illusione dell’incontro». In una società in cui nessuno può più essere riconosciuto dagli altri, ogni individuo diventa incapace di riconoscere la propria realtà. L’ideologia si trova presso di sé; la separazione ha edificato il suo mondo." (Guy Debord)


Giova ripeterlo, l'utilizzo di Facebook implica un certo narcisismo. Se si dà retta alla psicoanalisi, "Narciso non è solamente la parola che si ripete, ma è anche la parola che si articola al solo scopo di essere commentata, di mettersi in scena, in una sorta di godimento di sé stessa". La definizione, che vale per il narcisismo in generale, si può applicare a Facebook in particolare. Facebook funziona come uno specchio, dove la scoperta dei profili altrui, dei gruppi, delle pagine, persegue il fine ultimo della contemplazione di sé e la creazione di un profilo sempre più perfetto.
Il ripiegamento nella sfera privata e l'illusione che si possano ricreare dei collegamenti a partire dallo schermo del computer diventa, allora, possibile, accompagnato alla perdita di una continuità storica che induce l'individuo a vivere il momento come se la sua vita si svolgesse in un presente perpetuo. I sensi sono come anestetizzati e la ricerca di emozioni forti diventa sempre più importante. Si può capire da tutto questo come l'individuo sia ormai isolato dalla realtà, a causa della rappresentazione.

"Ora, dal momento che il mondo viene da lui, l'uomo non ha più bisogno di andare verso il mondo; quel viaggio e quell'esperienza sono diventati superflui; così, dal momento che il superfluo finisce sempre per scomparire, sono diventati impossibili"
- Gunther Anders: L'obsolescenza dell'uomo -

Questo significa non solo che la scoperta del sensibile e del reale non può più essere fatta, se non attraverso l'illusione della rappresentazione e dello spettacolo, ma anche che, scombussolato da questa perdita e immerso in un mondo che gli è diventato totalmente estraneo, l'individuo perde la sua individuazione e tenta di neutralizzare il mondo.
Il narcisismo collettivo domanda per sé, e questo è paradossale solo in apparenza, il posto del singolo. Questo aspetto diventa ancora più evidente quando, su Facebook, un profilo non si presenta come un'unità, ma come una successione di frammenti attraverso i "gruppi" a cui appartiene l'utente, facilitando in questo modo le amicizie, parcellizzate da qualche gusto comune.
Naturalmente, l'utente di Facebook non scambia il social network per la realtà, tuttavia l'utilizzo di questa tecnologia fa sì che egli non sia più direttamente al mondo. Egli "riceve" il mondo calibrato sulla soddisfazione di alcuni suoi bisogni e, così facendo, il mondo diventa un fantasma del mondo; intanto il mondo reale è diventato una stranezza, ancora più strana
La prima cosa che si nota su Facebook, è il modo che ciascuno di noi ha di presentarsi, di rendersi visibile. Inizia dalla dichiarazione del suo umore quotidiano, espresso in una frase. Ma, come segno di una reificazione avvenuta, ogni profilo si riferisce a sé stesso in terza persona. Come dire, andiamo a presentarci come merce da valorizzare, sul mercato.
Questo mercato è molto vasto, e siamo passati molto velocemente dal mercato dell'amicizia fittizia, a quello degli amori passeggeri, per arrivare al semplice mercato del lavoro. Infatti, la nostra epoca è riuscita a produrre il nuovo lavoro di creatore di profili su Internet. Questo nuovo esperto vi offre i suoi servizi per promuovere il vostro brand sul web, rimuovendo, ove possibile, fotografie e messaggi che degradano la vostra personalità per ricreare un nuovo avatar di voi stessi, in modo da poter presentare un'immagine vendibile al vostro futuro datore di lavoro o al cacciatore di teste che fa i suoi acquisti in capitale umano su Internet.
Tutti hanno imparato a vendere se stessi attraverso la distinzione culturale.
Ma non è tutto. Uno dei codici impliciti è quello di saper usare perfettamente la dissonanza culturale. Infatti, dopo aver citato il meglio del buon gusto, si consiglia di confessare il proprio debole per un cantante che tutti riconoscono come l'apice della mediocrità. Tutto sta nel saper definire il dosaggio.
Ancora una volta, è sotto il pretesto della libertà personale che l'auto-presentazione viene offerta all'occhio, mentre invece obbedisce ad una serie di codici. I gusti personali non sono altro che una media di gusti in cui prevale il gusto dominante.
Nel 1968, Warhol profetizzò che "in futuro, ciascuno avrebbe avuto diritto a quindici minuti di fama mondiale." Se la realtà della sua affermazione è discutibile, bisogna constatare che il desiderio del quarto d'ora di fama è ben reale. I blog personali che proliferano su Internet, forniscono una presentazione di sé prefabbricata, e la crescita esponenziale dei social network sono una conferma. In tal senso, si può parlare del completamento di una logica che ha cominciato a prendere piede a partire dai primi anni del secolo scorso.
Un cambiamento in questa situazione non passerà attraverso l'educazione a Internet, così come sostengono i ministri, o da una politica di maggior riservatezza dei dati, ma da un cambiamento consapevole delle condizioni dell'esistenza, cosa che non può avvenire senza che, allo stesso tempo, il mondo attuale venga distrutto.

giovedì 28 aprile 2011

Non ne mangio di quel pane lì!

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L’immagine forse più nota del poeta surrealista Benjamin Péret (nato nel 1899 a Rezé, nei pressi di Nantes, e morto a Parigi nel 1959), quella che comunque ce lo restituisce in tutta la sua genuina intransigenza, è la foto qui sopra, dovuta alla prontezza di riflessi ed alla presenza di spirito del giovane Marcel Duhamel che, nell’estate del 1926, a Plestin-les-Grèves, gli scatta un'istantanea mentre per strada se la prende con un prete che sta passando. La foto finirà poi sulle pagine della Révolution Surréaliste con tanto di breve e folgorante didascalia a proposito de “il nostro collaboratore Benjamin Péret che insulta un prete”.

mercoledì 27 aprile 2011

Gangsterismo e/o Capitalismo

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Forse, più di qualsiasi altro genere prodotto dal grande cinema hollywoodiano, i film di gangster hanno sempre avuto mostrato un interesse diretto nei confronti del funzionamento del capitalismo. Però, mentre le opere fondamentali del genere, prodotte all'epoca della Grande Depressione - come "Piccolo Cesare" (Mervyn LeRoy, 1931), "Nemico pubblico" (William Wellman, 1931) e "Scarface" (Howard Hawks, 1932) -, assumono e fanno propria una netta distinzione tra le attività economiche illegali dei gangster e le cosiddette normali procedure di impresa, "legittime£, i film più sofisticati, che hanno definito il genere a partire dal 1970, sono in gran parte impegnati a de-costruire questa opposizione binaria, e a dimostrare che il capitalismo legale e quello illegale sono profondamente simili, a volte fino al punto di essere indistinguibili l'uno dall'altro.
La trilogia del Padrino di Francis Ford Coppola (1972-1990) è sicuramente il risultato più notevole che il genere abbia mai prodotto, e può essere intesa come un racconto immenso, e progressivamente sempre meno allegorico, di quella che Marx chiamava "accumulazione primitiva", la quale rende possibile l'emergere del capitalismo come modo di produzione e che, sempre, in una qualche maniera, è alla base dell'impresa capitalista.
"Quei bravi ragazzi" (1990), di Martin Scorsese, è probabilmente il film di gangster più importante mai realizzato da un regista diverso da Coppola. Dopo aver dato ampiamente per scontata la narrazione quasi-marxiana del film "Il Padrino", ci mostra la mafia non dal punto di vista alto-borghese dei Corleonesi, ma dalla prospettiva di strada - quasi-Hobbesiana -  del mafioso di piccolo o medio cabotaggio.
Tutto questo, in un'epoca in cui l'accumulazione diventa sempre più "primitiva", giorno dopo giorno, ed i tentativi di costruire una distinzione tra legalità e illegalità appaiono sempre più ridicoli.

martedì 26 aprile 2011

Le ombre del cinema

Director: Ferran Alberich

Lorenzo Llobet Gracia ha girato un solo film, in vita sua. Ad onor del vero, bisogna dire che aveva programmato di girarne un secondo, di film, dal titolo "El refugio", ma i guai in cui incorse, con la censura, che gli procurarono l'appellativo di "regista maledetto", fecero sì che "VIDA EN SOMBRAS" rimanesse l'unico film di un regista catalano che aveva avuto il coraggio di girare, nel 1947 in Spagna, un film che parlava della guerra civile spagnola. Ma il film di Llober Gracia è, soprattutto, un film sul cinema.
Carlos - come fosse l'alter ego del regista - nasce durante una proiezione cinematografica, una delle prime, di quelle che si svolgevano nel corso delle feste paesane. Sullo schermo - hanno appena finito di proiettare il famoso treno dei fratelli Lumiére che entra nella stazione - un mago fa appena in tempo ad estrarre un neonato dal suo cilindro, ed ecco che il primo pianto del piccolo Carlos regala anzitempo la voce alla pellicola e la confusione al pubblico che certo non si aspettava ancora il "sonoro". Da allora in poi, ogni momento saliente della vita del protagonista avrà a che fare col cinema. Le figurine di Chaplin, scambiate con quella che sarà la donna della sua vita, E nel mentre che le cose avvengono, Carlos passerà ad essere, da semplice amante del cinema, critico, reporter di guerra, autore di documentari, regista; intanto che via via viene introdotto il sonoro, la pellicola a colori e si evolvono le macchine da presa. La moglie, cui Carlos si dichiara durante la proiezione di "Romeo e Giulietta", morirà in una sparatoria allo scoppiare della guerra civile, dopo che lui si era allontanato da lei per filmare, per le strade, le giornate del luglio 1936. Vivrà il suo complesso di colpa, fino a quando, dopo essere arrivato ad odiare il cinema, davanti ai fotogrammi di "Rebecca, la prima moglie", deciderà di diventare un regista.

