venerdì 28 novembre 2008

fascismo e/è ignoranza



La notizia è fresca. Alla "Sapienza" di Roma, gli studenti hanno interrotto l'inaugurazione che si svolgeva nell'aula magna. Il rettore, Frati, contrariato, sembra che abbia dichiarato, fra le altre cose:
«Ho detto fascisti agli studenti che hanno fatto il blitz, perchè per me fascista è uno che non fa parlare gli altri. Ed è un termine, questo, che posso dire di usare a ragion veduta, visto che mio padre era un partigiano»
Certo che è triste dover constatare che il suddetto Frati ("rettore? ma mi faccia il piacere" - avrebbe detto Totò) ignori che, al contrario di quanto ha inopinatamente dichiarato, il fascismo non è "impedire di parlare", ma, anzi, è proprio "costringere a dire".
Certo rimane il sospetto che quanto ha aggiunto, a proposito del "padre partigiano" che lo autorizzerebbe a parlare di fascismo a ragion veduta (e perché mai, poi!?), sia dettato dal fatto che, forse, il padre fosse solito zittire il figlio che parlava sempre troppo, e a sproposito.
E la cosa è stata da lui confusa con il fascismo.

Il Viaggio della Letteratura



"Niente è più incerto del destino dei racconti di viaggio. Non c’è un’altra forma di produzione letteraria che dia un maggiore spunto alle critiche. Scrivere un libro di viaggi significa mettersi in balìa dei propri detrattori. L’autore di un’opera di divulgazione scientifica è in una posizione migliore, poiché il soggetto di cui tratta è in realtà straordinario in sé, ed è per questa ragione che un certo numero di intellettuali finisce per assimilarlo in modo febbrile, o per lo meno per accettarlo pedissequamente, per tirare infine delle conclusioni che appagano il proprio senso di meraviglia.
L’autore di un’opera d’immaginazione non cessa d’inventare a suo piacimento, e la verità che porta in sé, mascherata com’è sotto infiniti accorgimenti, che vanno dalla cappa d’oro fino agli abiti di stracci, rimane fuori della portata della critica. Dal momento che rispetta grammatica e punteggiatura, per lo scrittore di letteratura fantastica il lavoro è già a buon punto.
Resta la metafisica, che ha il compito primario di propinare una dose di sostanza tossica a coloro che seduce, in modo da abbreviare la durata dell’esistenza che ci è dato di vivere in questa valle di lacrime. Per quanto li riguarda, l’immaginazione li spinge ad esplorare più o meno a fondo questa valle di lacrime.
Pertanto, il viaggiatore è un personaggio che invidiamo per svariate ragioni. E’ infatti una sorta di emulazione per l’inclinazione naturale che lo spinge ad agire, per il coraggio che lo sostiene. Lo ammiriamo per quello che è: ossia lo spettatore immutabile d’una commedia il cui splendore e la cui varietà sono quasi insostenibili, ma le cui scene di movimento non gli sono suggerite se non in via allusiva, in assenza di primi ruoli, ossia in mancanza di una partecipazione diretta agli avvenimenti. Dicevamo che si prova una sorta d’invidia, perché egli sa che, durante mesi e mesi, non calerà mai il sipario, e che dovrà giocare da cima a fondo il ruolo d’un instancabile testimone visivo, osservare quindi i tratti e le attività dell’umano in scene di volta in volta colorite, laide, selvagge, e questo oltre ogni prospettiva, se così si può dire, rientrando poi in sé per ritrovare subito il proprio letto. Immaginiamo un appassionato di teatro e di rappresentazioni sceniche che sia imbarazzato di sdraiarsi nel proprio palco, giorno dopo giorno, e di aprire gli occhi a ciascun risveglio su un’eterna rappresentazione.
Il gusto nel realizzare tutto questo può sembrare degno d’invidia e rivela un’attitudine alla resistenza mentale e fisica, poiché la posta non consiste solo nel sostenere la prova dell’apparenza delle cose, ma nel vincere la propria debolezza fisica. Ed è senz’altro per questo motivo che gli Arabi, per natura appassionati di meraviglie e quindi grandi viaggiatori, hanno inventato il proverbio che potrebbe servire da epigrafe nel nostro caso: “Viaggiare è come vincere”.
Ai nostri giorni, molti sono i viaggiatori che percorrono il globo. Un genere come un altro di vittoria, appunto, che è divenuto in certo qual modo di moda, e di cui potersi vantare negli anni successivi alla costruzione dello stretto di Suez. Una folla, quindi, si è sparsa lungo questa stretta imboccatura, con lo spirito vergine e con le pagine del carnet di note vergini da mettere giù, e purtroppo concepite per raccogliere sotto forma di “Impressioni” di viaggio questa sorta di megalomania di cui soffriamo tutti per diversi gradi. La grande varietà di questi innumerevoli racconti di viaggio, di cui il canale di Suez è responsabile, ha assunto le proporzioni di un’enorme e persistente buffonata (…).
Tra quelli che hanno dedicato i loro taccuini di viaggio a un papa o ad un imperatore, un personaggio si erge in tutta la sua grandezza; è Marco Polo. Il suo talento nella narrazione meticolosa, la sua credulità che si tinge di circospezione, lo sguardo che indugia sui fatti denotano in lui soprattutto delle inclinazioni di storico più che un temperamento di viaggiatore. Marco Polo non ha portato ai lettori della sua epoca meno di quanto essi si attendessero: dei fatti storici appunto in un’atmosfera d’esotismo e di sontuosità. Ma la stagione dei suoi libri di viaggio è oramai trascorsa su questa terra bardata di fili elettrici, e la cui atmosfera oramai è percorsa dalle onde che si propagano nell’etere, e rischiarata dal sole del ventesimo secolo, sotto il quale non esiste più niente di nuovo, ed in cui oramai ben poco può essere definito come oscuro. (…)
L’universo degli uomini che avevano esplorato, scoperto, appunto il cosmo di questi eroi della mia infanzia s’è ridotto pressoché a niente nel corso del secolo XIX. Alcuni sono gli autori dei nostri grandi classici di viaggio, e gli anni che passano mai attenueranno l’ammirazione che porto allo spirito disinteressato, allo zelo col quale questi uomini hanno assolto il loro compito, da solitari o accompagnati da alcuni disperati come loro, e perseverando durante giorni e giorni, con la morte alle calcagna, conservando lo spirito sereno e l’atteggiamento risoluto.
E gli avventurieri? Quelli che ritroviamo in diversi luoghi ben conosciuti, ma che pure non finiscono di sorprenderci – spesso sbracati, prostrati, perfino sofferenti, ma esaltati dall’avventura – talvolta negli angoli più inattesi, la bocca piena di racconti, che sono talvolta d’una totale piattezza, altre volte di una vena comica sotto la quale si scoprono le lacrime, intercalati qua e là da una storia che vi gelerebbe il sangue se non foste di quelli che sanno sorridere al momento opportuno. Di quei tipi ne farei volentieri dei membri onorari di una tribù d’intoccabili, se questo termine non sfiorasse l’ingiuria. Niente di calunnioso tuttavia quando si tratta di persone capaci di lanciarsi nell’avventura con nessun’arma nelle mani e ben poco denaro nelle tasche. (…)
A mano a mano che i misteri del nostro pianeta si sono dissipati, la nostra curiosità ha cambiato di tono, s’è fatta più sottile. Questo viaggiatore moderno che vediamo sdraiato sulla veranda durante una gita turistica, questo viaggiatore che viene ad assistere ad una manifestazione celebrata in gran pompa, sotto lo squillo delle fanfare, in mezzo a una folla adornata di mille colori, fa trapelare dal proprio interno qualcosa che rassomiglia vagamente alla buona volontà, ma alquanto distaccata e annoiata al pensiero di occuparsi dei vaniloqui sull’avvenire delle nazioni. E tutto questo, non certo con lo spirito di un uomo di Stato alla ricerca della verità in politica, ma con la coscienza dubitativa di un viaggiatore dei nostri tempi che, alla sola vista dei confini dell’Asia, s’interroga sull’ultima verità dei viaggi sulla nostra terra."

Joseph Conrad

giovedì 27 novembre 2008

Confusioni

stanlioeonlio.jpg

Mesi fa, un piccolo gruppo trotzkista francese, il CRI, che si era già fatto notare, nei primi mesi d'estate, per essere stato escluso dai comitati NPA ("Nuovo Partito Anti-capitalista", trotzkista), ha dichiarato su una mailing list sull'Afghanistan: "Anche se la resistenza del popolo afghano contro le truppe imperialiste è diretta da nemici dei lavoratori (i talebani), noi sosteniamo incondizionatamente la resistenza."
Vi si riconosce, ancora una volta, una logica fin troppo nota per cui i nemici dei miei nemici sarebbero miei amici; i lavoratori non sono in grado di organizzare autonomamente un terzo fronte, così, di volta in volta, abbiamo il sostegno del Kuomintang, l'Unione Sovietica o gli ayatollah. Tutte scelte anti-operaie che hanno sempre portato al tradimento, alla burocrazia o alla reazione, a seconda delle circostanze.
Per coincidenza, un blog in lingua inglese ha recentemente ripubblicato un articolo tratto dal "Socialista Standard" del febbraio 1988 ("La follia del nazionalismo di sinistra"), in cui viene citato il seguente estratto dalla stampa del Partito Socialista dei Lavoratori (inglese):

"Non abbiamo altra scelta, se non sostenere il regime di Khomeni contro gli Stati Uniti ed i suoi alleati. (Partito socialista dei lavoratori, 28-11-1987)"

Alcuni trotzkisti e i loro amici nazionalisti di sinistra sembrano sostenere decisamente l'"anti-imperialismo" più reazionario ed anti-operaio [cfr. "L'abbraccio di Chavez al leader iraniano è un insulto per le donne", di Jennifer FASULO, 09-2006]
Curiosamente, quanto accade in Francia con i gruppi trozkisti, in Italia accade con i gruppi stalinisti!

