lunedì 30 giugno 2008

umorismo!!??

oltre ogni confine



Attraverso il confine
di Ry Cooder

Mi hanno detto che c'è un posto passato il confine
Dove le strade sono tutte lastricate d'oro
E si trova proprio appena attraversato il confine
E quando arriva il tuo turno di giocare
C'è una lezione che devi imparare
Potresti perdere molto più di quanto speri di trovare

Quando arrivi nella terra delle promesse non mantenute
Ed ogni sogno scivola via attraverso le tue dita
Allora sai che ora è tardi per cambiare idea
Per arrivare così lontano hai pagato un prezzo
Ed ora non puoi tornare dov'eri prima
Ed hai proprio oltrepassato il confine

Su e giù lungo il Rio Grande
Migliaia di orme nella sabbia
Rivelano un segreto che nessuno può vedere
Il fiume è come un respiro
Che scandisce la vita e la morte
Dimmi chi sarà il prossimo ad attraversare il confine

Nell'oscurità piena di tristezza
Oggi dobbiamo attraversare
Questo fiume che ci chiama ad andare avanti

Ma la speranza rimane anche quando l'orgoglio svanisce
E ti fa continuare a muoverti
Chiamandoti ad attraversare il confine

Quando arrivi nella terra delle promesse non mantenute
E ogni sogno scivola via attraverso le tue dita
Allora sai che ora è tardi per cambiare idea
Per arrivare così lontano hai pagato un prezzo
Ed ora non puoi tornare dov'eri prima
Ed hai proprio oltrepassato il confine

venerdì 27 giugno 2008

Una generazione che ha dissipato i suoi ... scrittori



Somiglia molto, il borgo, Sassofrasso, alla cittadina senza nome del film di Scola, "Il commissario Pepe", in cui un inconsueto Ugo Tognazzi si muoveva fra i "veleni" del nord-est. Era solo preistoria, e il peggio aveva ancora da venire. Quarant'anni dopo, questo paese consiste sempre de "il popolo più analfabeta, e la borghesia più ignorante d'Europa". E' un fatto. Ed è questo fatto che, con ogni probabilità, comporta un cambio nel registro stilistico e narrativo del nuovo libro di Girolamo De Michele, "La visione del cieco".
Sono passati dieci anni, e in mezzo c'è stato di tutto, c'è stata Genova e l'altra gamba, nella strada accanto, correndo, si è allontanata dell'altro. Ce ne siamo scordati un po' tutti, della meta; i morti e i vivi. E le descrizioni si fanno sempre più grigie, scarne, essenziali. Quasi a dire che non ci va più bene niente, e nessuno; come ad Andrea Vannini, per principio. Tranne i gatti, che hanno un cuore sempre, e anche il cielo grigio che va bene per le ... anime tristi. Poi ci sono gli "scrittori", quelli col nome cambiato e quelli che protestano perché sono sardi, anzi barbaricini, e amici di De André, anzi di Faber, e protestano per l'uso indebito delle canzoni dell'amico defunto, anche se la canzone è di Brassens! E poi gli aneddoti. Non può essersela inventata, Girolamo, quella del politico che ha fatto carriera portandosi un formaggio avariato nella borsa, per distrarre i contendenti! E chi sarà mai il poeta-saggista-titolare di un corso di letteratura nell'università della citta "vituperio delle genti"? Troppo facile, e proprio per questo vero. E poi è troppo facile, anche, condividere con Andrea Vannini il suo concetto di umanità, quello che può fare a meno di alcuni!
Il resto è la vita, la realtà e il suo senso. Quelli che prima hanno fatto i soldi inquinando, e adesso li fanno ripulendo, quelli che l'orrore ce l'hanno dentro la loro bella casa tranquilla, quelli che bruciano i "negri", quelli che sono capaci di tutto pur di continuare ad avere il rottweiler, il fuoristrada e la villa accanto al capannone. Quelli. Ed hai voglia a cercare di "ingentilire lo scirocco". Certo, se ci fosse stata internet ai tempi del condor e dei suoi tre giorni, gli occhi "blu kennedyano" di Robert Redford, nella scena finale, avrebbero ammiccato ad un internet point, invece di lasciarci tutti nell'incertezza. Ma, nel frattempo, Jaco Pastorius è morto, come molti altri su cui adesso ci troviamo a contare i nostri passi. E forse è morto anche Andrea Vannini, ma il mondo ci appartiene. Ci sono le fotografie che continuano a proclamarlo, per sempre. E un gatto ... si chiama Merlino, come il gatto del mio amico Antonio ....

Girolamo De Michele - La visione del cieco - Einaudi Stile Libero - 16 euri

giovedì 26 giugno 2008

sterminateli, tutti!



Comincia bene, dalla copertina quasi kafkiana, il primo "trade paperback" del serial "The Exterminators" per la Vertigo della DC Comics. A Los Angeles i muri sono pieni di scarafaggi, oltre che di topi, ed Henry James è appena uscito di galera, dove si è fatto una cultura leggendo libri, i più grossi, Ed è preparato, ha imparato dalle 2.434 pagine della storia completa dell'impero romano che, ad un certo punto, si trova sempre una "buccia di banana" su cui si scivola, e che niente dura in eterno. Fuori di galera, incomincerà a lavorare, facendo l'unico lavoro che gli viene offerto dal nuovo compagno della madre, proprietario della "Bugs-Bee-Gone", una ditta di disinfestazione. La fidanzata, Laura, ha un impiego di alto profilo presso le Ocran Industries che producono il miglior insetticida mai esistito: il Draxx, che - come ha scoperto il Dr. Saloth Sar, scienziato della Bugs-Bee-Gone ed ex-Kmehr rosso - ha un curioso impiego collaterale come droga iniettabile, quello di fare esplodere letteralmente, ad un certo punto, l'incauto consumatore.
Henry detesta il suo lavoro, eppure prova a farlo al meglio, insieme ad una stralunata compagnia di "guerrieri del DDT" composta da cowboys zen, avanzi di galera e rifiuti sociali. Ma qualcosa sta cambiando e il piede è sempre più vicino alla sua "buccia di banana". E poi c'è una scatola, trovata da uno sterminatore quando era marine durante la guerra del golfo; sembra fatta di pietra e reca uno scarabeo in basso rilievo, da una parte, e quattro buchi di serratura e una svastica, dall'altra. Forse portata in Iraq dai soldati romani, a chiudere il cerchio. La storia ti prende e non ti lascia, infarcita di dialoghi da film di Tarantino in un contesto da X-Files. Dovranno essere gli Sterminatori a ... risolvere i problemi.
Inizialmente concepita per la televisione, la storia è disegnata sapientemente da Tony Moore che ha ideato la trama insieme a Simon Oliver che ne cura i testi.

The Exterminators - Vita da Scarafaggi - Planeta DeAgostini - 9.95 euri

mercoledì 25 giugno 2008

Succede



Un film, a volte, andrebbe guardato così come si legge un libro. Sfogliando le pagine, e tornando indietro a rileggere un dettaglio, a cercare un particolare che non si era ben fissato nella memoria. E poi andando di nuovo avanti. Inseguendo la trama. E la trama di "... e venne il giorno" ("The Happening") di M. Night Shyamalan comincia a muoversi fra le nuvole dei titoli iniziali, poi si sposta fra le panchine del Central Park e finisce sotto gli alberi degli Champs Elisées, tutto mettendo in comunicazione fra loro, così come realmente avviene, a dirci che non c'è, non ci sarà più, più un margine da oltrepassare, un posto dove rifugiarsi. Al sicuro.
Comincia un po' come "The Cell" di Stephen King, ma poi se ne va da un'altra parte, girando in tondo. E la salvezza, come nei versi di Holderlin, può essere solo proprio lì dove maggiore è il pericolo. L'unico modo per sconfiggere la morte consiste nello smettere di averne paura. Semplicemente. La casa, come in ogni film horror che si rispetti, è il luogo dell'orrore. Tale si rivela sempre, alla fine. E' come la morte, congela il tempo e lo costringe a scorrere in una spirale continua. Tutto precipita, nello spazio di pochissimo tempo, e non ci si salva insieme agli altri, ma non ci si salva nemmeno da soli. La morte si vince solo scegliendo e accettando di morire. Venendo fuori, dritti, in piedi contro il vento. Quasi tutta la retorica (buona?) del romanticismo. Morire per rinascere, come l'eroe dai mille volti.
"Perché nessuno vuole darmi un attimo per concentrarmi?" - urla Wahlberg ad un certo punto, in un certo spazio dove non c'è più dove andare. La comunità si consuma, si disgrega, da sola. Cerca di ridursi al minimo per interferire il meno possibile, per non interferire più. Ma non è possibile. Bisogna tornare indietro, smettere di scappare. Tornare a comunicare, alla comunicazione elementare. Dopo tutti i dialoghi da teatro dell'assurdo che scandiscono tutta la pellicola.
Non c'è più "campo", nel film, né in senso cinematografico né in senso telematico!
E il tempo, è il tempo, questo nostro tempo dove la morte sembra essere l'unica forma di vita.
Solo una dichiarazione di vita, di amore supremo, può sconfiggerla.

lunedì 23 giugno 2008

attestati



"Un epitaffio adeguato mi è stato spedito alcuni mesi fa. E' un manifesto, un metro per un metro e venti, stampato dal partito socialdemocratico tedesco. Ecco la traduzione del testo:

1933...
In quei giorni i roghi divampavano nelle città tedesche. Per ordine di Goebbels milioni di libri vennero distrutti dalle fiamme.

Il disegno sotto questo testo mostra Goebbels che scaglia un libro nel fuoco sotto lo sguardo di Hitler, sulla copertina del libro si legge il nome di Koestler.

1952
In questi giorni nuovi roghi sono divampati nelle città tedesche della zona sovietica. Di nuovo, nove milioni di libri sono periti nelle fiamme.