Titolo:    Vida en sombras
Regia:    Lorenzo Llobet-Gràcia
Produzione:    P. C. Castilla Films
Sceneggiatura:    Victorio Aguado e Lorenzo Llobet-Gràcia
Musica:    Jesús García Leoz
Fotografía:    Salvador Torres Garriga
Interpreti:    Fernando Fernán Gómez, María Dolores Pradera, Félix de Pomés, Isabel de Pomés, Alfonso Estela, Arturo Cámara,Graciela Crespo
Durata : 90'

venerdì 22 aprile 2011

E Dalton Trumbo prese il fucile …

Trumbo
Trumbo (2007)
[Trumbo, USA, 2007, Documentario, durata 96', b/n]   Regia di Peter Askin   
Con Joan Allen, Brian Dennehy, Kirk Douglas, Michael Douglas, Paul Giamatti, Danny Glover, Peter Hanson, Nathan Lane, Josh Lucas, Victor Navasky
Un documentario (completo e con sottotitoli in spagnolo) con ospiti eccellenti sulla vicenda umana e politica di Dalton Trumbo (1905-1976), scrittore e sceneggiatore americano morto nel 1976 che aderì al gruppo degli Hollywoord Ten, un gruppo di professionisti del cinema che nel 1947, in pieno maccartismo, si rifiutarono di testimoniare davanti alla "House Committee on Un-American Activities", su una loro presunta adesione all'ideologia comunista.Condannato a 11 mesi di reclusione, al termine della pena si trasferì in Messico, proseguendo al sua attività e firmando varie sceneggiature di film famosi sotto pseudonimo (come Exodus di Preminger,e Spartacus di Kubrick) e vincendo anche un oscar con il nome di Robert Rich per lo script di La grande corrida (1956). Venne poi riabilitato e iscritto con il suo nome alla Writers Guild of America.


giovedì 21 aprile 2011

un altro futuro

ElCineLibertario
Allo scoppio della guerra civile spagnola, nel luglio del 1936, il sindacato anarchico CNT socializzò l'industria cinematografica in Spagna. A Madrid e a Barcellona, i lavoratori del cinema presero possesso dei mezzi di produzione, e realizzarono numerosi film. Tutto questo diede luogo ad un momento unico che non si è mai verificato in nessuna altra cinematografia al mondo. Anche se il paese era sprofondato in una sanguinosa guerra, tra il 1936 e il 1938 vennero realizzate pellicole sui temi più vari: drammi sociali, commedie musicali, film di denuncia, documentari bellici .... andarono a comporre un mosaico che può essere definito uno dei momenti più insoliti ed originali di tutta la cinematografia spagnola. Attraverso le voci dei vari esperti, e attraverso le testimonianze in prima persona del direttore della fotografia, lo spagnolo Juan Mariné che iniziò la sua carriera nel cinema proprio lavorando a questi film, il documentario tratta ciascuna delle produzioni che costituiscono un'eredità eccezionale per il cinema spagnolo. Fu un periodo molto effimero, durante il quale gli sceneggiatori, i registi, i tecnici e gli attori spagnoli realizzarono una delle massime del mondo dello spettacolo: nonostante i bombardamenti, la carestia e la guerra, lo spettacolo deve continuare. E continuò!



Fin dai primi giorni della rivoluzione, nel luglio del 1936, l'industria del film in Spagna era stata collettivizzata, ed i suoi membri produssero, diressero, distribuirono e proiettarono oltre 200 fra cinegiornali, documentari ed otto film a lungometraggio, tutti con tematiche relative agli eventi sociali e rivoluzionari che avevano avuto luogo tra il luglio 1936 e l'agosto 1937. Tra i film veri e propri:
 
- Barrios bajos (1937 — Pedro Puche: durata 90' - melodramma che si svolge nel Barrio Chino, a Barcellona); è la storia di un giovane portuale che nasconde un avvocato accusato di aver commesso un reato. Praticamente, la versione spagnola del film di Renoir, Les bas fonds, del 1936. Come il film di Renoir è basato sulla novella di Gorki. Il film venne criticato perché faceva piangere gli spettatori.
Nosotros somos asi (1936 – Valentin R. Gonzalez - durata 30'- commedia musicale con bambini protagonisti); storia per bambini in cui i bambini, soprattutto poveri, - cantano e ballano - si mettono insieme contro gli adulti al fine di salvare la vita del padre di uno dei bambini.
Ci si chiede se i bambini non abbiano contribuito anche alla sceneggiatura e alla regia. Per esempio, nella richiesta che fanno, di "più vacanze, più pane e cioccolata e meno matematica". I dialoghi del film sono in versi rimati. Il film è chiaramente ispirato ai musical americani dell'epoca. Infatti, esisteva, ai tempi, una rivista anarchica di cinema, "Mi Revista", dove si potevano leggere molti articoli su Hollywood e sulle commedie musicali. Ci sono numeri di ballo di tip-tap, e tutto il film è pervaso di una certa moralistica insolenza, come una lezione data dai bambini agli adulti. La scena più sorprendente è il dibattito, i cui i temi sono la liberazione delle donne, la disparità tra le classi sociali e l'intera questione del dominio nella società capitalista. In questa parte, i bambini sembrano rivelare convinzioni che devono riguardare le condizioni in cui è stato girato il film.
Aurora de esperanza (1936 - Antonio Sau - durata 58');un dramma realista sociale, che si svolge a Barcellona nel 1935. Durante la crisi economica le fabbriche stanno chiudendo e i lavoratori vengono licenziati in massa. All'inizio, Juan è l'unico operaio a ribellarsi. Ma dopo un breve periodo in prigione, organizza una marcia contro la fame durante la quale scoppia la rivolta. Un film che prefigura chiaramente il neo-realismo.
 
Nuestro culpable (1936 — Fernando Mignoni - durata 84); protagonista un ladro con un grande cuore che è stato arrestato in casa di un banchiere per un furto che non ha commesso. E 'stata, infatti, l'amante del banchiere che ha rubato i due milioni di dollari che mancano. Così inizia una commedia satirica sui soldi, la giustizia, il sistema carcerario, e la morale borghese. Il tono di questo film, i dialoghi sono incredibilmente insolenti. L'eroe del film è una combinazione di Arsène Lupin e Durruti. Lui è un ladro che ruba ad un banchiere, al fine di procurare un regalo di nozze ad alcuni amici. Così, il film inizia con una sorta di morale rivoluzionaria. Ma nell'atto di rubare incontra l'amante del banchiere che afferra opportunisticamente l'occasione per rubare una valigetta contenente due milioni di dollari. Il ladro è poi accusato del furto. Il film diventa allora un atto di accusa all'ipocrisia borghese e alla corruzione, e quindi ad un sistema ingiusto di giustizia. Si tratta di una satira di una società che è ingiusta a tutti i livelli e, va detto, i dialoghi tra El Randa, il ladro, ed il banchiere sono straordinari. Ad un certo punto, El Randa dichiara al banchiere: 'Ho rubato due milioni di dollari!' e poi chiede retoricamente: 'Lo sai che cosa significa? "Ed  è lasciato allo spettatore di decidere chi è il più grande ladro. Tutto il dialogo nel film è così.
Carne de fieras (1936 — Armand Guerra: durata 60'); Si tratta di un dramma incentrato sugli interpreti di uno spettacolo. Pablo è un pugile che ama sua moglie, Aurora, ma lei lo tradisce con una cantante. Quando Pablo lo viene a sapere, è così depresso che perde un incontro di boxe. Poi incontra Marlene, attrice di varietà che balla nuda in una gabbia con quattro leoni. Marlene è legata a Marck, il domatore. Quando Pablo viene ucciso, la polizia arresta Marck, ma il vero colpevole si rivela essere qualcun altro.
* Libertarian Cinema: when films made history (Delta Films —Verónica Vigil, José María Almela)

mercoledì 20 aprile 2011

Il mondo è stato filmato: (ora) si tratta di trasformarlo

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Nascosto dietro occhiali da sole firmati, l'auto-proclamatosi padre della rivoluzione sembra scrutare un orizzonte invisibile anche quando è seduto in un ristorante sulla spiaggia, circondato dalle sue guardie del corpo. Nessuno sa realmente cosa stia pensando o quale sarà la sua prossima mossa. Nel suo sguardo liquido soffia il vento del deserto, le sue palpebre gonfie si sono socchiuse troppe volte sui tanti orrori fatti in suo nome. Eppure lui rimane impassibile. Fa tutto parte del suo atteggiamento di sedicente ribelle. Dritto in piedi, di fronte al nemico che si avvicina. Il giornalista della CNN, Christiane Amanpour, arriva - in costume militare - con un elenco di domande che sembrano invocazioni. Il giornalista, come un uccello del paradiso che si libra, alto al di sopra del rinoceronte che affonda nelle sabbie mobili. Chiede: «Il presidente degli Stati Uniti, il leader della Gran Bretagna e gli altri governanti le chiedono di dimettersi, di lasciare la sua posizione di potere, che farà?" L'altro ridacchia divertito, come pervaso da uno stupore ubriaco: 'Chi lascerebbe il proprio paese? Perché dovrei lasciare la mia patria? Perché dovrei lasciare la Libia? '
I video YouTube del colonnello Muammar Gheddafi, provenienti da media diversi del mondo occidentale, riportano alla mente la conversazione di Al Pacino/Scarface nel film di Brian De Palma. La scena barocca in cui Al Pacino si alza in piedi a guardare tutti i "pezzi grossi". E' il suo ultimo passo, è vicino all'uscita, circondato dai sicari, pronti a fargli ballare l'ultima danza sotto i riflettori dell'immortalità. Si muove come un clown, la cocaina gli si mescola al sudore, si rianima mentre si rende conto confusamente di poter fare un punteggio da record. La stanza che lascia dietro di sé è piena di rumore. Pezzi grossi in frac ce l'hanno con lui. Tutto quello che può fare è abbaiargli contro. Ben presto sarà messo fuori. Ben presto l'esercito della notte gli muoverà contro. Ben presto verrà crivellato di proiettili, in piedi, alle spalle l'insegna al neon che lampeggia le parole: 'Il mondo è tuo'.
Ma per il momento egli è ancora Tony Montana, il cubano che è saltato oltre il recinto del circolo vizioso della povertà, lasciando una vita da sguattero immigrato, ed ha scalato la catena alimentare fino a quel castello risplendente sulla lontana collina del successo mondano. Ed ora è livido, con il suo lezzo. Il cuore della scena sta nella sua disillusione del sogno americano e di tutto il carrozzone di vincitori e vinti. Bloccato nella solitudine di un potere eccessivo - la piscina dorata, il telecomando in una mano, il sigaro cubano nell'altra, la testa gli gira, annebbiata di ricordi omicidi, il veleno e il vetriolo per la rottura inevitabile, il crescente impero di affari sporchi che gli frana sotto i suoi piedi, e la tigre affamata nel suo giardino di rose - tutto riconduce ad un posto solo,  un foro di proiettile per un'uscita verso l'eternità. Il suo discorso nel ristorante è il ruggito atavico di un animale in gabbia che non può utilizzare la sua energia demoniaca per sottrarsi alle ombre che lo terrorizzano. Così, invece, sputa insulti. La genialità della performance di Al Pacino sta nel far sì che ogni suo sguardo ci ricordi il buco nero incombente che si avvicina inevitabilmente. Il mondo infido della gente comune che cerca di risucchiarlo nel vuoto oscuro del disprezzo.

'Ma che stai guardando?' - ringhia contro di loro - 'Siete tutti un mucchio di fottuti stronzi. Sapete perché? Non avete il coraggio di essere ciò che volete essere. Avete bisogno di gente come me. Avete bisogno di gente come me, così potete puntare il vostro dito del cazzo e dire: "Questo è il cattivo."'