Ancora una volta. per dirla con Robert Kurz, "la lotta per l’emancipazione sociale deve essere condotta solamente per un movimento transnazionale che proceda dal basso, senza la rassicurazione nazionale della politica del potere."!

mercoledì 26 novembre 2008

La Statua Equestre Più Alta Del Mondo

donJuan.jpg

Dal blog di Tom Russell, "Notes from the Borderland":

Giorno del Ringraziamento sul Rio Bravo

Nel 1598 Shakespeare scrisse "Molto rumore per nulla" ed "Enrico V". Il 20 aprile dello stesso anno, Don Juan de Oñate raggiunse il Rio Grande, in un luogo oggi vicino a El Paso. Venti cavalli morirono annegati; gli altri "bevvero fino a farsi scoppiare il ventre". Gli spagnoli erano sopravvissuti ad una marcia forzata attraverso il deserto incandescente del Chihuahuan; chiamato in spagnolo "El Camino del Muertos". Oñate si portò al bordo del fiume, si fece il segno della croce, e prese possesso di tutte le terre bagnate dal Rio Grande. In nome di Dio e di re Filippo di Spagna. Il cavallo di Oñate si impennò; il conquistatore attraversò il fiume con seimila capi di bestiame, alcuni tori da combattimento, e centinaia di coloni. Affamati e assetati, erano pronti a far festa. Don Juan indisse una festa di ringraziamento; i ragazzi macellarono una dozzina di vacche, gettarono chili in una pentola e distribuirono tortillas e brandy spagnolo. Uno zingaro di sangue misto cantò le canzoni di Spagna, e gli uomini piansero per la nostalgia della patria. Il primo giorno del ringraziamento sul suolo americano. Questo "thanksgiving" ebbe luogo
nove anni prima di quello dei pellegrini sbarcati a Jamestown. Preferisco la nostra versione "cowboy" qui sulle sponde del Rio Bravo.
Ora la più alta statua equestre di tutto il mondo sta di fronte all'aeroporto di El Paso. Raffigura Don Juan Oñate su un grande cavallo andaluso mentre attravera le acque del Rio Grande. Noi abbiamo attraversato insieme a lui. E così rendiamo grazie. Lo abbiamo fatto. Finora. Abbiamo attraversato il deserto di amore e di odio e di paura. Abbiamo nuotato i fiumi e cavalcato i tornado (come direbbe Rosalie.) Siamo giunti fin qui. E "là fuori" è un mondo nuovo e stiamo cavalcando verso di esso. Cavalcando sempre verso di esso. Rendiamo grazie per le nostre famiglie, per le nostre due etnìe, quelli già qui e quelli per strada, la nostra musica, e le persone che vengono ad ascoltare. E per le canzoni ... Quarant'anni fa Bob Dylan si trovava in un motel a Kansas City. Era il giorno del ringraziamento e qualcuno chiamò per invitarlo a casa per la cena. "Rimango nel motel", rispose. E scrisse 'Just Like A Woman' "Grazie per questo, Bob. Grazie per tutto. Tempo di cuocere il tacchino con il sedano e le mele, e stappare una bottiglia di Rioja. Un brindisi a Don Juan e a Dylan. Jessica, la Quinn. Nadine. Ole! Y Amor Y gracias.

Tom Russell

martedì 25 novembre 2008

Rachel & Carver



Dura poco il nuovo disco di Rachel Harrington, "City of Refugee".
Trenta minuti appena per dieci canzoni. Dieci storie malinconiche, scarne e avvolgenti.
Old time? Bluegrass? Non saprei in che genere circoscrivere un disco che, in qualche modo
delicato, riesce a parlare all'anima.
Racconta un'America leggendaria, racconta storie fra London e Carver.
Racconta di prostitute ai tempi della corsa all'oro nel Klondike e di Harry Truman che sceglie di morire nell'esplosione del vulcano St.Helen, dove viveva.
Qualche cover: fra tutte, "Ode to Billy Joe" e il medley "Old time Religion/ Working on a Building". Tutte le canzoni vengono raccontate con voce delicata, sorrette da un tessuto musicale tenue e avvolgente, come la storia che dedica allo scrittore Carver, fra le più belle del disco.
Il disco, volendo, lo si pò ascoltare tutto, in streaming, qui. Oppure, in parte, sul sito myspace di Rachel Harrington.
Un altro disco, da non perdere.

Carver
di Rachel Harrington

Forse non credi nell'amore nel modo in cui io ci credo
Sono solo un semplice buffone
Sono sicuro che qui sono caduti angeli stranieri

"E non si ottiene ciò si che voleva da questa vita, anche così?" [R. Carver]

Ebbene, amore, non lo so

"Vincere, perdere? A che serve se il mondo ci dimenticherà comunque?"
[R. Carver]

Forse non credi nell'amore nel modo in cui io ci credo
Ma questo, tesoro, è il posto in cui
Una luna blu fiorisce appena lei inizia a spazzolarsi i capelli.

lunedì 24 novembre 2008



Il Pellegrino - Capitolo 33
di Kris Kristofferson

Lo trovi sfaccendato sul marciapiede nella sua giacca e i suoi jeans,
Indossa i guai passati come fossero un sorriso
Una volta ha avuto un futuro pieno di soldi, di amore, e sogni,
Che ha speso come se fossero andati via alla grande
Ed egli continua ad aspettare che le cose cambino in meglio o in peggio,
Alla ricerca di una fede che non ha mai trovato
Senza riuscire a decidere se credere sia una benedizione o una maledizione,
O se il gioco valga la candela

CORO:
E' un poeta, è un bracciante
E' un profeta, è uno spacciatore
E' un pellegrino e un predicatore, e un problema quando è drogato
E' una contraddizione che cammina, in parte verità e in parte finzione,
Prende ogni direzione sbagliata nel suo solitario viaggio di ritorno a casa.


Ha assaggiato il bene e il male nelle tue camere da letto e nei tuoi bar,
Ed ha scambiato tutti i suoi domani per questo oggi
Svappando dai suoi demoni, Signore, per raggiungere le stelle,
E lungo la sua strada ha perso tutti quelli che amava
Ma se questo mondo continua a girare sia per il meglio sia per il peggio,
E tutto ciò che ha ottenuto è invecchiato e alle spalle
Dalla culla fino al carro funebre,
Il gioco è valso la candela

CORO:
E' un poeta, è un bracciante
E' un profeta, è uno spacciatore
E' un pellegrino e un predicatore, e un problema quando è drogato
E' una contraddizione che cammina, in parte verità e in parte finzione,
Prende ogni direzione sbagliata nel suo solitario viaggio di ritorno a casa.
E ce ne sono un bel po', di direzioni sbagliate, in quel solitario
viaggio verso casa.



Kris Kristofferson ha scritto questa canzone per Johnny Cash, tempo fa.
Adesso, per Kowalski, è uscita la biografia di Steve Turner "Johnny Cash La vita, l'amore, la fede di una leggenda americana".
La prefazione è sempre di Kris Kristofferson:

" Johnny Cash è un vero eroe americano. Da inizi umili come quelli di Abraham Lincoln è diventato un amico e una fonte di ispirazione per detenuti e presidenti: rispettato e amato in tutto il mondo per il suo coraggio, l'integrità e l'amore sincero per il prossimo. Come Muhammad Ali, è stato più grande della professione che l'ha portato al successo, e il suo spirito trascendeva i confini della normale fama. Ma era meravigliosamente, adorabilmente umano. Mi hanno detto che quando Bob Dylan ha conosciuto John - credo fosse al Newport Folk Festival - gli ha girato intorno con la schiena curva e un sorriso di ammirazione pura. È una reazione comprensibile per chiunque l'abbia conosciuto. L'ho conosciuto nel giugno 1965, dietro le quinte del Ryman Auditorium. Ero ancora in uniforme, ma quando Marijohn Wilkin ci ha presentati, la sua stretta di mano elettrica ha decretato la fine della mia carriera nell'esercito. John era e sempre sarebbe stato esuberante, forte e imprevedibile come il fulmine. Il tuono profondo della sua voce si sposava perfettamente con i suoi lineamenti irregolari, alla Lincoln. June, la sua compagna di vita, era la bella ed effervescente figlia minore della leggendaria famiglia Carter, solare e allegra quanto lui era cupo e pericoloso. I due erano innamorati pazzi e indubbiamente rappresentavano ciascuno la risposta ai sogni dell'altro. Il Wildwood Flower forse non avrà domato l'Holy Terror, ma di sicuro June appianava gli spigoli di quella forza della natura: la più selvaggia, all'epoca, nel magico mondo della musica. Insieme sarebbero diventati un santuario solido come una roccia, fonte di ispirazione non solo l'uno per l'altra e per i loro adorati figli, ma per la famiglia allargata, fatta di anime perse e cantautori, che hanno preso sotto la loro ala protettrice. Le prime parole che John mi ha rivolto quando ci hanno presentati agli studi di registrazione Columbia, dove io lavoravo come portiere, sono state: "È sempre bello ricevere una lettera da casa, vero Kris?" Cowboyjack Clement gli aveva riferito che mia madre mi aveva ripudiato per lettera, perché volevo far carriera in un genere musicale "che nessuno sopra i quattordici anni ascolta mai, e se anche fosse, non sarebbe il tipo di persona che vorremmo conoscere". Forse è per questo che John mi ha sempre incoraggiato nella mia attività di cantautore (teneva nel portafogli il testo di una mia canzone). Sarebbero passati anni prima che registrasse un mio brano, ma continuavo a fargli sentire ogni canzone che scrivevo; gliele facevo avere tramite June o a Luther Perkins,
altrimenti rischiavo che mi licenziassero per averlo disturbato. Una volta mi ha difeso quando l'assistente del suo produttore cercava di farmi licenziare per aver fatto entrare due cantautori nella sua sala di registrazione (l'avevano avvicinato in un corridoio e cercavano di fargli sentire un intero album di canzoni religiose che volevano fargli incidere). Il mio capo mi ha detto che non mi avrebbe licenziato perché sapeva che non ero colpevole di averli fatti entrare, ma mi ha consigliato di stare lontano dallo studio in cui John registra. Quindi me ne stavo nascosto nel seminterrato e passavo il tempo cancellando cassette da riutilizzare per le demo, quando all'improvviso appare John e mi chiede come sto (come se fosse una cosa normale andare nel seminterrato a sentire come stava il portiere). Gli dico che sto bene, e lui mi chiede se voglio salire a sentire la seduta di registrazione. Rispondo di essere molto occupato e lui mi dice: "Be', ho sentito che hai avuto qualche guaio, volevo solo farti sapere che non inizierò a registrare finché non vieni su". Allora torno di sopra con lui e resto a vedere la seduta, cercando di ignorare gli sguardi dell'assistente di produzione nella sala di controllo. Anni dopo, quando già mi esibivo (grazie a John che mi aveva fatto salire sul palco con lui al Newport Folk Festival, contro la volontà degli altri), mi hanno criticato in una rivista di musica country per via delle mie attività di protesta contro le violenze americane in Nicaragua. John ha scritto al giornale per difendere il mio patriottismo e ha sottolineato che io avevo servito il mio Paese nell'esercito. Ha fatto la stessa cosa per Bob Dylan quando Bob è stato criticato in Sing Out! per la direzione che stava prendendo la sua musica ("Lasciatelo stare, sa quel che fa"). John non ha mai avuto paura di rischiare la carriera per difendere ciò che riteneva giusto. Qualche anno dopo, suonavo in apertura del suo concerto a Philadelphia e ho dedicato una canzone a Mumia Abu Jamal (che era nel braccio della morte). Alcuni funzionari si sono arrabbiati moltissimo, e quando sono sceso dal palco mi hanno intimato di tornare su e chiedere scusa. Mi dispiaceva molto dover rovinare il concerto di John. John mi ha risposto: "Non c'è bisogno di chiedere scusa per qualunque cosa tu abbia detto nel mio show. Voglio che tu venga sul palco con me alla fine del concerto, quando facciamo i canti gospel, e canti "Why Me". A proposito di Why Me: una volta John ha detto alla sua band che Gesù scrisse una canzone intitolata Why Me, Kris (Perché io, Kris). John non perdeva mai il senso dell'umorismo. Quando June ci lasciò senza preavviso, era disperato. Durante la veglia funebre, quando tutti sono venuti a darle l'ultimo saluto, io ero seduto accanto a John vicino alla bara mentre le persone si mettevano in fila per offrirgli le loro condoglianze. Uno dei presenti ha parlato con John, poi ha notato me e mi ha detto che mi riteneva un ottimo cantante. Quando se n'è andato, John si è chinato verso di me e ha commentato: "Be', niente male, vero?". Sarò sempre grato a John e June per la gentilezza che hanno dimostrato a me, mia moglie e i miei figli. John ha scritto alcune lettere molto divertenti a Johnny, che portava il suo stesso nome, e ai ragazzi scriveva sempre poesie e regalava suoi disegni, giocattoli e libri. Tanti libri. Aveva il dono di saper dare a chiunque l'impressione di essere la persona più importante al mondo. Le sue ultime parole a me sono state: "Ti voglio bene, Kris". "Ti vorrò sempre bene, John"."