Il disegno mostra Pieck che getta un altro libro, di nuovo contrassegnato "Koestler", nel fuoco, sotto lo sguardo di Stalin.

Anche se si può obiettare che nel 1933 avevo pubblicato un solo libro di cui non erano disponibili grandi quantità da bruciare, trovo che il fatto che questi manifesti siano stati affissi nelle città tedesche sia comunque gratificante. Una copia ora è appesa fuori dal mio studio, incorniciata come un diploma professionale che certifica che il suo possessore ha superato l'esame ed è autorizzato ad esercitare la sua arte. Perché essere bruciato due volte nella vita è, dopotutto, una rara distinzione."

Arthur Koestler - Londra, Ottobre 1953

venerdì 20 giugno 2008

L'amica di Kafka



Milena Jesenska.
Fin da quando era una ragazzina, tutta Praga parlava di lei e si raccontavano storie folli: che sperperasse denaro a fiumi, che avesse attraversato a nuoto la Moldava per arrivare in tempo ad un appuntamento, che fosse stata arrestata alle quattro di mattino per aver raccolto magnolie "pubbliche". Vestiva abiti impalpabili e fluttuanti alla Isadora Duncan, preferibilmente nei toni dell'azzurro o del verde acqua, i capelli ondulati, sciolti, spesso intrecciati con dei fiori. Milena, figlia unica dell'eminente professor Jesensky, chirurgo di fama, mal sopportava i lacci di una vita borghese. Frequentava l'esclusivo Minerva, uno dei primi licei femminili in Europa. Era quello che si diceva una ragazza emancipata, una personalità molto forte, tanto da essere presa a modello da molte sue compagne. La madre morirà quando Milena ha 17 anni ed il rapporto con il padre, da sempre difficile, peggiorerà di giorno in giorno.
Sarà una donna generosa, sino all'eccesso; in amore e in amicizia, valori che anteponeva a tutto. Ma, soprattutto, una donna coraggiosa che si costringerà a trasformare il suo forte individualismo dei giorni migliori in responsabilità sociale e politica. Nel 1938 quando la sua Boemia verrà soggiogata, inciterà alla resistenza contro i nazisti, aiutando a fuggire all'estero ebrei e compatrioti cechi. Di lì a poco verrà arrestata dalla Gestapo e morirà, a 47 anni, nel campo di concentramento di Ravensbrück nel maggio del 1944 poche settimane prima dello sbarco in Normandia.

Alla morte di Kafka, avvenuta nel 1924, aveva scritto:

"L'altro ieri è morto nel sanatorio di Kierling a Klosterneuburg vicino Vienna, il dottor Franz Kafka, uno scrittore di lingua tedesca vissuto a Praga. Qui lo conoscevano in pochi, poiché era un eremita, un uomo sapiente spaventato dalla vita. Era lungimirante, troppo saggio per poter vivere e troppo debole per poter combattere. Vedeva il mondo con una tale chiarezza e precisione da non poterlo sopportare, da doverne morire, egli infatti, non si è concesso scappatoie, non si è salvato come tanti altri rifugiandosi in qualche equivoco intellettuale per nobile che fosse. Era un uomo e un artista dotato di una coscienza così scrupolosa che rimaneva vigile anche là dove gli altri, i sordi si sentivano al sicuro".

giovedì 19 giugno 2008

attualità politica


"Mentre si preparavano le elezioni per le Cortes, Heinz un giorno chiese al suo lustrascarpe quali risultati a suo avviso ci si potesse attendere dalla consultazione. L'uomo, di solito molto loquace, rimase un po' in silenzio, poi si drizzò e diede una lezione ad Heinz, una lezione che non ho mai potuto scordare. Quando incominciò a parlare la sua voce aveva un tono di velata ironia: "Senor, non comprendo come proprio lei possa rivolgermi una simile domanda. Suppongo sia tedesco e..." si interruppe e squadrò lentamente Heinz dal basso verso l'alto. Poi proseguì in un tono un poco incerto: "...se non sbaglio lei dovrebbe essere un oppositore di Hitler; dunque probabilmente un rifugiato politico socialista o comunista... La prego di scusarmi, signore, se mi permetto simili considerazioni, ma la sua domanda mi ci ha costretto. Lei sa meglio di me che alle elezioni politiche dell'anno scorso i socialisti e i comunisti assieme hanno ottenuto più di quattordici milioni di voti. Ma cosa è servito al movimento operaio? A nulla! Nonostante la sua vittoria elettorale il movimento operaio è stato schiacciato dai fascisti... Io non riesco a capire come lei, che è della sinistra tedesca, possa ancora credere che una decisione politica passi attraverso le elezioni o il parlamento...", poi soggiunse con una voce piena di dignitosa superiorità: "Senor, io sono anarchico e rifiuto sia le elezioni sia il parlamento. C'è solo una via che porta alla libertà e al comunismo: L'azione diretta!". Poi si piegò nuovamente sulle scarpe di Heinz e diede loro l'ultima lucidata."

Margarete Buber Neumann

Da Potsdam a Mosca, 1957

mercoledì 18 giugno 2008

un'altra musica




MIDDLE CLASS BLUES
di Hans Magnus Enzensberger

Non possiamo lamentarci.
Abbiamo da fare.
Siamo sazi.
Mangiamo.
Cresce l’erba,
il prodotto sociale,
l’unghia delle dita,
il passato.
Le strade sono vuote.
Le chiusure sono perfette.
Le sirene tacciono.
Questo passa.
I morti hanno fatto il loro testamento.
La pioggia è cessata.
La guerra non è stata dichiarata.
Questo non è urgente.
Noi mangiamo l’erba.
Noi mangiamo il prodotto sociale.
Noi mangiamo le unghie.
Noi mangiamo il passato.
Non abbiamo nulla da nascondere.
Non abbiamo nulla da perdere.
Non abbiamo nulla da dire.
Abbiamo.
L’orologio è caricato.
La vita è regolata.
I piatti sono lavati.
L’ultimo autobus sta passando.
È vuoto.
Non possiamo lamentarci.
Cosa aspettiamo ancora?

martedì 17 giugno 2008

Aspetta!



Aspetta
di Tom Waits

Hanno appeso un cartello appena fuori città
"Se fai la bella vita, non vorrai smettere"
Così lei se ne andò da Monte Rio, figlio,
Proprio come una pallottola sparata da un fucile
Con i suoi occhi color carbone e i suoi fianchi da Marilyn Monroe
Se ne andò verso la California
E la luna era d'oro, e i suoi capelli come il vento
Disse solo "Non voltarti indietro
Andiamo Jim"

Oh devi aspettare, aspetta, aspetta
Prendi la mia mano, sono qui
Devi aspettare

Bene, lui le diede un posto da custode di magazzino
E un anello intagliato da un cucchiaio
Cerchiamo tutti quanti qualcuno cui dare la colpa
Ma tu dividi il mio letto, e hai preso il mio nome
Allora va' avanti e chiama la polizia
Non ci vai a rimorchiare belle ragazze nei bar
Lei aggiunse "ti amo ancora"
A volte non c'è niente da aggiungere

Oh devi aspettare, aspetta, aspetta
Prendi la mia mano, sono qui
Devi aspettare

Bene, dio benedica il tuo piccolo cuore infedele
St. Louis ha preso i miei anni migliori
Mi manca la tua voce dal suono di porcellana rotta
Come vorrei che tu fossi ancora qui con me
Tu lo hai fatto e tu lo stai disfacendo
Brucia la tua casa fino alle fondamenta
Quando non c'è rimasto più niente a trattenerti
Quando cadi sulle ginocchia su questo grande mondo blu

Oh devi aspettare, aspetta, aspetta
Prendi la mia mano, sono qui
Devi aspettare

Dalle parti del Riverside Motel
Ci sono dieci gradi sottozero
Vicino ad un negozio "tutto a 99 cents" lei chiuse gli occhi
E comincio a dondolare
Ma è difficile ballare in quel modo
Quando fa freddo e non c'è musica
La tua casa è così lontana
Ma dentro la tua testa un disco gira
Sta suonando una canzone che dice

Oh devi aspettare, aspetta, aspetta
Prendi la mia mano, sono qui
Devi aspettare

lunedì 16 giugno 2008

Non solo canzoni

Vent'anni fa ...



PAZ
Gang

Da quando non ci sei
la luna piange rosa
un corvo nero vola
sopra la città
il corvo ha un becco d’oro
un becco tutto d’oro
vedessi come splende
nell’oscurità
Bologna non c’è più
se l’hanno presa loro
è un cumulo di noia
che spendi e paghi caro
Bologna è una carogna
che non ti vuole vivo
da quando non ci sei
Bologna non c’è più
Non ti sei perso niente
non ti sei perso niente
non ti sei perso niente
PAZ
Per noi che siamo qui
nel letto del diavolo
noi che prendiamo tempo
e non vediamo l’ora
per noi quello che resta
è l’ombra di una vita
vuoi mettere risorgere
PAZ
Non ti sei perso niente
non ti sei perso niente
non ti sei perso niente
PAZ

domenica 15 giugno 2008

poltica...mente



"Molti errori, disse il signor K., nascono dal fatto che non si interrompono coloro che parlano, o lo si fa troppo poco. Così è facile che venga fuori un tutto illusorio, che, dato che è un tutto - ciò che nessuno può mettere in dubbio -, sembra che vada bene anche nelle sue singole parti, benché invece le singole parti vadano bene solo per quel tutto."