Sì, Gheddafi è cattivo. E' difficile non provare disgusto per le sue pose pompose. Ha rubato alla sua gente tutto quello che poteva rubare. Ha lasciato orde di disoccupati a guardare come il suo ego si trasformava nel loro incubo peggiore. Circondato da coorti stravaganti di guardie del corpo femminili e mercenari serbi che hanno imparato il loro mestiere macellando musulmani bosniaci nei campi di sterminio, si batterà fino ala fine. Non ha scrupoli, solo una folle visione poetica del suo proprio ego. Lui è più che cattivo. E' marcio fino al midollo, un sosia perfetto della magnifica interpretazione di Scarface resa da Al Pacino.
E, proprio come Tony Montana non ha paura di morire in azione. Avrebbe attaccato il cielo, se offeso, con il suo fidato Kalashnikov in mano. Questo significherebbe solo più fama e gloria postuma. Eppure, nel suo stupore febbrile e nel suo bizzarro delirio, conosce la sua sorte. Dopo le violenze in Iraq, lo Zio Sam non può più intervenire nel mondo arabo senza essere visto come un brutale invasore coloniale. Il sogno americano di dominio globale sta lentamente scolorendo, affonda stancamente nelle sabbie oleose dei deserti, intrise di sangue. L'Europa, sta dall'altra parte del Mediterraneo, come una puttana sdentata che si aspetta la prossima fregatura. Cina e Russia non si dispiacciono più di tanto per una sanguinosa tirannia. Fintanto che la benzina continua a pompare il colonnello pazzo avrà buone probabilità per un altro rinnovo, un ritorno al tramonto lungo le strade bruciate e autostrade di cadaveri. Quindi, fategli posto, lasciatelo passare. Sì, lui è il cattivo, che ti guarda dritto negli occhi.

"Voi non siete buoni. Sapete solo come fare a nasconderlo -
sapete come mentire. Io non ho questo problema.
Io, dico sempre la verità - anche quando mento.
Perciò date la buonanotte al cattivo ... Dai ...
E 'l'ultima volta che vedrete un cattivo come me.
Lasciatemelo dire.
Andiamo, fate posto al cattivo. C'è un cattivo che arriva.
Meglio non stare sulla sua strada!"

- liberamente tratto da filmint.nu -

martedì 19 aprile 2011

I Guardiani del Tempo

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Il governo cinese ha vietato qualsiasi rappresentazione del viaggio nel tempo in spettacoli televisivi e film! In un comunicato del 31 marzo 2011, la struttura statale preposta all'amministrazione di Radio, Film & Televisione (SARFT), ha sancito che i viaggi nel tempo "hanno trame mostruose e bizzarro, usano tattiche assurde, ed in più promuovono il feudalesimo, la superstizione, il fatalismo e la reincarnazione".
Di recente sono stati trasmessi programmi televisivi, con protagonisti che vanno indietro, nell'antichità, e sceneggiatori che si prendono delle libertà con gli eventi storici.
"Produttori e sceneggiatori stanno trattando la storia seria in modo frivolo, cosa che non deve essere incoraggiata mai più in alcun modo", ha detto il SARFT.
Le disposizioni emesse tendono a scoraggiare produttori e sceneggiatori ad utilizzare il viaggio nel tempo, insieme a tutti gli altri elementi come "fantasy ... compilazioni mitologiche, trame bizzarre, tecniche assurde", se vogliono che i loro programmi vengano trasmessi. Il SARFT, comunque, ha il potere di staccare la spina a qualsiasi trasmissione televisiva quando vuole.
La disposizione arriva con il partito comunista (CPC) che celebra il suo 90° anniversario.
"Inseguendo lo spirito centrale del PCC che celebra il suo 90° anniversario in televisione", continua il SARFT. "Tutti i livelli devono attivamente prepararsi a mettere in scena vivide rappresentazioni della rivoluzione cinese, della costruzione della nazione e della sua riforma ed apertura".

lunedì 18 aprile 2011

Meglio cambiare amici, che cambiare idea!

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"Niente discorsi. Propongo un brindisi alla maniera georgiana. In Georgia i brindisi cominciano con un racconto. Ho sognato un cimitero dove gli epitaffi erano bizzarri: 1822-1826, 1930-1934... Si muore ben giovani qui, dico a qualcuno; il tempo è molto breve fra la nascita e la morte. Non più che altrove, mi si risponde, ma qui, come anni di vita, contano solo gli anni che è durata un’amicizia.
Beviamo all’amicizia!"

- Gregory Arkadin (Orson Welles) in "Rapporto confidenziale" ("Mr. Arkadin", 1954-1955)

(È a partire proprio da "Rapporto confidenziale" che Orson Welles iniziò a usare sistematicamente il 18,5 mm, un obiettivo che accresce smisuratamente la profondità di campo deformando in modo grottesco la prospettiva: una stanza di dieci metri quadri diventa ampia quanto un’arena, ed i personaggi che si avvicinano alla cinepresa lo fanno a grandi falcate come percorrendo chilometri)

venerdì 15 aprile 2011

Un film per Picelli

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dalla pagina ufficiale del film documentario "Il Ribelle, Guido Picelli un eroe scomodo" https://www.facebook.com/pages/Il-Ribelle-Guido-Picelli-un-eroe-scomodo/146125265431884?sk=wall

Il pacifista che guidò la guerriglia urbana

Il 5 gennaio di settantuno anni fa, sulle alture spagnole de El Matoral, una pallottola vigliacca colpiva alle spalle e uccideva Guido Picelli, vicecomandante del Battaglione Garibaldi. Sulla vita di uno degli oppositori antifascisti più importanti e ingiustamente anche più misconosciuti della storia del nostro paese, da più di 10 mesi sto portando avanti una ricerca storica-documentaristica per la realizzazione di un film, che mi ha portato a viaggiare attraverso gli archivi, alcuni riservati e segreti, di Russia, Spagna, Francia e Italia. Qui a fianco ho voluto ricordare un episodio poco conosciuto della vita del rivoluzionario di Parma, ma importante per il suo significato storico-politico e simbolico: nel 1924 Picelli inalberò la bandiera rossa sul Parlamento Italiano sfidando Mussolini che aveva abolito la Festa del Primo Maggio.
Ma chi era quest’uomo coraggioso, altruista, nobile, libertario e beffardo? Negli anni ’20 e ’30 fu una vera leggenda per il proletariato internazionale. Il teorico della «guerriglia urbana» era in realtà un fervente anti-militarista che si serviva delle tecniche e delle strategie militari per difendere il proletariato.
In questo senso sarà sempre ricordato per la «Battaglia di Parma» del 1922, quando sconfisse con 400 Arditi del popolo i 10 mila squadristi fascisti guidati da Italo Balbo.
Fu una vittoria unica, un capolavoro tattico che le forze politiche democratiche nazionali non vollero trasfomare in strategia. Così tra errori, settarismi e divisioni, misero il paese in mano ai fascisti. La strategia politica di Picelli era racchiusa in due parole:«unità e azione». Con il suo Fronte unico, composto da anarchici, comunisti, socialisti, cattolici, repubblicani, ecc. nel 1922 sbaragliò i fascisti. Per primo aveva indicato una via, che sarà poi percorsa molti anni dopo, con grave ritardo e a volte malamente, dalle forze democratiche.
In questa occasione, grazie ad uno documento inedito trovato negli archivi russi, per la prima volta possiamo indicare Guido Picelli, non solo come il vice-comandante dei garibaldini di Spagna, ma anche come il comandante del 9° Battaglione delle Brigate Internazionali. Quello che i suoi volontari chiamavano affettuosamente «Il Battaglione Picelli».