K.K.

venerdì 21 novembre 2008

Una cosa che mi ha sempre dato noia!

terminology.png

L'immagine è tratta dal Webcomic di Randall Munroe, XKCD.

passato che non passa



Protesta
Davanti ai libertari del presente e del futuro sulle capitolazioni del 1937
di un "Incontrolado" della Colonna di Ferro

"Io sono uno di coloro che furono liberati da San Miguel de los Reyes, sinistra galera costruita dalla monarchia per seppellire gli uomini che, per non essere codardi, non si sono mai sottomessi alle infami leggi dettate dai poteri contro gli oppressi. Mi portarono là, come tanti altri, per aver lavato un'offesa, per essermi ribellato contro le umiliazioni di cui un paese intero era vittima, cioè per aver ucciso un prepotente.
Ero giovane, e sono giovane ora, poiché entrai in galera a ventitré anni e ne sono uscito, perché i compagni anarchici ne aprirono le porte, quando ne avevo trentaquattro. Undici anni sottoposto al tormento di non essere uomo, di essere una cosa, di essere un numero!
Insieme a me uscirono molti uomini che avevano ugualmente sofferto, ugualmente segnati dai maltrattamenti subiti dalla nascita. Alcuni, non appena calcarono la strada, se ne andarono per il mondo; altri ci unimmo ai nostri liberatori, che ci trattarono come amici e ci amarono come fratelli. Con essi, a poco a poco, abbiamo formato "la Columna de Hierro"; con essi, a passi accelerati, abbiamo assaltato caserme e disarmato terribili guardie; con essi, in aspri attacchi abbiamo respinto i fascisti fino alle cime della Sierra dove si trovano ancora. Abituati a prendere quel che ci necessita, nel respingere i fascisti gli abbiamo preso viveri e fucili. E ci siamo nutriti per un certo tempo di quel che ci offrivano i contadini, e senza che nessuno ci facesse dono di un'arma, ci siamo armati con ciò che abbiamo tolto, ai militari insorti con la forza delle nostre braccia. Il fucile che accarezzo, quello che mi accompagna da quando ho abbandonato la fatidica galera, è mio, proprio mio; l'ho preso da uomo a colui che lo teneva tra le mani e allo stesso modo sono proprio nostri quasi tutti i fucili che i miei compagni stringono nelle loro mani.
Nessuno, quasi nessuno ha mai avuto riguardi per noi. Il turbamento dei borghesi, quando lasciammo la galera, ha continuato ad essere il turbamento di tutti, fino a questo momento; e invece di prenderci in considerazione e aiutarci, sostenerci, ci hanno trattato come banditi, ci hanno accusato di essere degli incontrolados: perché non sottomettiamo il ritmo della nostra vita, che volevamo e vogliamo libera, agli stupidi capricci di qualcuno che si è sentito stupidamente ed orgogliosamente padrone degli uomini per essersi seduto in un ministero o in un comitato; e perché, nei paesi dove siamo passati, dopo aver strappato ai fascisti le loro proprietà, abbiamo cambiato sistema di vita, eliminando i feroci signorotti che tormentavano la vita dei contadini dopo averli derubati, e ponendo la ricchezza in mano agli unici che avevano saputo crearla: in mano ai lavoratori. Nessuno, lo posso assicurare, nessuno si è comportato, con i poveri, con i bisognosi, con coloro che per tutta la vita furono derubati e perseguitati, meglio di noi, gli incontrolados, i banditi, gli avanzi di galera. Nessuno, nessuno - sfido chiunque a dimostrare il contrario - è stato più affettuoso e più servizievole con i bambini, le donne e gli anziani. Nessuno, assolutamente nessuno, può accusare questa colonna che, sola, senza aiuti, anzi ostacolata è stata sin dall'inizio all'avanguardia; nessuno può accusarla di mancanza di solidarietà, o di dispotismo, di debolezza o di viltà quando si trattava di combattere, o di indifferenza verso i contadini, o di non essere rivoluzionaria, poiché l'audacia e il valore nella lotta erano state nostra norma, la nobiltà nei confronti dello sconfitto la nostra legge, la cordialità coi nostri fratelli la nostra divisa e la bontà e il rispetto sono stati il criterio di tutta la nostra vita.
Perché questa leggenda nera tessuta intorno a noi? Perché questo accanimento insensato a screditarci quando il nostro discredito, che non è possibile, non farebbe che pregiudicare la causa rivoluzionaria e la guerra stessa?
C'è - noi uomini della galera, che abbiamo sofferto più di nessun altro in terra, lo sappiamo - c'è dico, nell'aria un notevole imborghesimento. Il borghese di anima e di corpo, che è quanto di più mediocre e servile, trema all'idea di perdere la sua tranquillità, il suo sigaro e il suo caffè, i suoi tori, il suo teatro e le sue puttane, e quando sentiva parlare della Colonna, di questa Columna de Hierro, sostegno della Rivoluzione in queste terre del Levante, o quando sapeva che la Colonna annunciava il suo viaggio a Valenza, tremava come una foglia pensando che quelli della Colonna lo avrebbero strappato alla sua vita comoda e miserabile. E i borghesi - ci sono borghesi di vari tipi e in vari posti - tessevano senza sosta, con i fili della calunnia, la nera leggenda di cui ci hanno gratificato; perché è ai borghesi e solo ai borghesi che hanno potuto e possono nuocere le nostre attività, le nostre rivolte, e questi desideri pazzamente incontenibili che portiamo nel nostro cuore, di essere liberi, come le aquile sulle più alte vette o come i leoni in mezzo alle foreste.
Perfino i fratelli, che soffrirono con noi nei campi e nelle officine, che furono vigliaccamente sfruttati dalla borghesia, si fecero eco della terribile paura di questa e arrivarono a credere, perché glielo disse qualcuno assetato di potere, che noi, gli uomini che lottavamo nella Columna de Hierro, eravamo banditi senz'anima; sicché un odio, che spesso è arrivato alla crudeltà e all'assassinio fanatico, disseminò il nostro cammino di pietre per impedirci di avanzare contro il fascismo.
Di notte, in queste notti oscure in cui l'arma in braccio e l'orecchio vigile, cercavo di penetrare nelle profondità dei campi e nei misteri delle cose, come in un incubo, non trovavo altro rimedio che alzarmi dal riparo, e non per sgranchire le membra, che sono d'acciaio perché forgiate nel dolore, ma per impugnare con più rabbia l'arma, con la voglia di sparare, non solo contro il nemico nascosto a meno di cento metri, ma contro l'altro, quello che non vedevo, quello che mi si nascondeva al fianco e si nasconde tutt'ora, chiamandomi compagno, mentre mi vendeva vigliaccamente, poiché non c'è vendita più meschina di quella che si nutre di tradimento. E avevo voglia di piangere e di ridere, e di correre per i campi gridando e di stringere gole tra le mie dita di acciaio, come quando spezzai tra le mie mani quella del lurido prepotente, e di far saltare, riducendolo in macerie, questo mondo miserabile dov'è difficile trovare mani amorevoli che asciughino il tuo sudore e fermino il sangue delle tue ferite quando, stanco e ferito, torni dalla battaglia.
Quante notti, riuniti gli uomini che formavano un grappolo o un pugno, comunicando ai miei compagni, gli anarchici, le mie pene e i miei dolori, ho trovato laggiù, nell'asprezza della montagna, di fronte al nemico che ci spiava, una voce amica e delle braccia affettuose che mi hanno fatto nuovamente amare la vita! E allora, tutte le sofferenze, tutto il passato, tutti gli orrori ed i tormenti che hanno segnato il mio corpo, li gettavo al vento come fossero di altri tempi, e mi abbandonavo allegramente a sogni di avventura vedendo con la febbre dell'immaginazione un mondo diverso da quello in cui ero vissuto, ma che desideravo; un mondo dove nessuno di noi aveva vissuto, ma che molti di noi avevano sognato. E il tempo passava volando, e le fatiche non entravano nel mio corpo, e il mio entusiasmo aumentava, e diventavo temerario e al mattino uscivo in ricognizione per scoprire il nemico, e? tutto per cambiare la vita; per imprimere un altro ritmo a questa nostra vita; perché gli uomini, ed io tra loro, possono essere fratelli; perché l'allegria, almeno una volta, esplodendo nei nostri petti esplodesse sulla terra; perché la Rivoluzione, questa Rivoluzione che è stato il nord e l'insegna della Columna de Hierro, potesse essere, in un tempo non lontano, una realtà.
I miei sogni sfumavano come nuvolette bianche che passavano sopra di noi sulla Sierra e tornavo alle mie delusioni per ritornare nuovamente, la notte, alle mie allegrie. E cos? tra pene e gioie, tra l'angoscia ed i pianti, ho passato la mia vita, vita felice in mezzo al pericolo, in confronto a quella vita torbida e miserevole della torbida e miserevole galera.
Ma un giorno - un giorno grigio e triste - sulle cime della sierra, come vento di neve che brucia le carni, arrivò una notizia:
"Bisogna militarizzarsi".
E la notizia entrò nelle mie carni come un pugnale, e soffrii in anticipo le angosce di oggi. Per notti e notti, nel rifugio, ripeteva la notizia: "Bisogna militarizzarsi? ".
A fianco a me, vegliando mentre io riposavo, benché non potessi dormire, stava il delegato del mio gruppo, che sarebbe diventato tenente, e a due passi più in là, addormentato per terra, appoggiando la testa su un mucchio di bombe giaceva il delegato della mia centuria, che sarebbe diventato capitano o colonnello. Io? avrei continuato ad essere io, il figlio dei campi, ribelle fino alla morte. Non volevo e non voglio croci, né stellette, né comandi. Sono come sono, un contadino che ha imparato a leggere in carcere, che ha visto da vicino il dolore e la morte, che era anarchico senza saperlo e che ora, sapendolo, sono più anarchico di ieri quando uccisi per essere libero.
Quel giorno, quel giorno in cui scese dalle cime della sierra, come fosse un vento freddo che mi lacerava l'anima, la notizia funesta, sarà memorabile, come tanti altri nella mia vita di dolore. Quel giorno? bah!
Bisogna militarizzarsi!
La vita insegna agli uomini più di tutte le teorie, più di tutti i libri. Coloro che vogliono mettere in pratica quel che hanno appreso da altri bevendolo nei libri scritti, si sbaglieranno; coloro che riportano sui libri ciò che hanno appreso nei labirinti della vita, faranno forse un'opera maestra. La realtà e il sogno sono cose diverse. Sognare è buono e bello, perché il sogno è, quasi sempre, l'anticipazione di ciò che deve essere; ma la cosa sublime è rendere la vita bella, far della vita, realmente, un'opera bella.
Io ho vissuto la vita a ritmo accelerato. Non ho assaporato la gioventù, che, secondo quanto ho letto, è allegria, dolcezza, benessere. In galera ho conosciuto solo dolore. Giovane di età, sono vecchio per tutto quello che ho vissuto, per tutto quello che ho pianto, per tutto quello che ho sofferto. Perché in galera non si ride quasi mai; in galera, sia sotto un tetto che sotto il cielo, si piange sempre.
Leggere un libro in una cella, separato dal contatto degli uomini, è sognare; leggere il libro della vita, quando te lo presenta aperto in una qualunque pagina il carceriere che ti insulta e ti spia solamente, è essere in contatto con la realtà.
Un giorno ho letto non so dove, né di chi, che l'autore non poteva avere un'idea esatta della rotondità della terra finché non l'avesse percorsa, misurata, palpata: scoperta. Questa pretesa mi parve ridicola; ma quella piccola frase mi rimase tanto impressa che talvolta, nei miei soliloqui forzati, nella solitudine della mia cella, l'ho ricordata. Finché un giorno, come anch'io avessi scoperto qualcosa di meraviglioso, sconosciuto fino ad allora agli altri uomini, ho provato la felicità di essere, per me stesso, lo scopritore della rotondità della terra. E quel giorno, come l'autore della frase, percorsi, misurai e palpai il pianeta; si fece luce nella mia immaginazione "vedendo" la terra ruotare negli spazi infiniti, parte dell'armonia universale dei mondi.
Lo stesso succede con il dolore. Occorre pesarlo, misurarlo, palparlo, assaggiarlo, capirlo, scoprirlo per avere nella mente un'idea chiara di quello che è. A fianco a me, che tiravo il carro su cui altri salivano, cantando e godendo, ho avuto uomini che, come me, servivano da muli. E non soffrivano; e non facevano ruggire dal basso la loro protesta; e trovavano giusto e logico che quelli, in quanto signori, li tirassero con le redini e impugnassero la frusta e perfino logico e giusto che il padrone con lo scudiscio frustasse loro la faccia. Come animali lanciavano un grugnito e impuntavano i piedi e partivano al galoppo. Poi, oh sarcasmo!, una volta tolti dal giogo, leccavano come cani schiavi la mano che li aveva frustati.