Bertolt Brecht - Storie del Signor Keuner

venerdì 13 giugno 2008

Il partito dell'insurrezione



Nella Spagna della seconda repubblica, nei primi anni trenta del secolo scorso, la lotta armata non era certo espressione di disperazione o impotenza politica! Lo scontro tra classe operaia e stato era all'ordine del giorno e la mediazione istituzionale veniva usata e superata ogni giorno dalla lotta operaia. Ed era proprio la connotazione anti-istituzionale della lotta operaia ad alimentare l'ipotesi che potesse verificarsi, quasi senza soluzione di continuità, la trasformazione della lotta stessa in scontro rivoluzionario. Magari poteva bastare un intervento audace che servisse da detonatore.
Così, la determinazione delle scadenze insurrezionali prescindeva dalla valutazione delle condizioni politiche generali.
E le insurrezioni non venivano neppure pensate come vincenti, ma erano concepite come momenti di rottura. L'alternativa fra fascismo e rivoluzione sottolineava l'incapacità del riformismo a rispondere allo scontro sociale che avrebbe ricevuto un'accelerazione dai tentativi insurrezionali, verificando allo stesso tempo la capacità di organizzazione e di attacco.
Nella fase insurrezionale del 1932-33, gli anarchici spagnoli espressero l'originalità del loro essere "partito dell'insurrezione", creando la "mentalità" che permetterà l'insurrezione delle Asturie nel 1934 e la risposta rivoluzionaria a Francisco Franco nel 1936.
Nel dicembre del 1933, dopo una campagna astensionista organizzata dagli anarchici con un impegno eccezionale, le destre vincono le elezioni e viene così sancita la fine del grande progetto riformista. La crisi del ridormismo, e l'attualizzazione della minaccia del fascismo, creano un'impressionante e inarrestabile spinta all'unità fra le masse. L'insurrezione delle Asturie - cui gli anarchici asturiani, da sempre favorevoli a rapporti di unità coi socialisti, parteciperanno in prima linea, dando un contributo determinante - è preparata ed organizzata dal Partito socialista ed ha una partecipazione di massa. La parola d'ordine "Unios Hermanos Proletarios" campeggia dappertutto e sottolinea la coscienza di essere entrati in una fase decisiva dello scontro di classe. Con ogni probabilità, l'insurrezione delle Asturie è stata l'ultima occasione in cui il proletariato ha giocato all'attacco, e non su terreni e scadenze imposte dal nemico.
La direzione insurrezionalista della CNT-FAI viene colta di sorpresa dal cambiamento di posizione del Partito socialista e dal processo unitario, che si svolge a livello di base, nelle fabbriche e nel paese e non riesce a svolgere una funzione trainante. Non riesce a garantire, con la sua forza ed esperienza di partito della lotta di strada, l'estensione a livello nazionale della Comune asturiana e si dimostra incapace di gestire la crisi del riformismo che pure essa stessa aveva contribuito a provocare. Il dopo Asturie coinciderà, per gli anarchici, con un periodo di crisi delle posizioni insurrezionaliste che, d'altronde però, non vennero mai superate per mezzo di altre ipotesi rivoluzionarie. Nelle battaglie in strada che, poi nel 1936, sconfissero, a Barcellona e in altre città della Spagna, l'esercito franchista, furono di nuovo capaci di esprimere tutta la loro forza ma, dopo il il 1934, non riuscirono più a proporsi come polo di elaborazione e direzione politica e saranno condannati ad essere subalterni, di fatto, al Fronte Popolare.

giovedì 12 giugno 2008

tenebre



"Io non ci credo in Dio. Lo capisce, questo? Si guardi intorno, amico mio. Non lo vede? Il frastuono e le grida della gente che soffre saranno musica per le orecchie di Dio. E io rifuggo queste discussioni. Il discorso dell'ateo del villaggio che ha come unica passione quella di vilipendere dalla mattina alla sera qualcosa di cui nega innanzitutto l'esistenza. La comunanza di cui lei parla è basata solo e soltanto sul dolore. E se quel dolore fosse veramente collettivo invece che soltanto ripetitivo, il suo peso basterebbe a staccare il mondo dalle pareti dell'universo e a farlo precipitare in fiamme in mezzo a quel po' di notte che saprebbe ancora generare prima di ridursi ad un nulla che non è neppure cenere. E la giustizia? La fratellanza? La vita eterna? Santo cielo, amico mio. Mi mostri una religione che prepari l'uomo alla morte. Al nulla. Quella sarebbe una chiesa in cui potrei entrare. La sua prepara solamente ad altra vita. Ad altri sogni, illusioni e bugie. Se si potesse bandire la paura della morte dal cuore degli uomini, non vivrebberoun giorno di più. Chi sarebbe disposto a sopportare questo incubo, se non per paura dell'incubo che lo seguirà? Sopra ogni gioia pende l'ombra dell'ascia. Ogni strada porta alla morte. O peggio. Ogni amicizia. Ogni amore. Tormenti, tradimenti, lutti, sofferenza, dolore, vecchiaia, umiliazione, malattie orrende e lunghissime. E alla fine di tutto una sola conclusione. Per lei e per ogni persona e ogni cosa a cui ha scelto di legarsi. Ecco la vera fratellanza. La vera comunità. Di cui tutti sono membri a vita. E lei mi viene a dire che nel mio fratello sta la mia salvezza? La mia salvezza? Be', allora lo maledico. Lo maledico sotto ogni forma e sembianza. Mi ci rivedo, in lui? Sì che mi ci rivedo. E quello che vedo mi disgusta. Mi capisce? Riesce a capirmi?"


Cormac McCarthy - Sunset Limited - Einaudi

mercoledì 11 giugno 2008

Nuove canzoni di ... protesta



Se Chip Taylor, che passerà sicuramente alla storia per canzoni come "Wild Thing" e "Angel of the Morning", ha scritto e cantato un capolavoro, beh allora questo capolavoro è stato "Black and Blue America", inciso nel 2001. Un concept con tutte le carte in regola per raccontare alle orecchie e al cuore l'America di John Wesley Voight, in arte Chip Taylor!
Adesso, a sette anni di distanza, riprende un paio di canzoni da quel disco e, strizzando l'occhio a Bob Marley, a partire dal titolo, ci consegna un altro concept. Un disco politico, intimo e arrabbiato fino allo spasimo. Un pugno di canzoni, un pugno di ballate taglienti come rasoi.
Ascoltate quella che dà il titolo al disco, e guardate il video dove si muove un cantautore che porta l'eskimo. Per due volte rubato alla canzone, prima dal golf, poi dal poker. E per due volte restituitoci. Grazie al cielo!
Una nuova canzone di libertà.....

martedì 10 giugno 2008

"Nella storia che non ama imperatori..."



Ho sempre pensato che la vita consista in un gioco di rimandi che possono servire a coprire la distanza di quei gradi di separazione che ci affliggono.
Che sia cinema, letteratura o musica è giocoforza, sempre, cercare quei riferimenti, in ciò che più ti colpisce e ti piace, che ti permettano di allargare gli orizzonti ...Leggi un libro - magari un saggio di quell'autore che adori - e cominci a sottolineare i nomi che lui fa. Come a crearti una mappa, un piano di viaggio che possa continuare a farti muovere. Così ascolti un disco e poi scopri che uno dei tre, che ha partecipato a quel disco che tanto ti è piaciuto, ha fatto qualcos'altro. Anzi, continua a farlo. Così mi è capitato di scoprire che Gianluca Bernardo, oltre ad aver preso parte, insieme a Fosca e Santese, a quel "Ballate di Fine Inverno" di cui ho parlato, è l'anima di un gruppo. I Rein. E questo gruppo ha già fatto uscire un singolo, un EP e - la notizia è di pochi giorni fa - un nuovo disco. Tutto rigorosamente copyleft.
Del gruppo, riporto la presentazione che i musicisti danno di sé stessi. Il singolo e l'Ep si possono scaricare dal sito myspace, e più sotto si può ascoltare "Est", la canzone che dà il titolo all'EP. Io dico che ne vale la pena!


"In una Babilonia di plastica e cemento, dal 1999 i Rein suonano e attraversano l'Italia in lungo e largo a bordo di una vecchia macchina diesel. Una storia lunga chilometri, fatta di autogrill sospesi nella nebbia, portapacchi strabordanti, pacchetti di sigarette accartocciati, bazar ai bordi della ss16 e binari ai lati della 106; una storia bruciata tra gli ultimi nei privè dei primi. Poche brandine e tanti sacchi a pelo che noi ci sappiamo adattare; caffè a portar via che magari poi ci viene sonno; che l'E45 è meglio dell'A1 perché non costa, mentre la Salerno-Reggio va bene comunque, tanto è l'unica. Qui, dove la periferia è anche il centro di tutto e la musica resta l'unico modo per parlare di felicità e di tristezza allo stesso tempo, i Rein, incrocio ferroviario tra Messico e Ungheria, Francia e Irlanda, prendono e partono con poche certezze, poca benzina e qualche punto fermo stampato ai cigli delle strade. Libri francesi, musica latina e risorse slave, futbol e chitarre spaccate, qualche bottiglia di birra messina, quando si trova. E se povertà e ricchezza si confondono, la multiculturalità è un dato di fatto e non un'opinione. Qualcosa resta, tra tanta storia e poca identità. Qualcosa resta. E allora questo qualcosa cerchi di farlo entrare in qualche modo nel portabagagli e di portarlo in giro, per raccontarlo. Per raccontare come avviene che da mille madri diverse nasca un solo figlio, triste come la soledad, fedele come le steppe del Connemara, feroce come il sud, poetico come l'est. Quaggiù, in provincia di Babele, qualcosa resta."