Giancarlo Bocchi
da il manifesto, 5 gennaio 2008


I misteri insoluti della Guerra di Spagna
di Giancarlo Bocchi

A volte la Storia riserva sorprese quando riappaiono dall'oblio scritti dimenticati come "La Grande Crociata".
   Questa importante opera storico - letteraria,  rimasta inaspettatamente inedita in Italia, pubblicata nel 1940 da Gustav Regler, scrittore, antifascista, amico di Hemingway e importante comandante delle Brigate Internazionali di Spagna, non è un saggio storico, ma è un affresco d'ambiente, realistico e intenso, che racconta in modo assai incisivo la Guerra di Spagna, descrivendo personaggi, atmosfere, avvenimenti, illuminando con maestria molti fatti oscurati da tanta memorialistica puramente celebrativa.
   Durante la  Guerra di Spagna molti scrittori di diverse nazionalità si schierarono senza esitazioni per la Repubblica: alcuni furono solidali, ma non si recarono in Spagna, come William Faulkner, John Steinbeck, Thorton Wilder; altri furono testimoni sul campo come John Dos Passos, Pablo Neruda, Michail Kolzov; altri ancora, come André Malraux, George Orwell e lo stesso Gustav Regler, parteciparono armi in pugno al conflitto contro i franchisti.
   Come commissario politico della XIIa Brigata Internazionale, Regler divenne un testimone oculare privilegiato e raccontò avvenimenti e personaggi della guerra non solo con l'intensità, la passione, lo slancio di chi li aveva vissuti o visti, ma con il preciso intento di non voltare lo sguardo, per convenienza politica, dall'altra parte.
   Nel 1940, un libro di uno scrittore comunista, di un commissario politico della XIIa Brigata dei Volontari Internazionali, in pieno regime fascista, era impensabile che venisse pubblicato in Italia. Ma perché un'opera così intensa non venne pubblicata dopo il 1945?
   In quel momento gli uomini legati a Mosca cercavano di mascherare in tutti i modi le malefatte commesse in terra di Spagna, soprattutto se venivano raccontate da dei veri comunisti. Regler, in questo senso, era uno scrittore da combattere o da ignorare.
   Negli archivi del Cominter a Mosca è rimasta traccia di questa strategia: nei rapporti confidenziali all' ufficio quadri del Cominter emerge in modo evidente il malessere provocato dall' uscita del libro di Regler all' interno dell' apparato.
   "La Grande Crociata", che abbraccia il primo periodo della guerra, la difesa di Madrid, le battaglie di Mirabueno e Algora, del Jarama, di Guadalajara, è anche importante per capire alcuni avvenimenti decisivi che riguardano personaggi e vicende della sinistra italiana.
   Al centro del racconto sono gli uomini della leggendaria XIIa Brigata dei Volontari Internazionali (francesi, belgi, italiani e polacchi), ma in un capitolo emerge prepotentemente la figura dell' italiano Guido Picelli, a quei tempi una vera leggenda della sinistra internazionale.
   Negli anni '20 Picelli era stato un ribelle, un capopolo indomito, un trascinatore e organizzatore di masse.
   Nel 1922, al comando di un modesto drappello di Arditi del popolo, aveva sconfitto, durante la "Battaglia di Parma", diecimila squadristi di Italo Balbo che volevano invadere la città emiliana con l'intento di metterla e ferro e fuoco e di non risparmiare neanche le donne e i bambini.
   Una vittoria unica, dal grande valore simbolico.
   Il comandante Picelli, nel libro di Regler è tratteggiato talmente bene che sembra quasi di vederlo in carne ed ossa: alto, prestante, pare di sentirlo parlare con quella sua bella voce calda da ex attore mentre porta il pugno chiuso alla tempia e ti guardo fisso con quel suo sguardo generoso e a volte ironico.
   Il 5 gennaio 1937 una pallottola vigliacca, alle spalle, che come annotò Regler "aveva colpito il cuore come fosse un gong da far vibrare", uccise Guido Picelli.
Fin da allora le circostanze della morte di Guido Picelli suscitarono dubbi e rimasero avvolte mistero.
   Lo scritto di Regler, in questo senso, non dà una risposta definitiva, ma è comunque molto importante per capire il contesto, lo scenario di quel tragico evento.
Secondo lo scrittore tedesco, Picelli aveva molti meriti. Avrebbe potuto o dovuto comandare una intera brigata ed invece era stato inspiegabilmente relegato a comandare una sola compagnia del Battaglione Garibaldi.
   Al teorico della guerriglia urbana, al fondatore delle Guardie Rosse, dell'Esercito Segreto Proletario, degli Arditi del popolo, al principale comandante militare del Partito comunista italiano, ancor prima di arrivare in prima linea gli era stato sottratto il comando del 9° Battaglione dei suoi cinquecento volontari internazionali.
   Regler non spiega il motivo, ma lo fa intuire attraverso i pensieri e le parole dei più importanti comandanti degli "Internazionali".
   Matè Zalka, il "generale Lukacs" comandante in capo della XIIa Brigata (che nel libro Regler chiama "il generale Paul") riguardo Picelli si chiede: "Come posso dirgli che lo ammiro? Vorrei sapesse che tutti pensiamo che è un grande uomo”.
   E Randolfo Pacciardi, il comandante del Garibaldi, dice: "Vorrei proprio dirtelo, mi piacerebbe passarti il comando; per me tu sei uno dei grandi italiani, e non importa quello che alcuni dei tuoi amici possono avere contro di te."
   In queste ultime parole, anche se filtrata dallo stile del romanzo storico-autobiografico, c'è una possibile chiave di lettura dei fatti, e un elemento trascurato da altri memorialisti (Giacomo Calandrone, Luigi Longo, Giovanni Pesce e altri).
   Chi erano "gli amici" che secondo Pacciardi  ce l'avevano con Picelli ?
   Regler e Pacciardi, probabilmente non erano a conoscenza dei retroscena e delle vicissitudini vissute da  Picelli a Mosca negli anni precedenti, ma il loro sospetto che ci fosse qualcosa di consistente da parte degli "stalinisti" contro il rivoluzionario italiano era più che giustificato.
   Nei due anni precedenti la sua morte, secondo i documenti che abbiamo trovato di recente agli Archivi del Comintern, Picelli aveva avuto diverse traversie a Mosca e si era salvato miracolosamente dalle purghe staliniane. Nel 1934 dopo essere stato licenziato dall'incarico di docente della Scuola Lenista Internazionale (accademia politica di Mosca che aveva avuto come allievi anche alcuni comandanti spagnoli diventati poi famosi, come Enrique Lister e Juan Modesto) era stato allontanato senza motivo dagli incarichi riservati che aveva nel Comintern.
Relegato ad un lavoro da operaio nella fabbrica Kaganovic, era stato perseguitato con un processo-purga staliniana, anticamera dell'esilio e del gulag e si era salvato grazie al suo coraggio e alla sua sfrontatezza.
   Arrivato a Parigi, ormai deluso, amareggiato, stanco di subire persecuzioni, Picelli si era rivolto al P.O.U.M. (il Partito comunista antistalinista spagnolo).
   "Mi hanno presentato un capitano e un ex deputato - così ricordò l'incontro con l'italiano il segretario internazionale del P.O.U.M. Julian Gorkin nelle sue memorie - che mi ha fatto una viva impressione: Guido Picelli. Vicino alla cinquantina, nobile presenza, viso aperto e intelligente." Prima Julian Gorkin e successivamente Andreas Nin, il segretario politico del P.O.U.M., colpiti dal carisma e dal leggendario passato del personaggio, offrirono a Picelli il comando di un'importante formazione militare del loro partito.
   Se Picelli avesse accettato questo comando, il colpo per l'immagine del Partito comunista italiano, che non poteva certo permettersi veder passare agli antistalinisti del P.O.U.M. uno dei suoi uomini più prestigiosi e ammirati, sarebbe stato gravissimo.
   I dirigenti del Partito comunista italiano scelsero così Ottavio Pastore, vecchio cronista dell' "Ordine Nuovo" che aveva raccontato sul giornale di Antonio Gramsci la lotta degli Arditi del popolo sulle barricate di Parma, come emissario per le trattative.
   Pur sapendo i grandissimi rischi che poteva correre con gli stalinisti per aver intrattenuto rapporti con i vertici del P.O.U.M., Picelli accettò coraggiosamente la proposta di Pastore di entrare nelle file delle Brigate Internazionali.
   Probabilmente confidava nel fatto che questa forza internazionale, composta da volontari provenienti da tutti i partiti antifascisti, sarebbe stata libera e indipendente da Mosca, ma forse, oltre a questo, vedeva nell'unità di tutti i partiti antifascisti presenti nelle Brigate Internazionali la realizzazione del suo sogno di avere finalmente un "Fronte unico" antifascista in armi. Un sogno per il quale era disponibile anche all' estremo sacrificio.
   Poche settimane dopo, ad un centinaio di chilometri da Madrid, nei pressi del piccolo villaggio di Algora, alle pendici dello sperone del Matoral, che Picelli aveva appena conquistato, secondo quanto scrive Regler, Randolfo Pacciardi ebbe una premonizione: “[Picelli] Deve unirsi a me nello Stato Maggiore”, pensò Pacciardi. “Devo parlarne al Generale [Lukacs] stanotte.”
   La premonizione del comandante del "Garibaldi" si avverò. Pochi attimi dopo Picelli cadde a terra con il cuore spaccato da una pallottola che lo aveva colpito alle spalle.
   All'unico garibaldino morto in quell'oscura giornata vennero tributate grandi onoranze funebri a Madrid, Valencia e Barcellona. In quest'ultima città parteciparono alle esequie - viste dagli antistalinisti del P.O.U.M come un avvertimento nei loro confronti - 100 mila persone.
   Ma cos'era accaduto quel 5 gennaio del 1937? A Picelli era stato fatale il grande coraggio e la temerarietà in battaglia o cos'altro?
   Per ora la tragica fine di Guido Picelli rientra tra gli eventi ancora discussi della guerra di Spagna, come la morte del comunista tedesco Hans Beimler o dell'anarchico Buenaventura Durruti.
   La "Grande Crociata" illumina comunque di una nuova luce tante vicende, tra le quali quella di Guido Picelli, il grande ribelle. Il grande rivoluzionario libertario che fu misconosciuto nell' Italia del dopoguerra.

LA GRANDE CROCIATA
Prefazione di Ernst Hemingway

(...) il mio cuore era con la Dodicesima Brigata. C’era Regler, che in questo libro è il Commissario.  C’era Lucasz* il Generale. C’era Werner Heilbrunn, che in questo libro è il Dottore. C’erano tutti gli altri. Non li nominerò. Alcuni erano comunisti, ma c’erano uomini di ogni credo politico. Sono tutti in questo romanzo di Regler e la maggior parte ora sono morti. Ma fino a che non morirono non ce ne fu uno (è una bugia, ce ne furono due o tre) che non riuscisse a scherzare nell’imminente presenza della morte e a sputare subito dopo per dimostrare che aveva scherzato per davvero. Introducemmo la prova dello sputo perché è un fatto, da me scoperto nella prima giovinezza, che non si riesce a sputare se si è spaventati sul serio. In Spagna molto spesso non mi riuscì di sputare pur dopo una battuta veramente buona.
Non scherzavano per spacconeria. Scherzavano perché gli uomini veramente coraggiosi sono quasi sempre molto allegri e io penso di poter sul serio dire di tutti quelli che ho conosciuto bene quanto un uomo può conoscerne un altro, che il periodo di lotta in cui pensavamo che la Repubblica potesse vincere la guerra civile spagnola, fu il periodo più felice delle nostre vite. Eravamo veramente felici perché quando la gente moriva era come se la loro morte fosse giustificata e irrilevante. Perché essi morivano per qualcosa in cui credevano e che si sarebbe avverato. Lucasz e Werner morirono proprio come muoiono in questo libro. Non li penso mai come morti. Penso di aver pianto quando mi dissero che Lucasz era morto. Non ricordo. So di aver pianto una volta per la morte di qualcuno. Deve essere stato Lucasz perché Lucasz fu la prima grande perdita. Chiunque altro fosse stato ucciso era rimpiazzabile. Werner era il meno rimpiazzabile di tutti; ma fu ucciso subito dopo. E a proposito di piangere lasciatemi dire qualcosa che forse non sapete. Non c’è nessun uomo vivente oggi che non abbia pianto in guerra se c’è stato abbastanza a lungo. A volte è dopo una battaglia, a volte quando qualcuno a cui vuoi bene viene ucciso, a volte è per una grande ingiustizia ai danni di un altro, a volte è per lo scioglimento di un corpo o un’unità i cui membri hanno patito insieme e conseguito obiettivi insieme e non saranno mai più insieme. Ma tutti gli uomini in guerra piangono, a volte, da Napoleone, il più gran macellaio, in giù.
Gustav avrebbero dovuto ucciderlo quando uccisero Lucasz. Gli avrebbero risparmiato un sacco di affanni, compreso lo scrivere questo libro. Non gli sarebbe toccato vedere le cose che abbiamo visto né quelle che ci toccherà di vedere. Non sarebbe stato curato per un buco nel fondoschiena che gli scoprì i reni e mise in mostra il midollo spinale ed era così grande,  là dove il pezzo di acciaio da una libbra e mezzo era penetrato da parte a parte nel corpo, che il dottore ci infilò per intero la mano guantata nel ripulirlo.
Non avrebbe avuto la ventura di sopravvivere per venir messo in un campo di concentramento francese dopo aver combattuto la battaglia della Francia in Spagna e aver contribuito a ritardare la guerra della Germania alla Francia grazie al più grande attacco di contenimento della storia.
Se Gustav fosse stato ucciso gli sarebbero stati risparmiati molti affanni e molta sofferenza. Ma a lui per se stesso non importa né della sofferenza, né degli affanni, né della povertà. Per Gustav queste sono brutte cose se capitano agli altri.