Nessuno che non sia stato umiliato, offeso, oltraggiato; nessuno che non si sia sentito l'essere più disgraziato della terra, ed insieme il più nobile, il migliore, il più umano e che, contemporaneamente, tutto insieme, quando sentiva la sua disgrazia si considerava felice e forte, senza preavviso, senza motivo, per il gusto di fargli del male, per umiliarlo, abbia sentito sulle sue spalle o sul volto la mano gelida della bestia carceraria; nessuno che non si sia visto trascinato per ribellione in cella di punizione, e là picchiato e pestato coi piedi, sentir stridere le proprie ossa e correre il proprio sangue fino a cadere al suolo come un sasso; nessuno che, dopo aver sofferto i tormenti inflitti da altri uomini, non sia stato capace di sentire la sua impotenza, e di maledire e imprecare per questo, che era come incominciare a riprendere forza un'altra volta; nessuno che, ricevendo castigo ed oltraggio, abbia avuto coscienza dell'ingiustizia, del castigo, e dell'infamia dell'oltraggio e, avendola, si sia proposto di finirla col privilegio che concede ad alcuni la facoltà di castigare ed oltraggiare; nessuno, infine, che, prigioniero in carcere o prigioniero nel mondo, abbia compreso la tragedia delle vite degli uomini condannati ad obbedire in silenzio e ciecamente agli ordini ricevuti, può conoscere la profondità del dolore, il segno terribile che il dolore lascia per sempre in coloro che lo bevvero, lo palparono, e sentirono lo strazio di tacere ed obbedire. Voler parlare e restare muto; voler cantare e tacere; voler ridere e strangolare il riso nella gola; voler amare ed essere condannato a nuotare nel fango dell'odio!
Io sono stato in caserma, là ho imparato ad odiare. Sono stato in galera e là, in mezzo alle lacrime e alle sofferenze, stranamente, ho imparato ad amare, ad amare intensamente.
In caserma sono stato sul punto di perdere la mia personalità, tanto era il rigore che subivo, poiché mi si voleva imporre una stupida disciplina. Nel carcere, attraverso varie lotte, ho ritrovato la mia personalità, diventata sempre più ribelle ad ogni imposizione. Là appresi ad odiare dal basso all'alto tutte le gerarchie; in carcere, in mezzo al dolore più angoscioso, ho imparato ad amare i disgraziati, i miei fratelli, conservando puro e limpido il mio odio per le gerarchie nate in caserma. Carceri e caserme sono la stessa cosa: dispotismo e libero sfogo della cattiveria per alcuni e sofferenza per tutti. La caserma non insegna una sola cosa che non sia nociva alla salute del corpo e della mente, né il carcere corregge.
Con questo giudizio, con questa esperienza - esperienza acquisita, perché la mia vita è stata immersa nel dolore - quando ho sentito che, sotto le montagne, si aggirava l'ordine di militarizzazione, per un momento ho sentito il mio essere crollare, perché ho visto chiaramente che sarebbe morto in me l'audace guerrigliero della Rivoluzione, per continuare a vivere come l'essere spogliato di ogni attributo personale nella caserma o nel carcere, per cadere nuovamente nel baratro dell'obbedienza, nel sonnambulismo animale di chi conduce la disciplina della caserma o del carcere, perché sono la stessa cosa. E, impugnando con rabbia il fucile, dal rifugio, guardando il nemico e "l'amico", guardando l'avanguardia e la retroguardia, lanciai una maledizione come quelle che lanciavo quando, ribelle, mi portavano in cella di punizione, con una lacrima dentro, come quelle che mi sfuggirono, non viste, nel sentire la mia impotenza. Vedevo bene che i farisei, che vogliono fare del mondo una caserma e un carcere, sono gli stessi, gli stessi, gli stessi che ieri, nelle celle di punizione, fecero stridere a noi uomini - uomini - le ossa.
Caserme? galere?, vita indegna e miserabile.
Non ci hanno compreso, e non potendoci comprendere non ci hanno amato. Abbiamo lottato - non sono necessarie ora false modestie, che non portano a nulla - abbiamo lottato, ripeto, come pochi. Il nostro posto è stato sempre la prima linea di fuoco, poiché nel nostro settore, siamo stati gli unici fin dal primo giorno.
Per noi, non c'è mai stato avvicendamento o?, quel che è stato ancora peggio, una parola gentile. Gli uni e gli altri, fascisti ed antifascisti, e persino i nostri - che vergogna abbiamo provato - ci hanno trattato con antipatia.
Non ci hanno compreso. O quel che è più tragico in mezzo a questa tragedia che viviamo, forse non ci siamo fatti capire, perché noi, avendo ricevuto sulle nostre spalle tutto il disprezzo e le asprezze di quelli che furono nella vita dalla parte delle gerarchie, abbiamo voluto vivere, anche in guerra, una vita libertaria, mentre gli altri, per loro e nostra disgrazia, hanno continuato ad attaccarsi al carro dello Stato.
Questa incomprensione, che ci ha arrecato immensi dolori, ha seminato il nostro cammino di disgrazie; e non solo i fascisti, che trattiamo come meritano, vedevano in noi un pericolo, ma anche coloro che si dicono antifascisti e gridano il loro antifascismo fino ad arrochire. Quest'odio tessuto intorno a noi diede luogo a scontri dolorosi, il più grande dei quali, che, per ignominia, fa salire in bocca il disgusto e portar le mani a caricare il fucile, ebbe luogo nel centro di Valenza, quando spararono contro di noi "certi antifascisti rossi". Allora? bah? avremmo dovuto chiudere allora con ciò che ora sta facendo la controrivoluzione.
La Storia, che raccoglie tutto il bene e tutto il male che fanno gli uomini, parlerà un giorno.
E questa Storia dirà che la Columna de Hierro fu forse l'unica in Spagna ad avere una visione chiara di ciò che doveva essere la nostra Rivoluzione. Dirà anche che fu la Colonna che oppose maggior resistenza alla militarizzazione. E dirà, inoltre, che, a causa di questa resistenza ci furono momenti in cui fu completamente abbandonata alla sua sorte, sul fronte di battaglia, come se seimila uomini, agguerriti e disposti a trionfare o morire, si dovessero abbandonare al nemico perché li divorasse.
Quante e quante cose dirà la Storia, e quante e quante figure, che si credono gloriose, saranno esecrate e maledette!
La nostra resistenza alla militarizzazione si basava su ciò che conoscevamo dei militari. La nostra attuale resistenza si basa su ciò che attualmente conosciamo dei militari.
Il Militare di professione ha formato, ora e sempre, qui come in Russia, una casta. È lui che comanda; a tutti gli altri non deve rimanere altro che l'obbligo di obbedire. Il militare di professione odia con tutte le sue forze tutto ciò che è proletario ritenendolo inferiore.
Io ho visto - guardo sempre gli uomini negli occhi - tremare di rabbia o di disgusto un ufficiale quando rivolgendomi a lui gli ho dato del tu, e conosco casi, di oggi, di oggi stesso, nei battaglioni che si dicono proletari, dove gli ufficiali, dimentichi della loro umile origine, non possono permettere - contro questo sono previste severe punizioni - che un miliziano dia loro del tu.
L'esercito "proletario" non richiede disciplina, che potrebbe essere, tutto sommato, rispetto degli ordini di guerra; esso richiede sottomissione, obbedienza cieca, annullamento della personalità dell'uomo.
La stessa, stessa cosa di quando, ieri, ero in caserma. La stessa, stessissima cosa di quando poi ero in galera.
Noi, nelle trincee, vivevamo felici. Certo abbiamo visto cadere al nostro fianco i compagni che cominciarono questa guerra con noi; sapevamo, inoltre, che in qualunque momento, una pallottola poteva lasciarci stesi in mezzo al campo - questa è la ricompensa che aspetta il rivoluzionario; ma vivevamo felici. Mangiavamo quando potevamo; quando i viveri scarseggiavano digiunavamo. E tutti contenti. Perché? Perché nessuno era superiore a nessuno. Tutti amici, tutti compagni, tutti guerriglieri della Rivoluzione.
Il delegato di gruppo o di centuria non ci veniva imposto, era eletto da noi, e non si sentiva tenente o capitano, ma compagno. I delegati dei Comitati della colonna non sono stati colonnelli o generali, ma compagni. Mangiavamo insieme, lottavamo insieme, ridevamo o imprecavamo insieme. Non abbiamo ricevuto il soldo per un certo periodo, e neppure loro. Poi abbiamo ricevuto dieci pesetas, e dieci pesetas hanno ricevuto e ricevono.
L'unica cosa che accettiamo è la loro provata capacità, per questo li eleggiamo; e cos? per il loro provato valore, anche per questo sono stati nostri delegati. Non ci sono gerarchie, non ci sono superiorità, non ci sono ordini severi: c'è simpatia, bontà, cameratismo; vita allegra in mezzo ai disastri della guerra. E cos?, con i compagni, immaginando di lottare per qualcosa, si prende gusto alla guerra e si riceve perfino la morte con piacere. Ma quando sei tra i militari, dove non ci sono che ordini e gerarchie; quando ti vedi tra le mani il triste soldo con cui si può appena mantenere la tua famiglia nella retroguardia, e vedi che il tenente, il capitano, il colonnello, guadagnano tre, quattro, dieci volte più di te, pur non avendo né più entusiasmo, né più conoscenze, né più valore di te, la vita ti diventa amara, perché vedi che questo non è Rivoluzione, ma profitto per pochi di una situazione disgraziata che va unicamente a pregiudizio del popolo.
Non so come vivremo ora. Non so se potremo abituarci a sentire parole ingiuriose dal caporale, dal sergente o dal tenente. Non so se dopo esserci sentiti pienamente uomini, potremo sentirci animali domestici, perché a questo porta la disciplina e questo rappresenta la militarizzazione.
Ma non lo potremo, ci sarà assolutamente impossibile accettare il dispotismo e i maltrattamenti, perché occorre essere molto poco uomo per imbracciare un fucile e sopportare tranquillamente gli insulti; e abbiamo notizie preoccupanti di compagni che, militarizzandosi, sono tornati a sentire, come una cappa di piombo, il peso di ordini che emanano da gente spesso inetta, e sempre ostile.
Credevamo di lottare per redimerci, per salvarci, e stiamo cadendo nella stessa cosa che combattiamo; nel dispotismo, nella castocrazia, nell'autoritarismo più brutale ed alienante.
Ma il momento è grave. Presi - non sappiamo perché, e se lo sappiamo, ora non parliamo - presi, ripeto, in trappola, ne dobbiamo uscire, sfuggirne, nel modo migliore possibile, poiché tutto il campo è pieno di trappole.
I militaristi, tutti i militaristi - ce ne sono di furibondi nel nostro campo - ci hanno circondato. Ieri eravamo i padroni di tutto, oggi lo sono loro. L'esercito popolare, che di popolare ha solo il fatto di essere formato dal popolo, è del Governo, e il Governo comanda, il Governo ordina. Al popolo è permesso di obbedire e si esige sempre che obbedisca.
Presi nella rete dei militaristi, abbiamo due possibilità da scegliere; la prima ci porta alla disgregazione di coloro che finora sono stati compagni di lotta, sciogliendo la Columna de Hierro; la seconda ci porta alla militarizzazione.
La colonna, la nostra colonna non deve essere sciolta. L'omogeneità che essa ha sempre dimostrato è stata ammirevole - parlo solo per noi compagni - il cameratismo tra noi rimarrà come un esempio nella storia della Rivoluzione spagnola; la bravura dimostrata in cento battaglie potrà essere stata eguagliata in questa lotta di eroi, ma non superata. Fin dal primo giorno siamo stati amici; più che amici, compagni, fratelli. Scioglierci, andarcene, non vedersi più, non sentire, come è stato finora, la voglia di vivere, di vincere e lottare, è impossibile.
La colonna, questa Columna de Hierro, che da Valenza a Teruel ha fatto tremare borghesi e fascisti, non si deve sciogliere, ma continuare fino alla fine.
Chi può dire di essere stato più forte, più coraggioso, più generoso nel bagnare col proprio sangue i campi di battaglia, per il fatto di essersi militarizzato? Abbiamo lottato come fratelli che difendono una causa nobile; come fratelli che hanno gli stessi ideali, abbiamo sognato nelle trincee; come fratelli che desiderano un mondo migliore siamo andati avanti col nostro coraggio. Sciogliere la nostra totalità omogenea? Mai, compagni. Finché rimane una centuria, alla lotta, finché rimane uno solo di noi, alla vittoria.
Sarà un male minore, pur essendo un grande male, dover accettare, non eletti da noi, chi ci dia ordini. Ma?
Essere una Colonna o essere un Battaglione è quasi la stessa cosa. Quel che non è lo stesso è che non ci rispetteranno.
Se restiamo insieme, gli stessi individui che siamo ora, che formiamo una Colonna o un Battaglione, per noi deve essere lo stesso. Nella lotta non avremo bisogno di chi ci incoraggi, durante il riposo, nessuno ci proibirà di riposare, perché non lo permetteremo.
Il caporale, il sergente, il capitano, o sono dei nostri, nel qual caso saremo tutti compagni, o sono nemici, nel qual caso bisognerà trattarli come nemici.
Colonna o Battaglione, per noi, se lo vogliamo, sarà lo stesso. Noi, ieri, oggi e domani, saremo i guerriglieri della Rivoluzione.
Da noi stessi, dalla coesione tra noi, dipende il nostro futuro. Nessuno ci imporrà un suo ritmo; lo imporremo noi a quelli che ci staranno intorno, per mantenere una nostra personalità.
Teniamo conto di una cosa, compagni! La lotta esige che non ritiriamo da questa guerra né le nostre braccia, né il nostro entusiasmo. In una colonna, la nostra, o in un battaglione, il nostro, in una divisione o in un battaglione che non siano nostri, dobbiamo combattere.
Se sciogliamo la Colonna, se ci disgreghiamo, poi, obbligatoriamente mobilitati, dovremo andare, non con chi scegliamo, ma con chi ci verrà ordinato. E poiché non siamo né vogliamo diventare animaletti domestici, è probabile che ci scontreremo con gente con cui non dovremmo scontrarci: con coloro che bene o male, sono nostri alleati.
La Rivoluzione, la nostra Rivoluzione, questa Rivoluzione proletaria e anarchica, alla quale fin dai primi giorni abbiamo dato pagine di gloria, ci chiede di non abbandonare le armi e di non abbandonare neppure il nucleo compatto che finora abbiamo costituito, che esso si chiami Colonna, Divisione o Battaglione."