(I Rein)



EST
di Gianluca Bernardo


Nella storia che non ama imperatori
Si rimpasta il vecchio gioco del potere
E mi ricordo di altre bandiere
Altri slogan, altre facce ed altre idee

Sulle strade che entrano a Praga
C’è il trionfo della repressione
Sui carri armati dell’armata rossa
C’è una maschera di un altro colore
C’è chi maschera un altro colore

Sulla piana che solca l’Ungheria
Corre il treno di questa mia vita
Ma tu mi dici che è già finita
E non sai che dolore mi dai
Tu non sai il dolore che mi dai

Tu che mi dici: lascia stare
Sai che il tempo è un amico infedele
E come vedi, tutto cambia
E l’amore è fatto solo di poesia
E l’amore è fatto solo di poesia

Le mani sempre più tese
E gli occhi schiusi fin dentro un’ideale
E il vento sui nostri ricordi
Sulle promesse
Sulle certezze
Sulle speranze
Di questo sogno che chiamiamo libertà

Per la gloria dei moderni dittatori
Scorre il sangue di un popolo sovrano
E tu soldato americano
Con che pane questa sera mangerai
Di chi è il pane che stasera mangerai

Sui tamburi della propaganda
Il regime immola i suoi ideali
Tanto una bomba quando esplode
Fa gli uomini davvero tutti uguali
Fa gli uomini davvero tutti uguali

E in TV si accendono i roghi
Per il fiore della mia generazione
Ti ho aspettata una vita
Ma tu dov’eri sorella utopia?
Ma tu dov’eri sorella utopia?
Ma tu dov’eri sorella utopia?
Ma tu dov’eri sorella anarchia?

Le mani sempre più tese
E gli occhi schiusi fin dentro un’ideale
E il vento sui nostri ricordi
Sulle promesse
Sulle certezze
Sulle speranze
Di questo sogno che chiamiamo libertà

lunedì 9 giugno 2008

"Il fantasma di un angelo sulla scena del crimine"




Spesso John Hiatt ha affermato nelle sue interviste che Bob Dylan è stato il primo ad influenzare la sua musica e il suo modo di fare canzoni. Mi vien da dire, però, che non ricordo di aver mai sentito "molto" Dylan dentro le canzoni di John Hiatt. Fino ad ora, per lo meno. Fino a questo "Same Old Man", e alla sua ottava traccia. "Our Time".
La canzone è un piccolo gioiello cesellato di situazioni che costruiscono la trama dei fatti irrilevanti che costituiscono una storia d'amore, riaffioranti alla memoria senza quasi una logica. Di episodio in episodio. Saltando avanti e indietro. Prima risparmiando sui dettagli.
"Una domenica mattina a leggere i giornali in un loft a New York, e a mangiare a letto cibo cinese da asporto".
Poi riempiendo il rigo musicale di un eccesso di parole.
"Mi è tornato in mente di quando distribuivi soldi ai barboni su Bowery Street"
canta in un crescendo "Non senza prima esserti lasciata convincere che i soldi servivano per un panino e non per il vino".
Le parole si distendono e vengono compresse, e vanno a fluire come un "talking-blues" che diventa una triste e sommessa ninna-nanna.
"Mi sono svegliato, madido di sudore freddo, ed ho realizzato che non avremmo più cucinato un pasto, insieme".
La voce roca di Hiatt aggiunge un'ombra di dolce nostalgia, cullata dal violino di Jim Luther Dickinson. E John Hiatt sa bene quando arriva il momento di lasciare sola la voce del violino!
Senza esagerare, una canzone che vale un disco.

domenica 8 giugno 2008

Il Fumo Degli Anni '70



Un disco di ballate. E, anche, un disco gratis, da scaricare. Un disco di ballate belle, coinvolgenti e, per me, legate ad un periodo della mia vita che, in qualche modo, non passa, non riesce a passare, non passa mai e che, adesso, grazie a queste canzoni torna a bussare, con dolcezza.
A dire che quel che eravamo, siamo. Una manciata di ballate nato al "vicolo dei musici", a Roma. Ci sono stato più d'una volta, al "vicolo", e anche se queste me le sono perse, adesso - grazie al cielo - le ritrovo. Nostalgia e speranza, certo, ma anche "fortuna e gloria"!
Non sono, di solito, troppo prodigo di parole, ma stavolta mi viene ancora meno d'aggiungere altro, ché continuo ad ascoltarmele e riascoltarmele, queste canzoni.
Scaricatevele, ascoltatele, leggetene i testi e riascoltate le canzoni. Poi leggetevi la storia del disco, e tutto il resto, sugli autori, sulle canzoni. E poi, ogni tanto, tornate sul sito, ché magari potrà capitare di trovare qualche nuova "vecchia" gemma.


IL FUMO DEGLI ANNI '70
(testo e musica di Franco Fosca)

Il fumo degli anni 70 aveva lo stesso colore del mare
da solo nella mia stanza pensavo vorrei navigare
mi tormentavo i capelli che mio padre mi costringeva a tagliare
credevo in Jimi Hendrix e in un vecchio giradischi che funzionava male.

L’Italia a ferro e fuoco sull’orlo della guerra civile
le bombe di Savona le grandi manifestazioni
mio padre mi regalò una chitarra una sera d’aprile
io la presi in mano come se fosse un fucile.

In un giorno di primavera scappai da casa di mio padre
ingoiai una piramide dove vivevano le fate
insieme ad un amico con le braccia rovinate
mentre la grande madre luna schiudeva le porte della nostra estate.

E poi giù negli anni 70 l’autostop sulle strade,
piazze colorate, odore di donna
lunghe notti d’estate nudi quasi senza vergogna
notti d’inverno incantate sognando l’India e la California.

Centomila corpi magri sotto masse di capelli
umili come rettili audaci come uccelli
dalle bianche sabbie del sud alle bianche nebbie del nord
tra Marx e Castaneda e i fumetti di Alan Ford.

Però poi ti guardavi intorno e mancava sempre qualcuno
cadevano tutti quanti si ritiravano ad uno ad uno
sotto i colpi dell’eroina sotto i colpi della polizia
e chi risucchiato indietro nell’esofago enorme della borghesia.

Venne il ’77 che ne sapevamo noi del punk
c’era ancora Carter presidente la mitica Persia dello Shaa
e noi eravamo in Italia la dolce Italia delle vacanze
noi sporchi buttati per terra con le nostre chitarre e le nostre speranze.

Passarono dieci anni, dieci anni in un momento
come un castello di carte spazzato via dal vento
e c’è chi ha seppellito i sogni in fondo alla memoria
e c’è chi ha strappato quelle pagine dal libro della storia.

La mestizia della fine



Dino Risi (Milano 23 dicembre 1916 - Roma 7 Giugno 2008)

venerdì 6 giugno 2008

musica popolare



Sabato scorso, alla "Casa della Memoria" a Roma, organizzato dal "Circolo Gianni Bosio", c'era un pomeriggio dedicato a Woody Guthrie e la musica popolare americana, presente, oltre a Sandro Portelli e a Jorge Arevalo, direttore del " Woody Guthrie Archive" di New York, Nora Guthrie. La figlia di Woody ha dato una lezione magistrale su cosa sia "musica popolare", raccontando un aneddoto: durante un concerto del fratello Arlo insieme a Pete Seeger, per far cantare la platea, Arlo non ha trovato niente di meglio che incominciare a intonare la prima strofa di "I can't help falling in love with you". Poi, rivolto a Pete Seeger, ha chiesto se era in grado di andare avanti. E Seeger, prontamente, con un sorriso, è partito con la seconda strofa.


Non Posso Fare A Meno Di Innamorarmi Di Te
di George Weiss, Hugo Peretti e Luigi Creatore

Chi è saggio dice che solo uno scemo si butta senza pensare
Ma io non posso evitare di innamorarmi di te
Dovrei dire che è un peccato
Se non posso evitare di innamorarmi di te
Come un fiume che scorre
Verso il mare
Succede così
Ci sono cose che vogliono avverarsi
Cose che vogliono avverarsi

Prendi la mia mano (prendi la mia mano)
E prendi tutta la mia vita (anche la vita)
Perchè non posso fare a meno di innamorarmi di te

Gli uomini saggi dicono che solo gli stupidi fanno le cose senza pensare
Ma io, io non posso evitare di innamorarmi di te

Come un fiume che scorre
Verso il mare
Succede così
Ci sono cose che vogliono avverarsi
Cose che vogliono avverarsi

Come lo scorrere di un fiume
è così che funziona
Non posso evitare di innamorarmi di te (innamorarmi di te)
Come lo scorrere di un fiume (yea yea)
è così che funziona (perchè non ce la faccio)
Innamorarmi di te
Come lo scorrere di un fiume (non ce la faccio proprio)
é così che funziona
Non posso evitare di innamorarmi di te
Non posso evitare di innamorarmi di te