* il nome di battaglia esatto di Maté Zalka era "Lukacs"

Brani tratti dalla prefazione del libro di Gustav Regler, "The Great Crusade", Longmans,Green and Co., New York -Toronto, 1940, traduzione dall'inglese di Francesca Avanzini

Gustav Regler, lo scrittore delle Brigate internazionali

Gustav Regler, nato in Germania nel 1898 nella Saar, scrittore e intellettuale, dopo aver combattuto nella Prima guerra mondiale, aderì al Partito comunista tedesco. All' avvento di Hitler sfuggì alle persecuzioni naziste rifugiandosi a Parigi. Al termine di un travagliato soggiorno a Mosca, dove conobbe anche Maxim Gorky, partì per la Spagna per arruolarsi nelle Brigate Internazionali.
Nell'inverno del 1936 prese parte alla battaglia per la difesa di Madrid e venne nominato commissario politico della XII Brigata Internazionale, formazione composta in quel momento dai battaglioni franco-belga, italiano e polacco.
In Spagna ebbe un ruolo di rilievo in due importanti film documentari "The Spanish Earth"(1937) di Joris Ivens e "La Defensa de Madrid"(1937) di Angel Villatoro. L'11 giugno 1937 durante la battaglia di Huesca fu gravemente ferito e passò molti mesi tra la vita e la morte in un ospedale locale.
Alla fine del conflitto si rifugiò in Francia. Rinchiuso nel campo d'internamento di Vernet, dopo molti mesi di prigionia, nel 1940, venne liberato ed espatriò in Messico.Nel dopoguerra pubblicò diversi lavori con gli pseudonimi Michael Thomas, Thomas Michel e Gustav Saar. Nel 1955 pubblicò un romanzo storico, il ritratto biografico di Piero Aretino, il controverso autore satirico ed erotico italiano.
Scoraggiato e deluso per il crollo dei suoi ideali, osteggiato da ex-amici e nemici, morì nel 1963 a Nuova Delhi. Sulla guerra di Spagna Regler scrisse due libri "The Great Crusade"(1940) e "The Owl of Minerva"(1960). (gb)

La grande crociata di Gustav Regler

(....) Così cominciò l’ultimo dell’anno. Da Brihuega due strade portavano verso il nemico. Una alta sul pianoro, dissestata a un certo punto per una ventina di chilometri e lungo la quale, a varia distanza, sorgevano i tre villaggi di Almadrones, Mirabueno e da ultimo Algora. Erano state queste le vie della fuga, e adesso erano territorio nemico insieme ai tre villaggi. (...)
   Gli ufficiali alzarono gli occhi dalla mappa spiegata sulle bianche pietre dilavate del rudere. Tutti sembravano contenti di essere passati all’offensiva. Boursier sorrideva e prendeva qualche appunto. Picelli, l’italiano, si chinò di nuovo sulla mappa. Il Polacco si fece ripetere un’altra volta e una volta ancora in russo da tutti quanti di tenersi sotto copertura, e di dirlo a tutti i suoi uomini. Il Generale lo ammonì con paterna sollecitudine, come temendo che l’uomo non avesse capito.
   La luce del tardo pomeriggio giocava sui loro visi, gli scuriva le mani che si muovevano su e giù per la mappa, colpiva qua e là la striscia dorata di un’uniforme e la faceva brillare. Tirava fuori il verde dei calzoni alla cavallerizza, illuminava il marrone dei berretti, e siccome sembrava trovare poca risposta al suo gioco nello scolorito paesaggio di ruderi grigio lavanda e bianco gesso e nei  morti cespugli spinosi ricoperti di polvere, si concentrava sul gruppo di uomini. Variopinto e solo, lo Stato maggiore se ne stava ritto nella chiara luce dorata del pomeriggio invernale, e la confusione delle lingue di bocca in bocca gli dava un carattere ancora più straniato. Ma poi tutti i pugni vennero portati alla fronte nel prendere congedo dal Generale. Per pochi secondi tutti furono di una sola razza e unificati da un unico gesto. Poi abbassarono il pugno e se andarono in varie direzioni.
   “State coperti e ancora coperti”, gridò loro dietro il Generale. Pacciardi, il Comandante italiano, era già dietro le rovine. “Un po’ di prova-vestiti”, pensò.
Paul gli aveva dato il comando dell’intera azione. “Ma dov’è Picelli, allora?” si chiese, e si volse a guardare il nuovo capo di compagnia. Picelli e Ackermann erano stati trattenuti dal Generale.
   “Tu guiderai una compagnia”, disse Paul con lo sguardo ai bianchi muri del rudere oltre Picelli. Picelli, volgendo verso Paul il viso aspramente inciso, dal naso schiacciato ma bello, chinò rispettosamente il capo. “Molto bene, Generale.”
   “In Italia ha guidato migliaia di lavoratori”, pensava Paul. “Ha difeso per un’intera giornata la città di Parma dalle camicie nere. In Russia ha comandato un reggimento. Come posso dirgli che lo ammiro? Vorrei sapesse che tutti pensiamo che è un grande uomo”.
   “Ci sono stati tempi in cui anch’io ho guidato più di una Brigata”, disse Paul. Picelli non rispose.
   “Pacciardi è uno splendido soldato”, proseguì Paul.
   “Sì, davvero, Generale’, disse Picelli.
   “È un repubblicano”.
   “Sì”.
   “E noi siamo comunisti”, disse Paul. Di nuovo Picelli non rispose.
   “Possiamo subordinarci, quando necessario”, disse Paul.
   “Molto facilmente, Generale.”
   “Non così facilmente”, pensò Paul fremendo, “quando penso a quel Pozas da cui mi tocca prendere ordini!”
   “Credo che questa volta gliela faremo vedere”, disse Picelli.
   Paul non riuscì a pensare a nient’altro da dire. “Mi fa molto piacere che lei sia qui”, disse, e salutò militarmente. (...)
   Un fuoco di mitragliatrice martellava dal centro della strada dietro cui si trovava Mirabueno. Non doveva trattarsi di niente di più che la breve resistenza di un avamposto. La Brigata Garibaldi  l’avrebbe sgominata. Il telefono riferì che Picelli stesso alla testa delle sue quattro compagnie stava guidando l’attacco all’avamposto. Pacciardi era terrorizzato e sorrideva al tempo stesso. Ai comandanti non spettava la linea del fuoco. Mandò un messo al centro. Picelli rimanesse per favore alla stazione di combattimento della sua compagnia. Pacciardi provava una certa invidia. La prossimità del pericolo era la più grande soddisfazione. Sarebbe stato felice di trovarsi laggiù nei campi dove ora il fuoco della mitragliatrice stava cessando.
“L’artiglieria ora dirigerà il fuoco sul centro del villaggio–Mirabueno”, gridò all’operatore telefonico.
   Gli aeroplani stavano tornando. Pacciardi si portò rapido la mano al berretto mentre passavano sopra la stazione di combattimento. Era un gesto di ringraziamento.
Il telefono riferì che la resistenza della strada era stata sgominata. La Brigata Garibaldi stava avanzando sul villaggio stesso. Un fuoco di mitragliatrici orlava l’orizzonte. Il sole sorse su San Cristobal, dove una disorientata artiglieria nemica se ne stava inattiva e colta di sorpresa, perché dalla montagna quell’attacco su un fianco scagliato da lontano, dava l’impressione dell’avvicinarsi di un enorme esercito, e non potevano essere sicuri che non sarebbe finito con una manovra di avvolgimento del loro plateau. (...)
    “I polacchi sul fianco sinistro non possono avanzare. Ci sono covi di mitraglie sulla strada tra Almadrones e Mirabueno.”
   “Passami la Brigata” disse Pacciardi prendendo in sella il ricevitore. Il telefono faceva un suono come quello di una sveglia coperta. Pacciardi chiese al Generale se poteva cavalcare fino a Mirabueno e occuparsi dei polacchi.
   “Prendi un cavallo anche tu”, disse al Dottore. “può darsi che ci sia bisogno di te.”
   Corsero giù  fino alla depressione seguiti dall’intera linea di cavalleria. Il fuoco veniva verso di loro, e si infittì di nuovo, Ma essi sapevano che era a Mirabueno, e che stavano galoppando verso la vittoria. Cavalcarono in buon ordine finché la strada non gli venne tagliata da raffiche di mitragliatrice, che gli sibilarono accanto come coltelli. Werner e Pacciardi si appiattirono sulle loro selle e passarono rapidamente oltre. Ma la linea dei giovani a cavallo fu colta di sorpresa e si dispersero in tutte le direzioni.
   “Non mi fido mai della cavalleria”, gridò Pacciardi a Werner mentre arrivavano sulla strada e vedevano davanti a sé un sentiero campestre che attraverso un folto di olivi correva fino al villaggio catturato. Grigi muri di sassi circondavano uno stretto mucchio di case.
   “Quella era una fortezza” gridò Werner.
   “Era  una corsa a ostacoli”, disse Pacciardi.
   Dalla prima casa verso cui galopparono sventolava una bandiera rossa.
   Balzarono giù di sella.
   “Hanno avuto fretta”, disse Werner indicando la bandiera, “ma non è repubblicana, quella bandiera.”
   “Scommetto che è stato qualcuno del villaggio a issarla”.
   “La voce del popolo è la voce di Dio”, disse Werner.
   Gli zoccoli dei cavalli rimbombavano sulla strada sassosa del villaggio.
   “Che cos’hai contro la bandiera rossa?” gridò Pacciardi a Werner.
   “Io? Niente, se non ti dispiace”, disse Werner.
   “Il rosso non è il colore di un partito, per me ”, disse Pacciardi.
   “Voi repubblicani siete più ricchi dei comunisti”, disse Werner ridendo. Erano nel villaggio, e già circondati di volontari italiani che presero loro le briglie e tra grida affettuose li scortarono attraverso i vicoli tortuosi del villaggio fino alla casa che Picelli aveva scelto come suo quartier generale. (...)
   Tremanti e con le bocche aperte nemmeno più capaci di emettere grido, i soldati nemici sedevano nel villaggio in attesa del coup de grâce. Altri fuggivano giù per il pendio della vasta vallata nord, inseguiti più dalla loro paura che dai proiettili.
   “Siamo fratelli”, gridavano quelli della Brigata Garibaldi ai loro prigionieri. Al che i prigionieri si alzavano e si drizzavano contro il muro, rassegnati al loro destino. Ma quelli della Brigata Garibaldi gridavano di nuovo, e non smisero di gridare finché un sorriso non apparve sulle facce dei prigionieri.
   Nessuno dei prigionieri venne ucciso. Persino i polacchi si trattennero. Ma durante il pomeriggio inviarono una delegazione a Pacciardi. La pianura era stata ripulita, ma la montagna era ancora là. Non spiegarono quale motivo li spingeva verso la montagna, semplicemente chiedevano il privilegio di essere i primi ad avanzare su di essa.
   L’attacco fu stabilito per il giorno seguente. Intanto Pacciardi diede ordine alle sue truppe di prendere lo sperone più vicino al plateau, quello a nord est del villaggio. Gli attaccanti dovevano avere i fianchi coperti. Di nuovo Picelli guidò la sua compagnia attraverso il terreno roccioso, cosparso di bassi alberi.
   “Va’ e portami Picelli”, disse Pacciardi a uno dei suoi messaggeri.
   “È di nuovo nel folto delle pallottole”, pensò. “È tutto molto romantico, ammirevole, ma anche insensato. Ha il suo fucile da Parma bello pronto, e va avanti come fosse selvaggina di passo. Grande Italia, vinceremo. Come lo ammiro! Ha difeso una città intera dalle camicie nere. Potrebbe condurre una Brigata, e tuttavia capeggia la sua compagnia come se fosse un corpo d’armata.”
   Pacciardi vide Picelli ritornare attraverso il campo con il messaggero. “Non vieni come subordinato, mi senti? Vorrei proprio dirtelo, mi piacerebbe passarti il comando; per me tu sei uno dei grandi italiani, e non importa quello che alcuni dei tuoi amici possono avere contro di te. Domani te lo dirò davanti agli uomini: ‘Sei un grande combattente’ Forse te lo dirò là sulla montagna. O forse tra pochi giorni a Siguenza”.
   Gli ultimi pochi passi Picelli li fece più in fretta, poi si fermò, fece scattare i talloni e levò il pugno in saluto.
   “Mi disarma con la sua disciplina”, pensò Pacciardi nel vedere il gesto militare. “Non c’è vanità nel gesto, e lui non è offeso. Qual è il segreto della sua superiorità?”
   “Compagno Picelli”, disse Pacciardi interrompendo bruscamente i suoi pensieri. “Mi vedo costretto a ripetere l’ordine di non capeggiare ogni battuta di perlustrazione.”
   “Mi contraddirà? Spero di sì”, pensò Pacciardi. “Mi renderebbe le cose più facili. Allora potrei parlargli più umanamente. Non deve farsi l’idea che voglia comandarlo, deve capire che temo per lui. Sei uno dei pochi comunisti che mi piacciono.”
   Di nuovo Picelli portò il pugno alla fronte e si drizzò. “Sissignore”. Questo fu tutto, e se andò.
Pacciardi rimase a guardare la sua smilza figura  che si allontanava attraverso i campi: l’estremità gialla del suo storico fucile brillava sulla spalla nella luce del mattino. “Deve unirsi a me nello Stato Maggiore”, pensò Pacciardi. “Cosa non potrebbe fare una volta che saremo di là dalle Alpi. Devo parlarne al Generale stanotte.”
   I polacchi muovevano lentamente a sinistra di Algora contro la loro montagna. Li si poteva vedere balzare di muretto in muretto con i loro fucili. Non avevano ancora aperto il fuoco, benché questo fosse di nuovo ricominciato sotto nella gola dove gli Italiani li stavano coprendo.
   “Stanno provando la tenaglia”, disse Pacciardi al suo aiutante. Il fuoco si fece più pesante, improvvisamente sembrò una gragnuola. “Li abbiamo presi in tutti i punti deboli”, disse Pacciardi, e fissò compiaciuto la campagna distesa nel fresco del mattino sotto le nebbie che andavano dissolvendosi.
   Dai boschetti dove si stava svolgendo la battaglia arrivò un messo. Inciampò una volta nel correre. Quando si rimise in piedi fece un gesto di selvaggio dolore. Proprio prima della stazione di combattimento inciampò di nuovo. Pacciardi e gli ufficiali gli andarono incontro. Giaceva pallido e senza fiato vicino a una pianta di lavanda. “Che cosa c’è”, chiese Pacciardi. “Ferito?” Il messaggero scosse tristemente il capo, poi si controllò e col pianto nella voce disse, “Picelli”, aggiungendo piano “Al cuore”. (...)
   Sotto nella pianura stavano portando via Picelli. Fu il primo a percorrere la strada ora completamente aperta tra Mirabueno e Almadrones. Pacciardi e i suoi ufficiali se ne stavano con il pugno alzato presso il corpo, sulla cui bocca era scolpito un sorriso, un riso di sorpresa perché il proiettile aveva colpito il cuore come fosse un gong da far vibrare.
   Intanto che la barella veniva trasportata lungo la strada, dal villaggio dove erano i Francesi proveniva un fitto, sicuro fuoco di mitraglia. Un rumore di battaglia da posizioni sicure accompagnava i portatori italiani e il loro morto. (...)