Un "Incontrolado" de la Columna de Hierro

giovedì 20 novembre 2008

esodo



Democrazia
di Leonard Cohen

E 'arrivata passando attraverso un buco nell'aria,
da quelle notti passate in piazza Tiananmen.
Proviene dalla sensazione
che tutto questo non sia esattamente vero,
oh, sì è vero, ma non è esattamente così.
Dalle guerre contro il disordine,
dalle sirene di giorno e di notte,
dai falò accesi dai senzatetto,
dalle ceneri dei gay:
La democrazia sta arrivando negli Stati Uniti
E 'venuta attraverso una breccia nel muro;
sull'onda di un alluvione di alcol;
dallo sbalorditivo resoconto
del Discorso della Montagna
che io non pretendo venga capito da tutti.
È venuta dal silenzio
sulla banchina della baia,
dal coraggioso, dall'audace, dal martoriato
cuore di Chevrolet:
La democrazia sta arrivando negli Stati Uniti

E 'venuta dal dolore per la strada,
i sacri luoghi dove si incontrano le razze;
dalla malignità omicida
che scende in ogni cucina
per determinare chi servirà e chi mangerà.
Dai pozzi di delusione
dove le donne si inginocchiano a pregare
per la grazia di Dio in questo deserto
e nel deserto lontano:
La democrazia sta arrivando negli Stati Uniti

Salpa, salpa
O potente nave di Stato!
Alle sponde della Necessità
Passando le barriere di Avarizia
Attraverso le Burrasche di Odio
Salpa, salpa, salpa, salpa.