giovedì 5 giugno 2008

maledetti da dio



Non intendevo leggerlo, il libro di Alessandro Bertante, "Al Diavul" (Marsilio Editore). Non intendevo leggerlo per tutta una serie di motivi che hanno fatto sì che Bertante abbia finito per non starmi proprio simpatico, fra il suo pamphlet contro il '68 e le lodi sperticate all'ultimo romanzo del nazista Buttafuoco, la cui cifra stilistica, quando mi ci sono inopinatamente accostato, mi ha fatto a dir poco accapponare la pelle. Insomma, nonostante la trama per me intrigante, "Al Diavul" era un libro cui non intendevo dispormi. Poi, un articolo di Girolamo De Michele, di cui ho grande stima, che arruolava Bertante e questo suo ultimo libro nella schiera anti-stalinista, ha vanificato i miei propositi. E il libro l'ho letto. Devo dire che il "linguaggio nitido ed evocativo" non mi è riuscito di trovarlo, per quanto lo cercassi, in nessuna di almeno duecentoventi pagine di un romanzo di duecentoquaranta.
La prima parte del libro, e del novecento, trascorre avvolticciolata nella ragnatela di un periodare tanto infantile quanto inutilmente retorico. Dai primi anni del secolo, attraverso il piombo del fascismo e fino alla fuga e alla guerra civile spagnola, l'educazione politica dell'improbabile Errico si dispiega in tutta la sua noiosa potenza. Tutto sembra frutto di letture frettolose, se non fatte male. E fra gli innumerevoli sfondoni, è bene citare l'improbabile richiesta di aiuto al partito comunista a Torino, al fine di costituire un reparto di arditi del popolo nel paesello del protagonista. Poi, ahimé, si passa nella Spagna subito prima del 1936, dove vengo informato che l'insurrezione delle Asturie del 1934 avvenne nonostante il crumiraggio degli anarchici che "non mossero un dito. Rimasero a guardare il massacro dei minatori."(sic)
Uno scoop storico quasi degno di un Buttafuoco! Vabbé.
Poi si assiste all'irrestibile carriera del protagonista in attesa delle giornate del luglio 1936, dove si ritaglia un ruolo di protagonista. Oscuro, ma protagonista. Lui è l'uomo nella foto, quello che non sai mai chi è. Ma c'è in tutte le foto! La guerra civile è un po' come tutto il resto, un piatto entusiamo, o una entusiasta piattezza, dove a scandire il tempo è il numero delle volte che Errico fa l'amore con Marisol. Fino all'ultima, quella che segnerà la svolta nelle ultime venti pagine del libro, pagina più, pagina meno. E qui finalmente si cambia registro.
Morta Marisol, uccisa da un cecchino, il romantico protagonista si trasformerà in una sorta di macchina per uccidere. A capo di un manipolo di uomini, in disprezzo di quelli che sono gli ordini, questi "cinque maledetti da Dio" si ritroveranno quasi come se fossero in un libro di Sven Hassell ambientato durante la guerra civile spagnola, a seminare terrore e morte fra i falangisti, fino al tragico e inevitabile epilogo.
Eppure, queste quasi venti pagine (nelle ultime ci sarà l'erede, in pieno stile "Terra e Libertà", a raccogliere un ideale testimone) hanno forza e cifra stilistica e permettono di non rimpiangere l'acquisto.

mercoledì 4 giugno 2008

confusione



Sabato scorso, mi è capitato di assistere alla fine del "tributo a Fabrizio De André" che si svolgeva fuori della Factory Occupata, sulla Riva Ostiense a Roma. Quest'anno, le adesioni erano più "paludate" del solito e così, accanto ai misconosciuti Verbamanent, che sono riusciti a far ballare e saltare tutta la platea, sono saliti sul palco i soporiferi Tete de Bois e altri personaggi che, di questi tempi, quando si muovono riempiono i teatri, e non disdegnano il mezzo televisivo. Così ho potuto assistere ad una piccola performance di Ascanio Celestini che compensa le sue scarse capacità musicali con una lucidità politica invidiabile che, seppur non gli consente di essere il Gaber di questi anni, gli permette di calcare autorevolmente la scena, facendo dileguare gli insignificanti epigoni del "politicamente corretto"; quelli alla Paolini, per intenderci! Lo stesso discorso, ahimé, non può certo valere per chi, come Andrea Rivera, non riesce a mettere in scena che la sua propria pochezza. Banalità degne di un Jovanotti con il suo Che Guevara a San Patrignano. Tocca assistere alla proposizione di un "piano didattico" che richiede la lettura obbligatoria, nelle scuole, di una strana congrega che va da Rino Gaetano al fascista Marco Travaglio! Del resto, il triste scampanellatore di citofoni è ben avvezzo a simili commistioni. Sul suo myspace, si possono leggere i ringraziamenti a forcaioli come Beppe Grillo, a stalinisti come Sandro Curzi e a magistrati come Giancarlo Caselli. L'unica domanda è: come riesce un simile personaggio ad entrare in un centro sociale, a dire le sue idiozie e ad uscirne indenne? Sarà per via della sua statura inesistente, che impedisce di metterlo a fuoco?

Note di Copertina



Manca solo la copertina, al nuovo disco dei Del Sangre!
"Vox Populi" è liberamente scaricabile dal loro sito. Tutto intero, oppure canzone per canzone. Dieci pezzi. Due in meno, rispetto al progetto originale. Mancano "Iris e Silvio" e la cover di "Deportee" di Woody Guthrie. Peccato, però magari poi cambiano idea e ce le rimettono, le due canzoni! Vox Populi, dicevo. L'operazione è di tutto rispetto, e consiste nella rilettura di nove canzoni popolari dalla fine dell'ottocento in poi. Chiude il disco una canzone originale.
Le note di copertina, un'introduzione e una disamina, canzone per canzone, consultabili sul sito, sono mie. Luca mi ha chiesto a suo tempo di scriverle ed io ci ho provato.

Il canto popolare vive nelle sue varianti, e anche nelle sue interpretazioni e riscritture

Come lacrime che scivolano via, quasi di nascosto, e tradiscono l'emozione.
Così scorrono le canzoni che i Del Sangre hanno tradito in questo disco. Perfettamente.
Già, tradire la tradizione! E tradirla ancora meglio quando non è propriamente tradizione, come nel caso della canzone di Matteo Salvatore. Ancora, aggiungere delle strofe nuove di zecca, come quelle scritte da Luca per "Maremma, Maremma", a far meglio risaltare il testo. Ad impreziosirlo. E, di nuovo, tradirla in modo perfetto, scrivendo e cantando una "Canzone di resistenza", quasi la si fosse combattuta fino alla sera prima, la resistenza. Salvo per l'ultima strofa, a ricordare che sono passati sessant'anni e più da "Iris e Silvio", per "Iris e Silvio".
Non c'è verso. Per consegnarla e restituirla al nostro maledetto tempo, la tradizione va tradita!
Bisogna darle gambe e braccia, per camminare e per lottare.
Bisogna pomparle il sangue nelle vene, e l'aria nei polmoni.
Bisogna guardarla dritta negli occhi e tirarle via, dalla pancia, quello spillone che la vorrebbe tenere costretta, per sempre immobile e morta, imbalsamata.
Questo disco è un tentativo, riuscito.

MAREMMA (Toscana)

Tutti mi dicon Maremma, Maremma
e a me mi par una Maremma amara.
L'uccello che ci va perde la penna
io ci ho perduto una persona cara.
Sia maledetta Maremma, Maremma
sia maledetta Maremma e chi l'ama.
Sempre mi freme il cor quando ci vai
che ho paura che non torni mai.
Sia maledetta Maremma, Maremma
Sia maledetta Maremma e chi l'ama.

E' un canto toscano, "Maremma". Risale alla metà del diciannovesimo secolo e parla di dolore, di fatica e di terra infida. Parla della malaria, cui la Maremma è stata legata per secoli. Prima delle bonifiche, per l'esercito di lavoratori stagionali che, muovendo dai crinali appenninici, andava a vendere il proprio lavoro nei latifondi e nell'allevamento semibrado, poteva risolversi in una condanna a morte. Partivano e, per strada, incontravano altri disperati. Pastori, carbonari, cacciatori professionisti. Malpagati, angariati dai caporali, sfruttati dai dispensieri delle fattorie, malvisti dalla popolazione locale. Non aspettavano altro che tornarsene via. Lavoravano quattordici ore al giorno, per una lira.
In Maremma, vi era anche l'industria estrattiva. Come quella di Ribolla, Pozzo Camora, dove nel 1954, il 4 maggio, morirono 43 minatori a causa di un'esplosione di grisou. Miniere, miniere di carbone. Quanto c'è, sulla terra di più simile all'inferno. E' questa la Maremma cantata nella canzone.

ANCHE MIO PADRE (Lombardia)

Anche 'l mio padre
sempre me lo diceva
di star lontano
dalla miniera
ed io testardo
ci sono sempre andato
finché di una mina
mi ha rovinato
finché una mina
di quella galleria
mi ha rovinato
la vita mia
non c'è né medici
nemmeno professori
che fan guarire
quei giovan minatori
o santa Barbara
o santa Barberina
dei minatori
sei la regina.

Nell’emigrazione bergamasca e bresciana è ingente l'apporto di manodopera per le miniere, o nei lavori di traforo e costruzione di gallerie delle Alpi. Questo sia perché c’era un esubero di mano d’opera, sia perché in queste due province esisteva già una tradizione mineraria, dovuta alla presenza di minerali, sfruttati fin nell’antichità e quindi operai già esperti. La patrona protettrice dei minatori è Santa Barbara e questa è una delle tante versioni dell’inno dei minatori.
La vita in miniera è durissima, con situazioni ancora più dure rispetto ai secoli precedenti, quando il minerale veniva cavato stagionalmente , e c’era quindi la possibilità di scegliere i momenti migliori anche dal punto di vista climatico e ambientale.
Il traforo delle Alpi doveva esser fatto rispettando dei tempi, e quindi si procedeva a turni continuati estenuanti, inoltre la situazione igienica e sanitaria nei trafori era disastrosa, basti pensare alle patologie causate da un verme presente nel terreno, nelle rocce e nell’acqua nelle gallerie del traforo del S. Gottardo che furono più deleterie degli incidenti stessi.

PARTIRE, PARTIRÒ (Toscana)

Partire, partirò, partir bisogna,
dove comanderà nostro Sovrano,
chi prenderà la strada di Bologna,
e chi anderà a Parigi, e chi a Milano.
Se tal partenza, o cara,
ti sembra amara, non lacrimare,
vado alla guerra, spero di tornare.
Quando saremo giunti all'Abetone,
riposeremo la nostra bandiera,
e quando si udirà forte il cannone,
addio Gigina cara, bonasera.
Ah, che partenza amara,
Gigina cara, mi convien fare,
sono coscritto e mi convien marciare.
Di Francia e di Germania son venuti,
a prenderci per forza militare,
e allor quando ci sarem battuti,
molti, mia cara, speran di tornare.
Ah, che partenza amara,
gigina cara, Gigina bella,
di me non udrai forse più novella.