Brani tratti dal libro di Gustav Regler, "The Great Crusade", Longmans,Green and Co., New Yorl -Toronto, 1940, traduzione dall'inglese di Francesca Avanzini.

[da Alias]

giovedì 14 aprile 2011

Consigli

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"A Sua Altezza, Oliver Cromwell.
A vostra Altezza, giustamente appartiene l'onore di morire per il popolo, e per Voi non può non essere un'indicibile consolazione considerare, negli ultimi momenti della vostra vita, come e quanto sarà un beneficio per il mondo, la vostra dipartita. Solo allora (mio Signore) i titoli che voi adesso state usurpando, saranno veramente vostri; sarete davvero il liberatore del vostro paese, e lo libererete da una schiavitù di poco inferiore a quella di cui Mosè liberò il suo popolo. Voi sarete allora quel vero riformatore che avete sempre pensato di essere. La religione verrà perciò ripristinata, la libertà affermata e il Parlamento conquisterà quei privilegi per cui si è combattuto. Allora avremo finalmente la speranza che ci potranno essere altre leggi, che non siano quelle della spada, e che la giustizia potrà essere altro rispetto alla volontà e al piacere del più forte; e potremo sperare che gli uomini terranno di nuovo fede ai giuramenti, e non avranno la necessità di essere perfidi e falsi per preservare sé stessi, e saranno come i loro governanti. Tutto questo ci auguriamo derivi dalla dipartita di Vostra Altezza, che siete il vero padre di questo paese; dal momento che, finché rimanete vivo, noi non possiamo chiamare "nostro" niente, ed è solo dalla vostra morte che ci auguriamo di ricevere la nostra legittima eredità. Possa questa considerazione armare e fortificare la mente di vostra Altezza contro la paura della morte ed il terrore della vostra cattiva coscienza, poiché il bene che farete con la vostra morte bilancerà in qualche modo il male della vostra esistenza."

"Killing No Murder", venne pubblicato nel 1657, in Inghilterra, durante il periodo di interregno. L'opuscolo sosteneva l'opportunità - si fa per dire - dell'assassinio di Oliver Cromwell. La pubblicazione, che ebbe un'alta tiratura, fu un grosso successo editoriale. Si dice che Cromwell ne fu così turbato che, da allora, non dormì mai più di due notti nello stesso posto.

Il testo integrale dell’opuscolo, in pdf e in inglese, può essere scaricato da QUI.

mercoledì 13 aprile 2011

la distruzione degli idoli

Conversationdebord

Cercavano il gesto di rottura, la provocazione che mostrasse tutto il disgusto che provavano per i buoni sentimenti e per i riti ammessi dalla società, e la provocazione che attirasse su di loro la riprovazione dei benpensanti. Poco importava che, ad andarci di mezzo, fosse uno che non lo meritava poi troppo, come il povero Chaplin. Era arrivato a Parigi da Londra, Charlot, dopo essere stato ricevuto dalla regina d'Inghilterra e dopo che il procuratore generale degli Stati Uniti gli aveva negato il permesso di tornare in America, definendolo un pericoloso sovversivo.
Fu una conferenza stampa, al Ritz, l'occasione per uscire allo scoperto: Chaplin, fresco di Legion d'onore e acclamato dalla folla.
Superarono il rigido servizio d'ordine e riuscirono a diffondere un volantino, nella sala, dove l'attore e regista veniva definito "commerciante e poliziotto, maestro cantore della sofferenza e scroccone dei sentimenti, quello che porge sempre l'altra guancia, e l'altra chiappa."
"Vai a dormire, insetto fascista" - diceva il volantino - "e continua a fartela con l'alta società (davvero riuscito il tuo strisciare davanti alla piccola Elisabetta). Ramazza denaro e muori in fretta, ti promettiamo un funerale di prima classe. E intanto speriamo che il tuo film sia davvero l'ultimo."Grande scandalo, e discussioni! Perfino fra gli stessi amici di Guy Debord. Alcuni, in disaccordo, decisero di uscire addirittura dal gruppo! Si rese necessario chiarire meglio il significato dell'iniziativa. Naturalmente toccò a Debord scrivere in proposito. Il breve scritto chiarificatore si intitolava "Morte di un commesso viaggiatore" e diceva, più o meno:

"Abbiamo apprezzato a suo tempo il significato dell'opera di Chaplin, ma sappiamo che oggi la novità si trova altrove, e che le verità che non sono più interessanti diventano menzogne.
Noi crediamo che la più urgente espressione della libertà sia la distruzione degli idoli, specialmente quando sostengono di rappresentare proprio la libertà.
Il tono provocatorio del nostro volantino era una reazione contro un entusiasmo unanime e servile. Il fatto che, per questo, alcuni dei nostri amici abbiano deciso di ripudiarci è la prova dell'incomprensione che ha sempre separato, e ancora adesso separa, gli estremisti da quelli che stanno bene attenti a tenersi lontano dal bordo. E' ciò che ci separa da quelli che hanno abbandonato «l'amarezza della loro giovinezza», per sorridere alle glorie stabilite.
Ciò che separa chi ha più di vent'anni da quelli che ne hanno meno di trenta!"

martedì 12 aprile 2011

So dove abiti!

Wilckens-assassinates-Varela

In Patagonia, nel 1920, gli attivisti anarchici avevano guidato una rivolta dei braccianti agricoli, che poi era stata brutalmente repressa dall'esercito, comandato  del tenente colonnello Héctor Varela. Più di 1500 lavoratori, fra scioperanti e semplici lavoratori, erano stati mandati davanti ai plotoni di esecuzione. L'isolamento della regione e la scarsità di mezzi di comunicazione avevano fatto sì che, a Buenos Aires, nessuno, per un po' di tempo, venisse a conoscenza della vicenda. Quando, alla fine, arrivarono le notizie e le informazioni circa i metodi di Varela, la stampa anarchica intraprese una campagna contro il "macellaio della Patagonia", che culminò con l'esecuzione di Varela, da parte di un anarchico tolstoiano, Kurt Wilkens.
Era il 25 gennaio 1923 quando il tenente colonnello Héctor Benigno Varela usciva da casa sua, alle 7 del mattino. Fuori, ad aspettarlo, con una bomba e una pistola, c'era Kurt Wilkens, un anarchico pacifista. Wilkens spiegò le sue ragioni in una lettera datata 21 maggio 1923:

"Non è stata una vendetta. Non ho visto in Varela l'ufficiale insignificante che era. No, egli era tutta la Patagonia: il governo, il giudice, il boia e il becchino. Ho inteso eliminarlo in quanto era il simbolo messo a nudo di un sistema criminale. Ma la vendetta è indegna di un anarchico! Il domani, il nostro domani, non parla di rancori, né di delitti, né di bugie; il nostro domani afferma la vita, l'amore, la scienza. Lavoriamo per affrettare quel giorno."