E' venuta in America in primo luogo,
la culla del meglio e del peggio.
E' qui che ha ottenuto la scelta
e le attrezzature per il cambiamento
ed è qui che ha sentito la sete spirituale.
E' qui che la famiglia è andata a puttane
ed è qui che il solitario dice
che il cuore deve aprirsi
in un modo fondamentale:
La democrazia sta arrivando negli Stati Uniti

E 'venuta dalle donne e dagli uomini.
O bambina, faremo di nuovo l'amore.
Scenderemo giù così in profondità,
da far piangere il fiume,
e la montagna griderà Amen!
E 'venuta come l'onda di piena
sotto l'influsso lunare,
imperiale, misterioso,
in formazione amorosa:
La democrazia sta arrivando negli Stati Uniti
Salpa, salpa...

Sono un sentimentale, se capisci quel che voglio dire
Mi piace questo paese, ma non posso restare qui.
E non sono né di destra né di sinistra
Voglio solo restare a casa stasera,
perdermi in quel piccolo schermo disperato.
Perché sono testardo come quei sacchetti di immondizia che il tempo non intacca,
Sono spazzatura ma ho ancora in mano questo piccolo mazzo di fiori selvatici:
La democrazia sta arrivando negli Stati Uniti

mercoledì 19 novembre 2008

Vittime e Fiammiferi



"Vittima? La differenza tra un criminale e un fuorilegge è questa, che mentre i criminali sono frequentemente vittime, i fuorilegge non lo sono mai. Anzi, il primo passo per diventare un vero fuorilegge è il rifiuto d'essere vittimizzato.
Tutti coloro che vivono soggetti alle leggi altrui sono vittime. Tutti coloro che infrangono la legge per ingordigia, frustrazione, o vendetta sono vittime. Tutti coloro che sovvertono le leggi per rimpiazzarle con le proprie sono vittime (e qui mi riferisco ai rivoluzionari). Noialtri fuorilegge, invece, viviamo oltre la legge. Non meramente oltre la lettera della legge molti uomini d'affari, gran parte dei politici, e tutti gli sbirri lo fanno noi viviamo oltre lo spirito della legge. Quindi in un certo senso viviamo oltre la società. Se abbiamo uno scopo comune, esso consiste nel voltar le carte riguardo la natura della società. Quando ci riusciamo, incrementiamo con ciò stesso il contenuto d'esilarazione dell'universo. Lo incrementiamo un po' anche quando falliamo.
Vittima? Ho deplorato l'abiezione della guerra nel Vietnam. Ma ciò che ho deplorato altri l'avevano deplorato prima di me. Quando la guerra trasforma intere popolazioni in sonnambuli, i fuorilegge non si alleano alle sveglie. Come i poeti, i fuorilegge riordinano l'incubo. È un lavoro che esalta. Gli anni della guerra sono stati i più splendidi della mia vita. Non rischiavo la pelle per protestare contro una guerra. La rischiavo per divertimento. Per la bellezza!
Adoro la magia della dinamite. Con quale eloquenza sa parlare! Il suo brontolio che echeggia, il suo urto, la sua voce è appena più bassa dell'appassionato gemito della terra stessa. Una ben ritmata serie di detonazioni è come un coro sismico. Nonostante tutto il suo fluente risuonare una bomba pronuncia una sola parola "Sorpresa!" e poi si applaude. Amo le calde mani dell'esplosione. Amo la brezza profumata dal diabolico odore della polvere (così prossimo nel suo effetto all'angelico odore del sesso). Amo il modo con cui l'architettura, sull'impeto della dinamite, si disintegra quasi al rallentatore, sbriciolandosi delicatamente, spogliandosi dei mattoni come fossero piume, gli angoli che si liquefanno, austere facciate che rompono in sorrisi, muri portanti che fan spallucce e chiudono, tonnellate di totalitario cemento che scorrono via in un tsunami turbinoso d'aria. Amo quel preziosissimo frammento di secondo quando i vetri delle finestre si fanno elastici e si rigonfiano come bubble gum prima di scoppiettare. Amo gli edifici pubblici finalmente resi pubblici, le porte che si spalancano ai cittadini, alle creature, all'universo. Caro, entra! Amo lo sbuffo finale di fumo.
Sì, amo i triti miti del fuorilegge. Amo l'istrionico suo romanticismo. Amo il nero vestiario del fuorilegge. Amo la tequila del fuorilegge e i suoi fagioli in scatola. Amo il modo con cui gli uomini dabbene sorridono beffardi e dicono "fuorilegge". Il modo con cui le giovani palpitano e dicono "fuorilegge". La barca del fuorilegge va controcorrente, e mi piace. I fuorilegge si lavano dove si lavano i tassi, e mi piace. Tutti i fuorilegge sono fotogenici, e mi piace. Esistono mappe dei fuorilegge che conducono a tesori fuorilegge, e le amo in modo particolare. Niente affatto disposti ad aspettare che l'umanità migliori, i fuorilegge vivono come se quel giorno fosse già qui, e sopra ogni cosa è questo che mi piace.
Vittima? La sua lettera ha ricordato al Picchio d'essere un Picchio benedetto. Le sue simpatie per la mia solitudine, le mie tensioni e le fastidiose fluttuazioni d'identità trovano un certo riscontro nella realtà e le apprezzo umilmente. Però non s'inganni. Sono l'uomo più felice dell'America. Nei miei taschini di barista tengo ancora, per abitudine, fiammiferi svedesi. Finché ci saranno fiammiferi ci saranno micce. Finché ci saranno micce nessun muro resterà sicuro. Finché ogni muro sarà minacciato, tutt'un mondo potrà accadere. I fuorilegge sono apriscatole nel supermercato della vita."


Da "Natura morta con picchio" (Still Life with Woodpecker) di Tom Robbins, 1980.

martedì 18 novembre 2008

Lieto Fine!

Capodiavolo




Capodiavolo. E' il titolo dell'ultimo spettacolo che Alessandro Benvenuti sta protando in giro. Uno spettacolo di canzoni scritte da lui, in tutti questi anni, e intervallate da discorsi, storie , poesie. Capodiavolo. Era il soprannome dello zio di Benvenuti, Fosco. Un soprannome che intendeva non fosse solo un semplice diavolo, ma un vero capodiavolo.
Benvenuti ha chiesto allo zio di prestargli il omignolo, per poterlo affibiare al padre, fratello dello zio Fosco. E lo zio ha risposto: "Piglialo pure. Tanto tu fa' sempre 'icché ti pare!"
Al padre, Alessandro Benvenuti, ha dedicato la canzone per lui più bella.
E non è la più bella solo per lui!
Si può ascoltarla sul sito myspace. E' un consiglio!

Capodiavolo
di Alessandro Benvenuti

La notte era dolce la luna nel cielo
E lui la guardava con sguardo sereno
I grilli nei campi frinivano in coro
Cantavano tutti lo stesso mistero

Le bombe sarebbero scese dal cielo
Fischiando e rendendo le notti di gelo
Però quella volta era ancora il '28
E il babbo di anni ne compiva quattro

Poi nel '48 conobbe una stella
Di nome faceva Bartolozzi Graziella
Fu un bel matrimonio di un bianco fatato
Sposarsi era un fatto parecchio apprezzato

Io fui concepito in un letto di Alassio
Fra linde lenzuola davanti a un terrazzo
E un mare che il babbo non ha più vissuto
E mamma di notte che fece il bucato

Negli anni '50 conobbi anche il cancro
Si prese un parente dal viso un po' stanco
Il boom dei '60 ci dette la casa
la fòrmica i mutui e Livio Berruti

Il babbo invecchiava l'Italia cresceva
E c'era bisogno di un'altra autostrada
E poi sul finire ci fu la rivolta
Le scuole e le fabbriche scesero in piazza

Il babbo ogni giorno finiva sconfitto
Da Mao Che Guevara così andava a letto
La mamma lo amava un po' brontolando
Ma il sabato sera ballavano il tango

E venne il '70 con le P38
Lo stato assassino e l'idea di complotto
Gli '80 si vissero fra nani e lustrini
L'effimero rese famosi i cretini

E con i '90 si vissero i lutti
L'accelerazione sconvolse un po' tutti
Cadevano i muri anche i più sicuri
La gente parlava con occhi più scuri

L'inizio del secolo spazzò via la lira
E anche quel valore finì in spazzatura
Il babbo guardava le nuove monete
Pagava schifato dicendo "tenete"

E un dì perse i denti buttò via gli occhiali
"A un vedovo tanto gli bastan le chiavi"
Guardava la foto della sua Graziella
Poi chiudeva gli occhi e brillava una stella

Così perse i denti e buttò via gli occhiali
A un vedovo tanto gli bastan le chiavi
Guardando una foto di mamma Graziella
Un giorno si spense e anche lui ora brilla.