Canto toscano, sull'aria di "Maremma", risale all'epoca delle guerre napoleoniche, e nacque probabilmente quando l'Imperatore istituì la leva obbligatoria anche nelle terre italiane conquistate, sull'esempio di quel che era accaduto in Francia con la rivoluzione.
I versi, sembra siano stati scritti da Anton Francesco Menchi, nato nel 1762 a Cucciano, nella montagna pistoiese. Il Menchi fu il più celebre cantastorie e poeta popolare del suo tempo in Firenze. Racconta un contemporaneo, Giuseppe Arcangeli, che improvvisava nei giorni del marcato nella Piazza del Granduca (Piazza Signoria) e richiamava intorno a sé una gran folla di campagnoli, quando suonando il suo tamburello a sonagli faceva uscire come per incanto da una cassetta una faina addomesticata. Fu avverso alle idee rivoluzionarie che venivano dalla Francia, cantò gli orrori della novella Babilonia (la Rivoluzione), la morte di Luigi XVI e la cattura di Papa Pio VI. Contrariamente a certi suoi contemporanei che celebrarono le campagne e le vittorie di Napoleone, Menchi fu autore di un lungo canto in cui condannò aspramente le sue guerre “che fecero morire miglioni d’uomini” e infine ne celebrò la caduta.
Ripristinati i vecchi Governi li salutò con giubilo ma non ne chiese favori. Continuò come testimonia l’Arcangeli fino alla vecchiaia il suo mestiere di cantastorie giocando nei mercati con la sua faina e divertendo ancora tutti coloro che lo attorniavano.

30 GIORNI DI NAVE A VAPORE (Piemonte ? - Bellunese)

Trenta giorni di nave a vapore
fino in America noi siamo arrivati
fino in America noi siamo arrivati
abbiam trovato né paglia né fieno
abbiam dormito sul nudo e terreno
come le bestie abbiam riposà
E l'America l'è lunga e l'è larga
l'è circondata da monti e da piani
e con l'industria dei nostri italiani
abbiam formato paesi e città
e con l'industria dei nostri italiani
abbiam formato paesi e città.
Trenta giorni di macchina a vapore,
nella Merica ghe semo arrivati,
ma nella Merica che semo arrivati,
no' abbiamo trovato nè paglia nè fien.
E Merica, Merica, Merica, cossa saràla 'sta Merica?
Merica, Merica, Merica, in Merica voglio andar.
Abbiam dormito sul nudo terreno
come le bestie che va a riposar
E' la Merica l'è lunga, l'è larga,
circondata da fiumi e montagne,
e co' l'aiuto dei nostri italiani
abbiam formato paesi città.

La prima grande emigrazione di massa (1876-1900) parte dalle zone più povere dell’Italia del Nord-Est: Veneto, Friuli e soprattutto da tutta la zona alpina. In inverno molti contadini, non potendo trovare lavoro nelle campagne, partivano per il Sud America affrontando un viaggio di parecchi giorni con la nave a vapore. In Argentina e in Brasile venivano assunti come stagionali per la raccolta del caffè e per la mietitura. Non pochi finivano per stabilirsi definitivamente in questi paesi fondando colonie con lingua e cultura italiane. Questa canzone popolare, di quel secolo, esprime con molta semplicità gli stati d’animo di questa gente: il disagio dell'emigrante misto all'orgoglio per il contributo dato allo sviluppo di quel paese lontano.

IL CONTRABBANDIERE (Lombardia)

Guarda quella barchetta
come la va a vapore
c'è dentro il mio amore
che fa 'l contrabbandier.
Che fa 'l contrabbandiere
di polvere e di sangue
se il colpo gli va male
in galera gli tocca andar.
«In galera mi tocca andare
se il colpo mi va male
se il colpo mi va male
mi tocca morire in prigion.
A stare qui in prigione
tutta la settimana
per mí l'è una condanna
a stare qui in prigion».

Se è vero che il contrabbando ha origini plurisecolari, è dall’autunno del 1943 fino al primo dopoguerra che, nella zona di Como, come in tutte le valli della sponda occidentale del lago, nell’Ossola, nel Vallese, in Valtellina etc., assume una tale diffusione in ampi strati della popolazione fino ad essere praticato e percepito come un vero e proprio lavoro.
Gli abitanti delle montagne vicino al confine, abituati a guadagnarsi da vivere a prezzo di grandi fatiche, non riuscivano a capire perché fosse proibito acquistare della merce dove costava meno e rivenderla dove il prezzo era più alto, indifferentemente dal fatto che da un versante all’altro della montagna cambiasse il potere politico, ugualmente lontano dalla propria vita quotidiana. Il guadagno era di pochi spicci, quelli indispensabili al bilancio familiare; l’alternativa era l’indigenza e l’emigrazione.

DONNA LOMBARDA (Lombardia)

O donna donna, donna lombarda
se vuoi venire al ballo con me.
O donna, donna, donna lombarda
Se vuoi venire al ballo con me.
Si, si che al ballo lo vegnerla
ma ho paura del mio marì.
Si, si che al ballo lo vegnerla
ma ho paura del mio marì.
Quel tuo marito l'è vecchio e brutto
farem di tutto per farlo morir.
Quel tuo marito l'è vecchio e brutto
farem di tutto per farlo morir.
Prendi il bicchiere scendi in cantina
riempilo di vino poi mettici il velen.
Prendi il bicchiere scendi in cantina
riempilo di vino poi mettici il velen.

"Donna Lombarda" è forse la ballata più diffusa in Italia. Il canto ha origine antica e numerosissime varianti regionali e narra la storia di una moglie che, spinta dal proprio amante, cerca di avvelenare il marito. Il testo, di probabile origine medioevale, ha mantenuto nel tempo una sorta di "attualità" aderente allo stereotipo popolare della donna infedele, ingannatrice e crudele. Viene fatta risalire dagli studiosi di musica popolare all'epoca dei Longobardi, quindi questa è una canzone che dovrebbe avere più o meno mille anni.
E' la storia di un Re, di una mamma, di un papà e di un bimbo di tre mesi che per miracolo comincia a parlare.
Magari è arrivata qui insieme ai trovatori che stavano nel castello dei Malaspina ad Oramala, sulle montagne della provincia di Pavia. Nel medioevo questo castello era il ritrovo dei più bravi trovatori che venivano da tutta Europa per cantare le loro storie.

IL TRENO DELLA DISPERAZIONE (Sicilia)

Guardati chistu trenu cum'è nivuru
oi cum'è nivuru
è lu trenu d'a disperaziuni
è lu trenu d'a disperaziuni.
Chianciti forti mugghieri, mammi chianciti,
oi mammi chianciti,
l'omini vosta aviti da lassari
l'omini vosta aviti da lassari.
Pi putiri sfamari 'sti piccirilli
oi 'sti piccirilli
inn'amu iri luntanu assai
ninn'amu iri luntanu assai.
'A terra nostra amu da lassari,
oi amu lassari
pi' vinti franchi di 'sti corvi nivuri
pi' vinti franchi di 'sti corvi nivuri.
Là subba dintu u' Nordu amu pagari,
oi amu pagari
cu la vita nu tuozzo di pani
cu la vita nu tuozzo di pani.
Lavuratura ca jittati 'u sangu
ca jittati 'u sangu
pi anni e anni 'nta na terra luntana
pi anni e anni 'nta na terra luntana
lu jurnu ca turnati s'avvicina
oi, s'avvicina
pi nun partiri chiù d'a terra nostra
pi nun partiri chiù d'a terra nostra.

Traduzione
Guardate questo treno come è nero oh com è nero, è il treno della disperazione è il treno della disperazione. Piangete forte mogli, mamme piangete oh mamme piangete i vostri uomini dovete lasciare i vostri uomini dovete lasciare. Per poter sfamare questi bambini oh questi bambini ce ne dobbiamo andare molto lontano ce ne dobbiamo andare molto lontano. La terra nostra dobbiamo lasciare oh dobbiamo lasciare per venti franchi dati da questi corvi neri per venti franchi dati da questi corvi neri. Lassopra dentro al nord dobbiamo pagare, oh dobbiamo pagare con la vita un tozzo di pane con la vita un tozzo di pane. Lavoratori che sputate sangue che sputate sangue per anni e anni in una terra lontana per anni e anni in una terra lontana il giorno che tornate si avvicina oh s'avvicina per non partire più dalla terra nostra per non partire più dalla terra nostra.

Negli anni dopo il 1920, le leggi americane che limitavano l'afflusso di stranieri e le leggi fasciste sull'abbandono delle campagne soffocarono in grandissima parte l'emigrazione come valvola di sfogo alla disoccupazione. E' solo nel secondo dopoguerra che riprende in misura apprezzabile il flusso migratorio. Le linee di movimento principali però, sono diverse: la direzione è il Nord, al di là delle Alpi o verso i centri industriali di Torino e Milano, e le dimensioni dell'esodo crescono in proporzione allo sviluppo industriale. Tra la fine degli anni '50 e l'inizio degli anni '60, circa 2 milioni di persone si sono mosse verso il Nord: il simbolo di questo viaggio è il treno, cupo ed estraneo traghetto da una terra di colori ad una città di nebbie e cemento armato.
La produzione di canti sull'emigrazione di questi anni è molto diversa dalla precedente: nella quasi totalità è riferibile ad un autore determinato, talvolta è poesia colta ma spesso, e forse è l'aspetto più interessante, è opera di lavoratori emigrati che della canzone si servono per far conoscere la loro realtà in un ambito più vasto dei soli compaesani e quindi scrivono in italiano oltre che in dialetto. I temi rispecchiano il mutamento avvenuto nei modi di vita e nella coscienza della gente del Sud; le possibilità di comunicazione sono enormemente più ampie, dal Nord arrivano le notizie della vita degli emigrati, e sono notizie tristi che parlano di odi razziali, di doveri senza diritti, di omicidi bianchi: il Nord è solo un'amara necessità, non diventa mai, neppur per un attimo, un mito. Rimangono in questi canti gli accenti di tristezza per il distacco dalla terra natale, ma si guarda con maggior senso critico la propria o altrui storia di emigrati: non è più il destino, impersonale e incolpevole, che muove le folle da una terra di miseria alla terra promessa, né la sofferenza immanente alla nascita' del contadino meridionale povero che lo accompagna nella solitudine in un Paese straniero o nella morte sul lavoro, ma è storia degli uomini, e a causa di uomini.