Condannato all'ergastolo, Wilkens venne ucciso il 16 giugno 1923, con un colpo di rivoltella, nella sua cella, durante il sonno, da un nazionalista di destra, Perez Millan, il quale sarà ucciso, a sua volta, il 9 novembre 1925, da German Boris Vladimirovitch, anarchico russo.

lunedì 11 aprile 2011

L’odio

PaulPreston


Cadice. Luglio 1936. Sono trascorse solo poche ore da quando una parte dell'esercito si è ribellato contro la repubblica. Un gruppo di guardie civili falangiste attraversano la città e fermano  60 persone, fra liberali e di sinistra. Non ci sono accuse, nessun processo, nessuna difesa. Vengono tutti torturati e poi fucilati. Agli assassinati vengono mozzate le orecchie - non sappiamo se prima o dopo la loro morte - e mostrate pubblicamente come trofei. Settimane più tardi, a Barbastro (Huesca), gruppi di incontrollati mettono il clero nel mirino. L'accusa è generica, ed è quella di essere a favore dei ribelli, però né il vescovo né i 105 sacerdoti che vengono uccisi nella piccola diocesi vengono processati, non viene loro riconosciuto alcun diritto.
Questi sono solo due esempi delle atrocità commesse durante la guerra civile, lontano dal fronte. Paul Preston, uno degli storici e ricercatori che ha più esplorato la storia recente della Spagna, scrive un libro che aiuta a capire un secolo ricco di sangue e di vergogna. 'L'Olocausto spagnolo. Odio e sterminio nella guerra civile e dopo '(Ed. Debate).
Quante persone sono state uccise tra il luglio del 1936 e l'aprile del 1939 al di fuori del campo di battaglia? Preston ha stimato circa 200.000. Ogni quattro morti, uno per mano dei repubblicani e tre per quella dei ribelli. E' la prima conclusione importante del libro: ci furono crimini da entrambe le parti, sì, però furono quantitativamente e qualitativamente diversi, in quanto, mentre la fazione ribelle agiva in modo organizzato e sistematico, cercando di annientare tutti coloro che avevano difeso la Repubblica, o, addirittura, si erano mostrati tiepidi verso l'alzamiento, nel bando repubblicano sono stati dei gruppi isolati a rendersi responsabili delle violenze, nella maggior parte dei casi. Preston documenta anche gli sforzi, seri ma spesso inutili, compiuti delle autorità repubblicane per fermare le uccisioni.
Gli anni precedenti alla rivolta militare erano stati il tempo della semina: avevano piantato la sfiducia, la vendetta, l'odio, contro chi la pensava diversamente. Gli scontri tra contadini e proprietari terrieri, le chiese incendiate, gli scioperi rivoluzionari, le continue minacce da parte dell'esercito, il boicottaggio della Repubblica e delle sue leggi, avevano creato in molte zone un clima semibellico. Preston spiega anche come l'esperienza militare in Marocco aveva "indurito" tanto gli ufficiali quanto i soldati che avevano dimenticato il significato della parola "umanità".
Le atrocità iniziano da subito, allo scattare della rivolta. Nella notte fra il 17 e il 18 aprile, in Marocco, i ribelli passano per le armi 228 persone: tutti quelli che si opponevano al colpo di stato. Nei giorni successivi, l'Andalusia Occidentale si trasforma in un inferno. Viene decretata la fucilazione immediata di tutti coloro che si opponevano alla rivolta. Falangisti e militari, comandati da Queipo de Llano, applicano l'ordine alla lettera: molti anziani muoiono perché hanno dei figli repubblicani, centinaia di adolescenti e giovani pagano con la vita per avere un padre di sinistra che è fuggito, molti bambini vengono condannati a morire di fame a causa dell'ideologia dei loro genitori.
Nel quartiere Triana, a Siviglia, in rappresaglia per la morte di due falangisti, nel mese di agosto 1936, vengono arrestati ed uccisi 70 abitanti in quanto avevano commesso il 'reato' di essere passati per strada nel momento in cui i soldati ribelli erano in cerca di vendetta. Il giorno dopo, tra coloro che aspettavano di essere fucilati, contro un muro, c'era una donna anche stava per partorire. Il plotone aspettò che il bambino vedesse la luce, poi spararono alla madre e quindi uccisero la creatura a colpi di calcio di fucile.
In molti luoghi, i militari ribelli proibirono alle famiglie il lutto per i morti. Si trattava di negare il diritto al dolore. Sulla strada da Malaga ad Almeria, la marina e l'aviazione ribelle mitragliarono senza pietà i civili in fuga. Fuggivano dalla repressione messa in atto a Malaga, dove Queipo de Llano aveva riempito le carceri fino a scoppiare ed aveva organizzato processi sommari in serie. Uno dei giudici più propensi a firmare condanne a morte fu Carlos Arias Navarro.
La repressione imposta dalle autorità ribelli fu durissima anche in località che si erano schierate con i falangisti fin dal primo momento. Posti come Valladolid - dove la gente veniva arrestata solo perché correva voce che ascoltasse le trasmissioni radio di Madrid - Salamanca e Zamora. In quest'ultima città, venne arrestato e incarcerato Amparo Barayón, moglie dello scrittore Ramón J. Sender e madre di una bambina di sette mesi, che andò in prigione con lei. Tre mesi dopo, nel novembre del 1936, venne giustiziata. Non era impegnata in politica, ma era solo colpevole di essere sposata civilmente con uno scrittore repubblicano e di aver criticato pesantemente l'ambiente reazionario della sua città. Preston racconta che l'unica ragione per molte denunce - che a seconda di chi giudicava si risolvevano in una sentenza di morte - era l'avidità per i beni o per le mogli.
Qualcosa di simile accadde a Leopoldo Alas, figlio di 'Clarín', che era stato rettore dell'Università di Oviedo. Molti nella capitale asturiana pensavano che, uccidendo il figlio, alcune famiglie di rango stavano saldando un debito al padre, per fargli pagare il ritratto che di loro aveva fatto su 'La Regenta'. In altri casi, come il bombardamento di Durango e Gernika, la brutale repressione in Santander o l'accanito furore messo in atto nel saccheggio di Badajoz da parte del generale Yagüe e dalle sue truppe - fucilazioni di massa nelle arene, stupri e rapine a man bassa - non facevano nemmeno distinzioni ideologiche. Anche se i crimini più brutali erano riservati a casi particolari, ad esempio una miliziana catturata nei pressi di Santa Olalla (Toledo), che era stata chiusa a chiave in una stanza con 50 soldati mori.
E sul lato repubblicano? Il verificarsi di brutalità di massa durò solo pochi mesi, poi il governo riuscì in qualche modo a controllare i gruppi che avevano deciso di vendicarsi di mano propria. Si riportano diverso episodi di sangue. Le due città che registrarono la più alta pressione da parte di gruppi estremisti nei confronti di fascisti e preti furono Madrid e Barcellona. Nella capitale, la più grande atrocità, secondo Preston, avvenne a Paracuellos, uno degli episodi più enigmatici della guerra. L'ordine di uccidere i prigionieri di un convoglio militare diretto a Madrid venne dato da Carrillo, come dicono alcuni accusatori?  Preston impiega più di venti pagine per concludere che il futuro segretario generale del PCE non dette quell'ordine, ma non è nemmeno esente da ogni responsabilità, quantomeno per omissione.
A parte questo episodio è ben documentato che circa 8.000 persone vennero uccise, vittime della violenza politica nella capitale, nella seconda metà del 1936. In una sola notte, dopo la pubblicazione di un articolo, firmato dalla Pasionaria, che metteva in guardia contro la 'quinta colonna', 200 persone vennero passate per le armi. Ad Alicante, anche la CNT denunciò coloro che approfittavano della guerra per risolvere delle vendette personali. A Cartagena, 200 prigionieri militari furono gettati in mare e così condannati ad una morte certa.
In Euskadi e Catalogna, le autorità cercarono con ogni mezzo di fermare la violenza e in parte vi riuscirono. Il governo cercò di impedire l'incendio delle chiese, ma c'erano talmente tante persone armate per le strade che era impossibile controllarle tutte. Per impedire ulteriori uccisioni, riuscì a fornire passaporti a più di 10.000 cittadini, che poterono così evitare la morte, lasciando la città a bordo di navi battenti bandiera straniera. Monaci e sacerdoti formarono uno dei gruppi più numerosi fra le vittime, dal momento che centinaia di miliziani pattugliarono le strade per settimane alla ricerca di chi era vestito di un abito talare o di una tonaca. Col passare dei mesi, le vittime non furono più solo le persone di ideologia conservatrice, i comunisti si rivolsero contro gli anti-stalinisti e gli anarchici. Dietro molti di questi omicidi, stava un personaggio sinistro venuto dalla Russia e conosciuto col nome di Alexander Orlov. Non si preoccupò mai per la minaccia dei ribelli: era molto più interessato ad eliminare i critici del comunismo ortodosso.
In questo scenario, ci furono eroi, persone che rischiarono la vita per fermare quest'orgia di sangue. Manuel de Irujo, nazionalista basco e ministro del governo repubblicano, sconvolto da tanta crudeltà, cercò più volte di fermare le violenze. "Si perde di più a causa di un crimine che per una sconfitta", disse.

"Spero che il libro riesca a mostrare l'entità della sofferenza scatenata sui propri concittadini dall'arroganza e dalla brutalità degli ufficiali che si sollevarono il 17 luglio 1936. Essi provocarono la guerra, una guerra che non era necessaria, e le cui conseguenze si ripercuotono ancora oggi in Spagna." (Paul Preston)

sabato 9 aprile 2011

Grazie di tutto!