lunedì 17 novembre 2008

western dell'anima



Mi è piaciuta molto la definizione, coniata da "filmtv" e usata da Girolamo su Carmilla, a proposito di certi libri e di certe storie. Così mi è venuta subito in mente, non appena mi sono apprestato a leggere questa storia, stesa in grafica, della vita di Johnny Cash.
Fin dall'introduzione di Franz Dobler al bel fumetto (andrebbe detto "graphic novel", ma tant'è) di Rinhard Kleist, "Johnny Cash - I See A Darkness", pubblicato in Italia per la Blackvelvet.
A questo punto, mi sento di dover fare una premessa. A proposito di "Blog e bloggers", e di altre cose. Fatto sta che se io non leggessi con assiduità il blog di Paolo Vites (gamblin-ramblin), non sarei mai venuto a conoscenza dell'esistenza di questo libro. Anche il blog di Vites, a mio avviso, è un western dell'anima. O, perlomeno, lo è assai spesso!
Così, dalla storia di Glen Sherley, raccontata da Vites, sono arrivato a questo libro - ma Johnny Cash è da tempo nell'anima - e a fare il dovuto raffronto con il film di James Mangold, "Walk the Line". E sorprende, nel fumetto, quella enorme quota d'amore in più, nel raccontare una storia, rispetto ad un film che, eppure, m'era piaciuto non poco.
E l'amore sta proprio in quel "western" che nel film manca. Comincia proprio con l'omicidio di Reno, quello cantato in "Folsom Prison Blues". Falso, l'omicidio, come falsa la canzone che Cash copiò interamente da "Crescent City Blues" di Gordon Jenkins.
Falsa, eppure vera più del vero. Talmente vera da permettergli di entrare "alla pari" nei carceri di massima sicurezza di Folsom e di St. Quentin! Il falso diventa vero, e niente è sicuro nella vita.
Nella vita di Cash, come in quella di Glen Shirley, come in quella di Necaev, cui questa storia, in qualche modo, rimanda.
Una canzone. Una canzone è niente, è fragile, è solo un momento dell'anima. E' il cantante, è l'uomo che fa la differenza. Cash dice a Sherley che "Uno che scrive una canzone così, non può essere una persona cattiva". E il tenente Colombo, nell'episodio "Il canto del cigno", in cui Cash interpreta il ruolo di un cantante country colpevole di duplice omicidio, userà le stesse identiche parole per congedarsi da Johnny Cash!
Vero e falso. Una linea sottile. Basta focalizzarsi su un aspetto, piuttosto che un altro, e la linea si sposta. Troppo concentrato sulla tossicomania e sulle debolezze, il film di Mangold, ha evitato di mostrarci la forza di Cash. Quella che scattava come reazione al boicottaggio che veniva messo in atto ogni qual volta affrontava un tema "delicato". "La ballata di Ira Hayes", scritta da Peter LaFarge, su cui Cash incentrò un intero "concept album" sui nativi americani provocò perfino l'ira del Ku Klux Klan, oltre che quella del numeroso stuolo dei "fan conservatori". E per tutta risposta, Cash attaccò esplicitamente Dj, industria discografica e fan. E cominciò ad andare in giro sempre armato.
E, così, la storia di Johnny Cash continua ...


venerdì 14 novembre 2008

io? passeggio, piùcchealtro.



Due mandriani a cavallo conversano. Uno chiede all’altro. "Di cosa ti occupi?" L’altro risponde, "della reificazione". Il primo replica, "capisco, un lavoro molto serio con grandi libri e molte carte sul tavolo". L’altro lo interrompe, "no, io passeggio, soprattutto io passeggio".
Così si poteva leggere, fra le altre cose, in "Le Retour de la Colonne Durutti", un documento realizzato da André Bertrand e distribuito dagli studenti di Strasburgo nell'ottobre del 1966.

Nel novembre del 1966, verrà poi stampato un opuscolo anonimo di 47 pagine intitolato "De la misère en milieu étudiant, considérée sous ses aspects économiques, politiques, psychologiques, sexuels et notamment intellectuels, et de quelques moyens pour y remédier" ("Della Miseria nell'ambiente studentesco"). L'autore, Mustapha Khayati.

Quanti anni sono passati, da allora? Quarantadue, tondi tondi!
Eppure, tocca ripartire da lì, se si vuole andare da qualche parte ...

giovedì 13 novembre 2008

Ogni stella nel cielo ...



"Ogni stella nel cielo brillerà per te." Così nel ritornello della canzone "Enjoy the View”, che apre il nuovo disco "Ironweed", Mare Wakefield sembra cantare di sé stessa. La ragazza del Sud-Est del Texas è passata dai bar dell?oregon ai più importanti festival del nord-ovest, passando per il "Boston's Berklee College of Music" che vanta allievi come Gillian Welch e Aimee Mann (due dei numerosi artisti cui Mare è stata confrontata). Adesso risiede a Nashville, e continua la sua traiettoria, scrive le sue canzoni insieme ad autori importanti e brucia le strade portando in giro il suo quarto album realizzato in studio.

Texas

Jane non vuole tornare in Texas, tornare in Texas
Scommetto che avrebbero lasciato che lo facesse
E, Jane, avresti potuto andare a trovare tuo fratello, ricordi tuo fratello?
Egli si chiede dove sei stata
Sulla West Coast per dieci anni e più, tu dici che è stato meglio
Ma non penso che sia vero
Jane, dovresti tornare in Texas, l'intero stato del Texas ti vuole

Mi ricordo di un'estate calda come l'inferno e senza aria condizionata
Il tuo sudore veniva giù come fosse pioggia
Non ti sei mossa finché non si è fatta notte, perché le notti erano più fresche, solo tu e la radio
Ecco come hai imparato a cantare
Un bel giorno hai preso la macchina ed hai guidato fino al confine, sei arrivata al confine di Stato con la Louisiana
Ma poi sei tornata in Texas, perciò torna prima che sia troppo tardi

Sono novecento miglia, da Beaumont o Brownsville fino alle colline di El Paso
Giù lungo il Rio Grande
E so che si sente che c'è un'aria dolce di primavera, il richiamo della tua salvezza
La nostalgia della terra
Nel mio sogno la notte scorsa ho sentito battere il tuo cuore, e persino quel rumore
Ha risuonato di solitudine
Ma Jane, tu puoi ancora tornare in Texas, torna a casa in Texas

mercoledì 12 novembre 2008

due film



"Anche i Boia Muoiono"

Fritz Lang, fra i fondatori del movimento anti-fascista di Hollywood, fu il principale artefice dell'accoglienza di Bertolt Brecht negli Stati Uniti nel 1941. Con Brecht co-scriverà una sceneggiatura ispirata alll'assassinio di Reinhard Heydrich, gerarca nazista che aveva seminato il terrore a Praga.Questo film fu l'unico lavoro di Brecht per Hollywood.
Bernard Eisenschitz, storico del cinema, scrivendo a proposito della collaborazione tra Brecht e Lang, nega, in parte, l'ipotesi che i due artisti si siano scontrati costantemente e violentemente durante la stesura. Se la struttura da film epico è di Brecht, la scelta degli attori e la loro direzione recano l'impronta della volontà di Lang. Non ci sono state grandi divergenze politiche tra Lang e Brecht, in quanto era importante per loro che questo film, concepito durante la Battaglia di Stalingrado, sostenesse la lotta contro il nazismo.
Il risultato è un opera forte e stimolante, dovuta allla personalità dei due autori. Del film esistono due versioni. Una lunga, americana, del 1943, ed una versione più breve (venti minuti in meno), distribuita in Francia nel 1947.

Titolo Originale: HANGMEN ALSO DIE
Regia: Fritz Lang
Interpreti: Dennis O'Keefe, Anna Lee, Walter Brennan, Brian Donlevy
Durata: h 2.11
Nazionalità: USA 1943
Genere: drammatico
Al cinema nell'Aprile 1943

Nella Praga occupata dai nazisti viene ucciso il "Reichsprotektor", Reinhard Heydrich: per evitare la repressione, la Resistenza individua un collaborazionista e fa convergere su di lui le prove.
C'è una figura negativa dalle insospettabili fattezze, ci sono due organizzazioni per il mantenimento dell'ordine (una legale ed una no) che lavorano parallelamente, c'è lo scontro di intelligenze e, soprattutto, la condanna sociale. Tutto questo dà luogo ad una vivida rappresentazione della volontà popolare sotto forma di giudizio ed aiuto, quasi un eroe-massa.
La rivolta silenziosa dei viennesi, le mancate confessioni e soprattutto la grande alleanza finale contro il traditore non sono molto lontane dalla società di barboni e criminali, alleata e coordinata contro il mostro, di "M, il Mostro di Dusseldorf".
Il cinema di Lang è quello che Truffaut non esitò a definire: "Inesorabile in ogni inquadratura". Ogni informazione promana dalle immagini, e non dalle parole.

"La Strada Scarlatta".

Il film, un remake del meraviglioso "La Cagna" di Renoir, è un bellissimo noir, genere in cui Lang era un maestro riconosciuto. In più, i tre attori principali - Joan Bennett, Dan Duryea ed Edward G. Robinson - sono semplicemente formidabili.

Un integerrimo impiegato di banca che ha già trascorso venticinque anni dietro lo sportello, si innamora perdutamente di una prostituta. La ragazza sfrutta la situazione e induce l'amante a commettere azioni che altrimenti non avrebbe mai compiuto. Per lei l'uomo manda a monte una precedente relazione e si offre di sposarla, ma al rifiuto la uccide.

Immediatamente dopo "La Donna Del Ritratto", e con quasi il medesimo cast, Lang gira un secondo film che parla di colpa e redenzione. Ma questa volta senza il deus ex machina finale del sogno.
Ancora una vota c'è la pittura a sottendere tutta la trama. Ancora una volta Edward G. Robinson è al centro di una storia di perdizione che culmina in un omicidio.
Quasi fosse un "noir visto dal retro", invece che concentrarci sulla discesa all'inferno del protagonista (che questa volta all'inferno già ci sta e cerca una disperata via d'uscita finendo più in basso ancora), Lang preferisce mostrare i meccanismi della truffa e dare più spazi ai truffatori che al truffato.
Nessun mistero o scioglimento finale, siamo partecipi fin dall'inizio delle decisioni e dei maldestri piani criminali orchestrati alle spalle del protagonista. Dopo il grande successo di "La Donna Del Ritratto" Lang ne dirige come un "seguito", più cupo e disperato.
Il protagonista è ancora una volta un uomo medio che incarna un male sociale (come era anche per M., l'archetipo langhiano di tutto il suo proprio cinema) e lotta contro se stesso per la redenzione di sé stesso che matematicamente sappiamo non può arrivare.