AMORE MIO, NON PIANGERE (Emilia Romagna)

Amore mio non piangere
se me ne vado via.
Io lascio la risaia
ritorno a casa mia.
Ragazzo mio non piangere
se me ne vo lontano.
Ti scriverò una lettera
per dirti che ti amo.
Vedo laggiù fra gli alberi
la bianca mia casetta.
Vedo laggiù sull'uscio
la mamma che m'aspetta.
Mamma, papà non piangere
se sono consumata
è stata la risaia
che mi ha rovinata.
è stata la risaia
che mi ha rovinata.

Canto delle mondine dell'Emilia Romagna. Fino a non moltissimi anni fa, le risaie della pianura padana erano diserbate a mano dalle mondine che passavano le giornate curve sotto il sole, con i piedi e le mani nell'acqua. I disagi e le speranze di queste donne erano testimoniate da un vasto repertorio di canti di lavoro, con cui esse cercavano di alleviare la fatica. In questo canto, una mondina saluta il fidanzato conosciuto durante i duri mesi di lavoro in risaia e annuncia il ritorno a casa. Da alcuni elementi del testo risulta che questa mondina era giovane: nelle risaie, infatti, venivano occupate in prevalenza donne in giovane età, perchè più forti e resistenti alla fatica.

PADRONE MIO (Matteo Salvatore)

Padrone mio, te vojo arrecchire,
padrone mio, te vojo arrecchire,
come nu cane i vo fatijà,
come nu cane i vo fatijà .
Quando sbajo damme li botte,
vojo la morte, nun me caccià .
Tengo tre fiji, vojono lu pane,
chi ci lu dà a lu tatà


Per comprendere appieno l'ironia che vira al sarcasmo (che poi nasce dall'ironia ferita) di questo "canto popolare" bisogna conoscere la storia dell'autore della canzone stessa. Matteo Salvatore. Nasce nel 1925 ad Apricena, paese sulla linea di confine fra i Gargano e il tavoliere delle Puglie. Un'infanzia poverissima. Il padre facchino, la madre "camuffata da mutilata" che va a chiedere l'elemosina a Poggio Imperiale. Matteo fa il garzone di cantina, per otto lire l'anno! La sorella di quattro anni, nel frattempo, muore per denutrizione. Quando è più grande, fra i sette e i nove anni, la mattina, all'alba, è nella piazza del paese per essere venduto, come gli altri braccianti! L'incontro col maestro Pizzicoli (cieco, suonatore di chitarra, mandolino e violino, "portatore di serenate"), da cui in tre anni imparerà a suonare alla perfezione, gli cambierà la vita terribile che lo aspetta. Emigra a Roma: ci mette un mese per arrivarci, saltando da un carretto all'altro. Va' a vivere in una baracca, la sera canta canzoni napoletane ai tavoli di "Gigetto er Pescatore", ai Parioli. Qui lo nota il regista Giuseppe De Santis che gli commissiona di registrare in Puglia canzoni popolari per un film ("Uomini e lupi", con Yves Montand).
Matteo Salvatore compone quattro ballate, poi telefona a De Santis e gliele spaccia per canzoni popolari. Poi, a Trastevere, viene scoperto da Claudio Villa. Comincia il successo, e la guerra con i discografici. Sospetta che vogliono imbrogliarlo e derubarlo. E allora li imbroglia lui, per primo. Consegna le stesse incisioni, in esclusiva, a più etichette. Viene anche scoperto dagli intellettuali, Italo Calvino in primis. Nel 1968 parteciperà addirittura al Cantagiro. Paradossalmente, le sue "canzoni popolari finiranno per rappresentare un nucleo della tradizione italiana, ma rimarranno sconosciute alla più parte dei pugliesi. Muore nell'agosto del 2005. Ecco, saputo questo, leggetelo ora il testo della canzone!

DEPORTEE (Words: Woody Guthrie - Music: Martin Hoffman)

La raccolta è terminata e le pesche stanno già marcendo
Le arance sonostipate nei loro depositi sotto conservante
Tanno per essere riportati in aereo oltre il confine col Messico
Dove spenderanno di nuovo tutti i loro soldi per poterlo riattraversare
Addio Juan addio Rosalita
Addio amici miei Jesus e Maria
Sarete privati perfino dei vostri nomi quando salirete sull'aereo
vi chiameranno soltanto deportati
Mio nonno, lui guadò a fatica il il fiume
Gli portarono via i risparmi di tutta una vita
I miei fratelli e le mie sorelle arrivarono per lavoravare nei frutteti
Continuarono a tirare la carretta finché non caddero e morirono
Alcuni di noi vengono chiamati clandestini altri indesiderati
Il nostro contratto di lavoro è scaduto e ce ne dobbiamo andare
Seicento miglia fino al confine messicano
Ci danno la caccia come se fossimo banditi, fuorilegge, ladri
Siamo morti sulle vostre colline, morti nei vostri deserti
Siamo morti nelle vostre valli, morti nelle vostre pianure
Siamo morti ai piedi dei vostri alberi, morti nelle vostre foreste
Lungo le due sponde del fiume, siamo morti alla stessa maniera
Il motore dell'areeo si incendiò sopra il canyon di los gatos
Balenò come una meteora e fece tremare le colline
Chi sono tutti questi amici, sparsi tutt'intorno come foglie secche?
La radio ha detto che erano solo dei deportati
E' questo il modo migliore di coltivare i nostri orti?
E' questo il modo migliore di coltivare i nostri frutteti?
Cadere come foglie secche per concimare il terreno?
E non essere chiamati con nessun nome eccetto deportati?
Addio Juan addio Rosalita
Addio amici miei Jesus e Maria
Sarete privati perfino dei vostri nomi quando salirete sull'aereo
Vi chiameranno soltanto deportati

Arriviamo con la polvere e ce ne andiamo via col vento

Il 28 gennaio del 1948, in un incidente aereo in California, vicino al confine con il Messico, persero la vita 28 "deportati" ovvero 28 lavoratori messicani che stavano per essere forzatamente rimpatriati.
Il loro permesso di soggiorno era scaduto, insieme col contratto di lavoro, pertanto venivano rispediti in Messico da dove avrebbero cercato con ogni mezzo di tornare negli States. Era questa la vita dei lavoratori stagionali, impiegati soprattutto nella raccolta della frutta, nei campi della ricca California. Il giorno dell'incidente aereo la radio locale diede subito la notizia precisando che erano morti "soltanto" dei deportati.
Woody Guthrie scrisse il testo di questa canzone, che fu poi musicata, dieci anni dopo, da Martin Hoffman, e cantata per la prima volta da Pete Seeger nel 1958.
La canzone, forse l'ultima di Woody, non nasce solo da una notizia di cronaca sentita alla radio, o da un titolo di giornale. Nasce, soprattutto, dalla comunanza e dalla sintonia con chi subisce la sciagura. Rimanendone attonito, colpito, messo a terra. Nasce dal condividere le apirazioni e le frustrazioni e i sogni. Espressioni e linguaggio. In una parola, voce per chi voce non ha.

Iris e Silvio ( Luca Mirti)

Era il sale che bruciava
sopra i tagli con violenza,
erano lacrime di luna
dal cielo di Faenza,
erano un uomo ed una donna
pendenti da un lampione,
era il tributo di sangue
alla più bella storia d'amore.
Nell'inverno di Tredozio
quando Dio ballava il sole,
lui la vide, era il cuore
di coraggio e la passione
era Iris biancofiore,
forza di liberazione,
lui era Silvio il ribelle,
comandante, uomo d'onore.
Con la voce dei fucili
che parlava giorno e notte,
era il fuoco, era il coltello
era il destino tirato a sorte.
Comandava i suoi fedeli
col coraggio e l'incoscienza
Corbari l'imprendibile,
Corbari il re di Faenza.
Era fredda, era decisa
con in mano una pistola,
quanto dolce, quanto bella
come un bacio che ti sfiora,
Fianco a fianco, cuore a cuore
fino all'ultimo respiro,
guardavan sempre avanti
immaginando il futuro.
Era il giorno del castigo
quando Giuda tornò al mondo,
lo cercarono di notte
per saldare ogni suo conto.
Ma reagì con quella rabbia
di chi vuol farla finita,
difendendo il sogno
e la compagna ferita.
Fu così che per amore
lei si tolse anche la vita,
per aprire al Comandante
una nuova via d'uscita,
e sul loro ultimo bacio
che si chiuse la partita,
ed il silenzio cadde
con uno schiocco di dita.
Sessant'anni sono andati
ma il ricordo è ancora là ,
di due amanti combattenti
morti per la libertà .
Ma qualcuno a Modigliana
per il venticinque aprile
giura di averli visti
di notte ballare e sparire.

Una canzone ... tanto dolce e tanto bella, come un bacio che ti sfiora.