Sidney Lumet (Filadelfia, 25 giugno 1924 – New York, 9 aprile 2011)

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"Che tu possa passare almeno mezz'ora in paradiso, prima che il diavolo venga a sapere che sei morto"

venerdì 8 aprile 2011

le navi morte

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"Perché il passaporto? Perché restrizioni all'immigrazione? Perché non lasciare che gli esseri umani vadano dove vogliono andare, Polo Nord o Polo Sud, Russia o Turchia, Stati Uniti o Bolivia? Gli esseri umani devono essere tenuti sotto controllo. Essi non possono volare come gli insetti sul mondo in cui sono nati senza che lo abbiano chiesto. Gli esseri umani devono essere tenuti sotto controllo, sotto passaporto, sotto impronte digitali. Per quale ragione? Solo per mostrare l'onnipotenza dello Stato, e del santo servo dello Stato, il burocrate. La burocrazia è venuta per rimanere. E 'diventata il grande sovrano onnipotente del mondo. E' venuta per inchiodare gli esseri umani alla disciplina, per farli diventare dei numeri all'interno dello Stato. Ha cominciato con le impronte dei bambini, la prossima tappa sarà il marchio col numero di matricola sulla schiena, debitamente depositato, in modo che nessun errore possa essere fatto per quanto riguarda la vera nazionalità dell'insetto. Un muro ha reso la Cina quello che è oggi. I muri che tutte le nazioni hanno costruito dopo la guerra per la democrazia avranno lo stesso effetto. L'espansione dei mercati e profitti di dimensioni sempre più grandi sono una religione. È la più antica religione, forse, perché ha i sacerdoti meglio addestrati, ed ha le chiese più belle; sì, signore."

da  - Das Totenschiff (The Death Ship) di B. Traven (1959 – Film di George Tressler, con Horst Buchholz, Mario Adorf, Hellmut Schmid, Elke Sommer, di cui esiste una versione in lingua italiana, curiosamente intitolata "S.O.S. York")

giovedì 7 aprile 2011

Le Fughe di Buster Keaton

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Semmai ne avete voglia, qualche volta, quel che potete fare invece di quel che fate di solito è di accendere la vecchia TV e abbassare completamente il volume in modo da non udire le parole e vedere soltanto le immagini. Potreste anche fare il contrario e accendere la vecchia TV e disturbare l'immagine in modo che non sia più un'immagine ma solo onde e puntini luminosi che si muovono su e giù, e poi alzare al massimo il volume. Allora potrete prendere parte alla nazione di una fuga.
Se osservate le fughe di Buster Keaton siete sicuramente destinati ad imparare qualcosa.
Prima di tutto imparate che non dovete neanche provarci. Lo vedete in azione e notate che si tratta di un'azione doppia con due cose opposte che avvengono simultaneamente. Vi accorgete che la faccia è semplicemente una faccia, niente di più e niente di meno, e per questo motivo diventa più che una faccia, ma non ve ne date pensiero. Osservate il corpo che esegue più operazioni di quanto un corpo non possa eseguirne e talvolta è qualcosa di più di un corpo e talvolta è qualcosa di meno e per questo motivo diventa qualcosa di più di un corpo. Vedete che la faccia non si preoccupa del corpo e che il corpo non si preoccupa della faccia e poi lui fugge. E voi siete intrappolati a guardarlo mentre lui evade. La cosa che vi colpisce di più è che lui non si preoccupa affatto di esser preso.

da - Sam Shepard - La Luna del Falco -

mercoledì 6 aprile 2011

Viva Manchette

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Venerdì 4 Aprile 1969

Abbiamo appena visto, in televisione, IL VANGELO SECONDO MATTEO di Pasolini. E' una merda abietta. Film strutturalista. Un corpo grafico trasformato in corpo cinematografico, senza la minima preoccupazione di comprendere o di criticare (che poi è la stessa cosa). Pasolini è contento di essere un cretino servile. Egli è sempre più realmente al soldo della Curia, da quando ha ricevuto il premio dell'Ufficio Cattolico del Cinema.

in Jean-Patrick Manchette - Journal 1966-1974 -

Il modo in cui avrebbe dovuto essere

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Era il mese di aprile del 1937, quando Errol Flynn visitò la Spagna per portare la solidarietà di Hollywood alla Repubblica. Le sue visite al fronte e il suo girovagare nela retroguardia sarebbero già, di per sé, materiale per un romanzo. Ma Esteban Martin, che da quel viaggio ha tratto spunto, ha inteso mettere assai di più dentro a "Cuando la muerte venía del cielo (Ediciones B): dai bombardamenti aerei su Barcellona, agli avvenimenti che portarono ai Fatti di Maggio, alle attività della quinta colonna e delle spie naziste, fino alle origini di Hollywood e alla caccia alle streghe maccartista.
Esteban Martin si inventa un ex-bambino prodigio di Hollywood, Michael Ford, in viaggio con una missione segreta nella Barcellona divisa e bombardata della primavera del 1937.
Poi aggiunge una spruzzata di noir (con gioielli spariti, omicidi, complotti e persecuzioni) e mette in scena la Hollywood prima compromessa e poi perseguitata, in un romanzo in cui il protagonismo diventa corale. "E 'una romanzo di avventura ed è un tributo alla gente della mia città, le 5.000 persone uccise da quei terribili bombardamenti", dice l'autore.
Martin ci offre una festa di apparizioni delle grandi figure della repubblicana catalana (Lluís Companys, Josep Tarradellas, Mercé Rodoreda, Pau Casals) e del mondo del cinema e della letteratura impegnato nella causa (Dashiell Hammett, Lillian Hellman, Chaplin, George Orwell, Bogart e Laureen Bacall ed Errol Flynn). Con loro, e contro di loro, investigatori, agenti segreti, spie, nazisti e alla fine l 'ombra nera degli sbirri del senatore McCarthy. E viene messa in scena la vita quotidiana di Barcellona in guerra.
Lo scrittore si è concesso una piccola licenza. Durante i giorni in cui Flynn era a Barcellona. non cadde nessuna bomba. Per cui è stato aggiunto, fedelmente, il bombardamento, leggermente posteriore, del 30 maggio 1937. Inoltre, non viene dato molto credito alle voci che volevano che l'attore fosse in realtà una spia nazista, ma viene piuttosto presentato come il pazzo incosciente delle sue memorie, piuttosto che come un militante cosciente. "E come disse John Huston, quando gli venne chiesto circa la veridicità di uno dei suoi film, 'se in realtà non è stato così, questo è senz'altro il modo in cui avrebbe dovuto essere'."
I personaggi reali si alternano a quelli immaginari. Tra i primi, risalta il responsabile del Commissariato della Propaganda, Jaume Miravitlles. "E 'un personaggio molto letterario, in esilio a Parigi prima della guerra, creatore del Commissariato della Propaganda Catalana, nel romanzo è come una sorta di Virgilio che guida il ragazzo attraverso un città sconosciuta."
Tra i personaggi immaginari, Martin, cinefilo fino in fondo, mette in scena il personaggio di Carl Denham, protettore del giovane attore. "Carl Denham" è il nome del regista protagonista di King Kong.
Il Denham del romanzo intravvede il futuro attore in un ladruncolo che ruba una mela (come nel film con Fay Wray) e riferisce la scena allo sceneggiatore di King Kong, che la introdusse nel film.

martedì 5 aprile 2011

Per parlare (rileggendo Blanchot)

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Le pause che punteggiano, scandiscono e articolano il dialogo, non sono tutte della stessa specie. Alcune bloccano il dialogo.
Kafka si è domandato, quando otto persone siedono nell'orizzonte di una conversazione, in quale momento e quante volte sia opportuno e lecito prendere la parola, se non si vuole passare per taciturni.
Però, certi silenzi, sia pure carichi di disapprovazione, vanno a costituire la parte motrice del discorso. Senza questi silenzi non si parlerebbe affatto, salvo poi domandarsi, in seguito, se non ci si sia ingannati circa l'atteggiamento dell'interlocutore e se non sia stato poi l'altro, a farci parlare. E anche quando il silenzio, il mutismo, è un rifiuto, esso continua a far parte del discorso, lo assoggetta alle sue sfumature e contribuisce alla speranza di un accordo finale, oppure alla perdita di ogni speranza. Assume le caratteristiche di una parola differita, oppure può significare una differenza mantenuta con ostinazione.

lunedì 4 aprile 2011

Giornali e Rivoluzione

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“I giornali socialisti hanno spesso la tendenza a diventare nient’altro che una raccolta di lamentele sulle condizioni attuali. Si parla dell’oppressione dei lavoratori nelle miniere, nelle fabbriche, nei campi; si dipingono al vivo le miserie e le sofferenze degli operai durante gli scioperi; si insiste nel dire come non abbiano armi con cui lottare di fronte ai loro padroni; e questo seguirsi di disperate lotte di settimana in settimana, ha sul lettore un effetto molto deprimente.
Come rimedio chi scrive confida soprattutto nelle parole ardenti con le quali cerca di infondere nei suoi lettori slancio e speranza. Io pensavo invece che un giornale rivoluzionario deve dare il resoconto di tutti i segni che, dovunque, preannunciano l’avvento di un’era nuova, il nascere di nuove forme di vita sociale, la rivolta crescente contro le istituzioni antiquate. Questi sintomi devono essere analizzati, confrontati, studiandone i rapporti più profondi e raggruppati in modo da dimostrare all’animo dubbioso dei più come le idee più avanzate incontrino dovunque un favore invisibile e spesso inconscio, quando nella società si verifica un risveglio dei pensieri. Fare che si senta di partecipare al palpito del cuore umano in tutto il mondo, alla sua ribellione contro le ingiustizie secolari, ai suoi sforzi per elaborare nuove forme di vita, questo dovrebbe essere il compito essenziale di un giornale rivoluzionario. È la speranza e non lo sconforto che porta alla vittoria una rivoluzione.
Gli storici ci dicono spesso che questo o quel sistema filosofico ha prodotto un certo cambiamento nel pensiero umano, e in seguito nelle istituzioni,ma questa non è la storia. I maggiori filosofi studiando la loro società non hanno fatto che afferrare gli indizi dei futuri mutamenti, ne hanno capito i rapporti intimi e, aiutati dall’induzione e dall’intuizione, hanno predetto quel che sarebbe avvenuto. Anche i sociologi hanno tracciato degli schemi di organizzazione sociale partendo da alcuni principi e sviluppandoli nelle loro conseguenze logiche, così come da pochi assiomi in geometria si arriva a una conclusione; ma questo non è sociologia. Non si può fare una giusta previsione sullo sviluppo di una società se non si tengono d’occhio i più tenui indizi di una vita nuova, separando i fatti fortuiti da quelli organicamente essenziali e costruendo la generalizzazione su queste fondamenta.
Era questo il sistema di pensiero al quale cercavo di abituare i nostri lettori – servendomi di parole chiare e comprensibili, in modo da abituare i più umili a giudicare da sé la direzione in cui cammina la società e a correggere da sé il pensatore se costui arriva a conclusioni false. Quanto alla critica delle condizioni presenti, ne feci solo quando era necessario per mettere a nudo le radici dei mali e per mostrare che le ragioni prime di tutti i mali sociali sono un feticismo vivo e profondo per le sopravvivenze antiquate di fasi già superate dell’evoluzione sociale e una grande inerzia del pensiero e della volontà.”

- Petr Alekseevic Kropotkin -

venerdì 1 aprile 2011

Chicago

tomba

"Termini come "anarchico", "socialista", "comunista", dovrebbero essere per così dire "mescolati" tutti insieme, di modo che nessun confusionario possa riconoscere più ciascuno di questi singoli termini.  Il linguaggio non serve solo il fine di distinguere le cose, ma anche quello di unirle - dal momento che è dialettico."
- Josef Dietzgen -

Morì a casa, mentre fumava un sigaro, Josef Dietzgen, che aveva sviluppato per conto suo la nozione di materialismo dialettico,  indipendentemente da Marx. Era appena tornato da una passeggiata a Lincoln Park, dove aveva avuto una discussione "in maniera vivace ed eccitata" a proposito del "collasso imminente della produzione capitalista". Si era interrotto a metà di una frase, la mano che si agitava nell'aria. Venne sepolto nel Waldheim Cemetery, in Forest Park, Chicago, a pochi passi dalla tomba dei martiri di Chicago. Era il 1888.