Ha fatto bene Luca a scrivere una canzone su Silvio Corbari! E ha fatto bene a scriverla come una canzone d'amore. E mi fa bene all'anima sentirgliela cantare ogni volta che posso. Questa è stata la seconda volta, per me. Anche se l'aspettavo da tanto tempo, una canzone così. Già, una canzone su Corbari, un altro di quei partigiani, come il comandante Facio cantato da Davide Giromini, presumibilmente tradito e consegnato ai fascisti dai comunisti!
Una storia d'amore, dicevo. Una storia d'amore consumata sul letto sontuoso di una rivoluzione. Finita male. La storia d'amore, e la rivoluzione. Tutte le grandi storie d'amore finiscono male, chiosava Tronti a proposito del libro di memorie della Rossanda, solo le piccole vicende durano per sempre, trascinandosi.
I due amanti partigiani appesi ad un lampione, in una piazza. Iris già morta: si era ammazzata per far sì che Corbari non si attardasse a cercare di soccorrere lei ferita. Inutilmente. Era arrivato in fondo alla sua strada, quel Corbari che, da ragazzo, aveva segato e portato via il ciliegio di un contadino che aveva picchiato dei ragazzini del borgo, colpevoli di aver preso delle ciliegie da quell'albero.
Corbari, bollato come anarcoide, politicamente inaffidabile, non accettò mai il commissario politico nella sua banda. Curbara meritava una canzone come questa. Una canzone come una ballata western. Una canzone come fosse una canzone per Billy the kid, per Butch Cassidy. Una canzone d'amore. Per amore. Una canzone alla salute di Iris e di Silvio. Sarebbe piaciuta anche a Tonino Spazzoli e ad Adriano Casadei.

UN MOMENTO PER TUTTO (Luca Mirti)

C'E' UN MOMENTO PER PARLARE ED UN ALTRO PER TACERE
C'E' UN MOMENTO PER BRINDARE ED ALZARE SU IL BICCHIERE
C'E' IL MOMENTO DEL CORAGGIO DOVE NON HAI PIU' PAURA
E C'E' IL MOMENTO IN CUI SEI SOLO E CAPISCI QUANT'E' DURA

C'E' IL MOMENTO DI RISCHIARE CHE TI GIOCHERESTI IL CIELO
C'E' IL MOMENTO DI MOLLARE CHE LE CARTE SONO A ZERO
C'E' UN MOMENTO PER AMARE ED UN ALTRO PER ODIARE
C'E' IL MOMENTO DI COLPIRE E IL MOMENTO DI INCASSARE

C'E' IL MOMENTO DI PESTARE PER RAGGIUNGERE LA CIMA
C'E' IL MOMENTO IN CUI RALLENTI CHE HAI FINITO LA BENZINA
C'E' IL MOMENTO DI SEDERE E FERMARSI UN PO' A PENSARE
E C'E' IL MOMENTO DI RIALZARSI E RIPRENDERE A BALLARE

C'E' IL MOMENTO DI INCAZZARSI CON IL CIELO E CON L'INFERNO
C'E' IL MOMENTO DEI RICORDI PERCHE' ARRIVERA' L'INVERNO
C'E' IL MOMENTO DELLA NEVE E DEL FUOCO SOTTO I PIEDI
C'E' IL MOMENTO DI ELARGIRE PIU' DI QUANTO TU NON CHIEDI

C'E' IL MOMENTO DELLA GIOIA E IL MOMENTO DEL DOLORE
C'E' IL MOMENTO DELLA MORTE DOVE NIENTE HA PIU' COLORE
C'E' IL MOMENTO DI REAGIRE E RIMETTI I PEZZI ASSIEME
C'E' IL MOMENTO DELLA PIOGGIA CHE SI SDRAIA SUL TUO SEME

C'E' IL MOMENTO DEL CONFRONTO E IL MOMENTO DELLA SFIDA
C'E' IL MOMENTO DELLA LEGGE CHE TI SOFFOCA LE GRIDA
C'E' IL MOMENTO DEGLI AFFETTI E IL MOMENTO DELLO STRAPPO
C'E' UN MOMENTO PIU' CORROTTO ED UN ALTRO ANCORA INTATTO

C'E' UN MOMENTO PER LA GUERRA E UN MOMENTO PER LA PACE
C'E' IL MOMENTO DI INGOIARE ANCHE CIO' CHE NON TI PIACE
C'E' IL MOMENTO DELLA FAME E IL MOMENTO DI MANGIARE
C'E' UN MOMENTO PER DIPINGERE ED UN ALTRO PER SPARARE

C'E' UN MOMENTO DI BESTEMMIE ED UN ALTRO DI PREGHIERE
C'E' UN MOMENTO DI FORTUNA ED UN ALTRO DI MESTIERE
C'E' UN MOMENTO DOVE IL MARCHIO TE LO PORTI PER LA VITA
C'E' IL MOMENTO IN CUI CI CREDI FINCHE' DURA LA PARTITA

C'E' IL MOMENTO DELL'INIZIO E IL MOMENTO DELLA FINE
C'E' IL MOMENTO DELLE ROSE E IL MOMENTO DELLE SPINE
C'E IL MOMENTO DEGLI INCONTRI E IL MOMENTO DEI SALUTI
C'E' UN MOMENTO PER I MITI ANCHE QUELLI PIU' VISSUTI

C'E' IL MOMENTO DELLE ACCUSE E IL MOMENTO DEL PERDONO
C'E' IL MOMENTO CHE DECIDE SE SEI DIVENTATO UN UOMO
C'E' IL MOMENTO IN CUI TI AGGRAPPI A UNA MANO UN PO' PIU' FORTE
C'E' UN MOMENTO PER I DADI CHE DECIDONO LA SORTE

C'E' UN MOMENTO PER ENTRARE E UN MOMENTO PER USCIRE
C'E' UN MOMENTO PER FREGARSENE ED UN ALTRO PER CAPIRE
C'E' UN MOMENTO CHE TI CHIAMA CON IL NOME DI TUO PADRE
C'E' UN MOMENTO PER PARTIRE ED UN ALTRO PER TORNARE

Dedicata a Paolo Mozzicafreddo, batterista dei Gang

martedì 3 giugno 2008

radio GAP



Non sapevo che il libro fosse accompagnato da un DVD. Il libro è uscito per Derive Approdi, "La banda 22 ottobre" di Paolo Piano, ed ho cominciato a leggerlo. Il DVD, "Tre della ventidue" di Stefano Barabino e Andrea Teglio, l'ho già visto. Una sorta di monologo a tre voci, quelle di Gino Piccardo, Mario Rossi e Beppe Battaglia, riesce a tessere la trama di una storia, con i suoi errori e con la sua generosità e con le sue anime. Le diverse anime, quella sotto-proletaria di Piccardo, avvezzo alla galera e ai codici che la governano, quella di Rossi, politico e naturalista-autodidatta e quella di Battaglia la più lucida, anche dopo tutti questi anni. Gli occhi scuri di un meridionale immigrato vedevano più chiaro.
Vale la pena ascoltarne le voci, osservarne gli sguardi, di queste tre persone che per tutti questi anni, decenni, non hanno mai indugiato ad un'intervista. Non hanno mai emesso un lamento. Neppure un libro. Non hanno mai fornito alcun tipo di pentimento. Una sorta di silenzio eloquente, fino ad ora, quasi un controcanto a chi spesso sente il bisogno quasi di giustificarsi, se non di scusarsi.
La storia, nel libro, viene ricostruita passo per passo ed è corredata di tutta una serie di documenti che meglio aiutano a comprendere le ragioni della lotta armata, a partire dai suoi albori.
Una nota curiosa. Viene riportato nel libro, la storia della messinscena di una rappresentazione teatrale, "Homo sine pecunia, imago mortis est" (il titolo riprendeva una frase del cardinale Siri). La storia si basava sulla vicenda della rapina allo Iacp e su Mario Rossi. Messa insieme su due piedi, sulla base di un canovaccio scritto dagli occupanti dell'Università in cui venne rappresentata durante la notte di natale.
Claudio Flamigni, militante del Potere Operaio genovese, recitava la parte di un proletario sorpreso dal sacrestano mentre rubava in chiesa due candelabri proprio durante la notte di natale. Durante la colluttazione che ne seguiva, il sacrestano rimaneva ucciso, mentre il proletario veniva arrestato. Il resto della rappresentazione consisteva del processo. Il pm era il cardinale Siri (recitato da un austero e contegnoso Gianfranco Faina), della corte facevano parte anche Paolo VI, Andreotti, Sossi e Agnelli. Nell'aula si aggirava, strusciandosi addosso ai magistrati per tutto il tempo, addirittura Dio in persona (uno studente savonese dal volto ieratico in tuta bianca con sopra ricamata la solenne scritta e che armeggiava - mezzo teppista e mezzo profeta - con una mazza da golf ed una croce) a significare l'immanenza eterna del capitale. Gli avvocati difensori erano: Raimondo Ricci (il noto avvocato del PCI che nella realtà aveva rifiutato di difendere Rossi) recitato da Franco Carlini che ammetteva la colpevolezza del balordo criminale, ne deplorava l'immoralità e si appellava alla clemenza della corte. Nel frattempo Franco Carlini del Manifesto (interpretato da Nando Fasce) descriveva i fatti in termini di provocazione poliziesca e si esibiva in sofismi dietrologici a partire dall'interrogativo di "A chi giova?". Tutot quanto giovava alla reazione e allora il proletario doveva essere assolto perché era una povera marionetta dei servizi segreti. Renato Pastorino di Lotta Comunista (interpretato da Giorgio Moroni) leninisticamente non si lasciava distrarre da quell'evento di strada e riportava il dibattito sulla coscienza di classe di cui questo proletario era totalmente sprovvisto. Oreste Scalzone (interpretato da Luigi Grasso) rivendicava infine l'azione del proletariato come più alta forma di insubordinazione possibile e inneggiava alla comparsa di un nuovo soggetto rivoluzionario.
Alla fine, il proletario veniva impietosamente condannato a lavorare per tutta la vita alla Fiat.

Insomma, per dirla con le parole con cui Mario Rossi chiude la sua intervista sul DVD:
"E' stata una bella esperienza"!