Titolo Originale: SCARLET STREET
Regia: Fritz Lang
Interpreti: Joan Bennett, Edward G. Robinson, Dan Duryea, J. Fontaine
Durata: h 1.35
Nazionalità: USA 1945
Genere: drammatico
Al cinema nell'Ottobre 1945

martedì 11 novembre 2008

Kommune 1, prima della Baader-Meinhof



Giovedì 6 aprile 1967 il quotidiano "Bild", di Axel Gasar Sprinter, si rivolgeva così ai propri lettori: "Berlino. Scongiurato attentato al vicepresidente americano". Il giorno prima gli sbirri avevano scoperto un'"officina del terrore" e sequestrato una strana sostanza collosa.
Occorsero ben tre giorni interi ai periti chimici della polizia per capire la composizione dello strano "esplosivo" rinvenuto.
Fritz Teufel, Rainer Langhans e compagni, tutti della Kommune l (K1), la centrale del terrore cittadino, avevano messo insieme dieci chili di budino in polvere, del colorante e della farina e li avevano cotti. Con quell'impasto avrebbero poi confezionato la più dolce bomba calorica mai esistita. Nessuno li ringraziò mai per questo dolce omaggio al vicepresidente americano Hubert H. Humphrey, che aveva dichiarato pubblicamente che il budino era il suo dessert preferito!
I membri della K1 vennero accusati di "essere stati trovati in circostanze sospette". "L'attentato al budino" fu ripreso dalla stampa internazionale, anche se nessuno aveva mai definito "terroristica" la produzione di dolciumi. Nonostante la falsa partenza, l'episodio procurò alla K1 una duratura reputazione.
In qualità di "comitato provvisorio per la preparazione di un'organizzazione studentesca indipendente" la K1, con le sue spillette maoiste, fece andare in fumo un 'assemblea di 6000 studenti alla Freie Universität di Berlino. Ai partecipanti venne distribuito il "volantino dell'idiota professionista" che conteneva l'invito a lasciare l'università, ad andare a lavorare e comprarsi una casa con i soldi guadagnati e fondare così una comune dove si sarebbe praticato l'amore libero ed organizzato corsi di formazione di partito. L'obiettivo era formare dei "Provos" da disperdere nella società per portare avanti azioni di disturbo che ridessero slancio alla rivoluzione.
Partendo dal bisogno di cambiamento radicale, il movimento antiautoritario, di cui la K1 era il prodotto, intendeva mettere in crisi rapporti sociali fossilizzati. Un mutamento sociale sarebbe stato possibile solo se il piano individuale e quello sociale fossero stati considerati ugualmente politici e quindi non separabili. Il cambiamento personale non doveva rimanere una questione privata, ma contribuire a una trasformazione sociale.
I comunardi in erba, fra cui Fritz Teufel, Rainer Langhans, Dieter Kunzelmann, Uschi Obermaier e altri, trovarono rifugio per un breve periodo nell'appartamento berlinese dello scrittore Uwe Johnson. Proclamarono la rivoluzione della vita quotidiana: all'angusta famiglia borghese si sostituiva il collettivo. L'opinione pubblica percepì la loro rivendicazione principalmente come un'istanza di promiscuità sessuale.
Le forme di azione della K1 assunsero un carattere internazionale, tanto che in altri paesi si formarono gruppi con idee politicamente affini. Ad esempio nell'ambito degli Yippies americani, non solo uscì un libro con il titolo quasi identico al "Klau mich" ("Fottimi", nel senso di "rubami") di Teufel e Langhans, vale a dire "Steal this book" ("Ruba questo libro") di Abbie Hoffman, ma entrambi i gruppi manifestarono le loro provocazioni prevalentemente con forme aggressive di happening politico. A questi happening partecipavano di solito diverse centinaia di persone vestite in modo fantasioso. L'Esercito della salvezza si trovò in una situazione molto imbarazzante quando la polizia li scambiò per comunardi travestiti. Usando maschere strategiche da coniglio e da istrice i membri della K1 sfruttavano ogni occasione per provocare e schernire le autorità evitando lo scontro fisico. Gli attivisti della K1 erano maestri nella tattica dello smascheramento delle strutture autoritarie. Le loro azioni provocavano violente reazioni poliziesche che non risparmiavano nemmeno i semplici passanti.
Numerose azioni della K1 assumevano tratti di spontaneità dadaista. Non è esagerato affermare che le forme di azione specificatamente antiautoritarie furono prodotte in maniera massiccia e frequente quando l'organizzazione studentesca tedesca socialista si modellò su una linea di sviluppo che storicamente rimanda al dadaismo berlinese".
I media descrissero la K1 come la "centrale del terrore cittadino", fissando lo standard per tutte le successive calunnie contro altre comuni. Eppure la vita quotidiana nella K1 era tutto sommato molto piccolo-borghese. La K1 imparò presto a trattare con i giornalisti. Le foto di Uschi Obermaier che si fuma una canna erano praticamente commissionate dalla stampa e vendute a "Stern" e allo "Spiegel". La battaglia anti-K1 da parte di Springer bollò la K1 come pericoloso nemico dello Stato; la sua criminalizzazione comportò la fuoriuscita di molti. Ma i comunardi, che dovevano essere processati, sfruttarono le imputazioni come un'offerta da parte dello Stato di mettere gentilmente a loro disposizione un palco per nuovi happening. Smascherarono infatti il processo come rituale di potere. Un giornalista dello "Spiegel", nel marzo del 1967, citò Teufel in tribunale con l'accusa di vestire abiti che erano "una profanazione totale dei canoni occidentali di abbigliamento" ("Der Spiegel", n. 29, 1968). Di questo processo sono divenute leggendarie le risposte di Teufel al Pubblico Ministero che gli ordinava di alzarsi in piedi; una tra queste fu: "E va bene, se può aiutarvi a trovare la verità...". Bastò una battuta per smontare le pretese della giustizia. Quando Teufel fu invitato a sottoporsi a una perizia medica, accettò "a condizione che anche i membri della corte e il Pubblico Ministero acconsentano a farsi visitare da uno psichiatra".
La K1 simboleggia una fase del movimento antiautoritario che mirava a processi di apprendimento permanenti e di stimolo per il cambiamento autogestito. Può darsi che loro forme di azione ritualizzate cadessero "nell'inevitabile vortice del recupero", e che Teufel, Langhaus e compagni fossero "provocatori spiritualmente super-allenati della società capitalista dei media e dei suoi ligi esecutori". A ogni modo, essi contribuirono allo sviluppo dell'azione spontanea e collettiva, nonché all'autorganizzazione per l'emancipazione della soggettività sociale. I comunardi opposero la creatività alla violenza di Stato, la vivacità alle armi, la passione alla brutalità, la lingua al manganello.
La K1 segnò l'immagine sociale del '68, anche se nel Gruppo di opposizione extraparlamentare (APO) prevalse alla fine la politica. Le divergenze sempre più forti portarono nel '67 all'esclusione della K1 dalla SDS per "immediatezza sbagliata", "sovrastima" e "fuga dalla realtà". A dispetto di tutte le differenze d'opinione la K1 continuò le sue azioni, in parte anche assieme agli aderenti del SDS. Alla fine, il progetto K1 morì nel corso del '68 per le contraddizioni interne.
Contemporaneamente andò formandosi il "Consiglio centrale dei ribelli fumatori vaganti", pseudonimo coniato come canzonatura dei gruppi politici studenteschi. I ribelli fumatori predicavano una politica militante e il rifiuto in toto delle leggi esistenti sugli stupefacenti, organizzavano smoke-ins al Tiergarten di Berlino, fornivano assistenza legale ai fumatori denunciati e reclamavano la legalizzazione delle droghe. In un loro volantino si poteva leggere: "Lottiamo per la libertà di decisione sul proprio corpo e stile di vita. Unitevi a questa lotta. Formate quadri militanti nei villaggi e nelle metropoli. Sparate sulla società dei bacchettoni e dei tabù. Siate selvaggi e fate cose belle". Da questo ambiente proveniva una parte del Movimento 2 giugno, che a differenza della Raf mantenne reminiscenze delle forme di azione antiautoritarie. (Durante alcune rapine in banca, le distribuì cioccolatini ai clienti terrorizzati).

(da "autonome a.f.r.i.k.a. gruppe, Luther Blisset, Sonja Brünzels - Comunicazione-guerriglia Tattiche di agitazione gioiosa e resistenza ludica all'oppressione" - DeriveApprodi)

lunedì 10 novembre 2008

Non lavorate mai!



Nel 1953 Debord tracciò su un muro della Rue de Seine lo slogan "Ne travaillez jamais". Egli ha considerato per tutta òa sua vita questa scritta di enorme importanza, e lo ha scritto nella sua autobiografia, "Panegirico". Le tre parole contengono un intero programma, e lui era geloso dell'uso e abuso che della scritta poteva essere fatto. La seguente lettera è in risposta alla pubblicazione di una cartolina che conteneva lo slogan.


Al "Cercle de la Librairie"
117, bd Saint-Germain
Paris 6

Parigi, 27 giugno 1963

Signori,

Le edizioni Bernard mi hanno trasmesso la Vostra lettera del 21 giugno 1963, con la quale mi chiedete un indennizzo di 330 Franchi per la mancata osservanza della legge sulla proprietà artistica. Infatti, il numero 8 della nostra rivista contiene, a pagina 42, la fotografia di una scritta su un muro, "NON LAVORATE", una foto tratta da una cartolina del Signor Buffier, il cui nome non è menzionato e la cui autorizzazione preventiva non è stata richiesta.

Si dà il caso che io sia personalmente l'autore di tale scritta sulla Rue de Seine, la cui origine, se necessario, potrà essere stabilita con l'ausilio di dieci o quindici testimoni oculari. Lei capirà che in queste condizioni io, in buona fede, non ho dovuto pensare ad ottenere unarichiesta di autorizzazione per la riproduzione, anche se quest'ultima fosse stata meno onerosa rispetto alla somma che avete ora fissato (secondo la scala stabilita nel 1962 da parte della stampa unione per periodici con una tiratura di meno di 10.000 copie, la riproduzione fotografica per meno di mezza pagina costa 20F).

Non posso che approvare la vostra difesa della proprietà artistica, che è troppo spesso ignorata. Vorrei dire che a questo proposito la foto pubblicata nella "Internationale Situationniste" è ritoccata in modo tale che si riproduce solo la parte della cartolina del Signor Buffier che riguarda propriamente il documento (la scritta stessa), questo escludendo quelle caratteristiche che conferiscono a questa cartolina impronta artistica del Signor Buffier. Cioè, l'elaborazione grafica da lui scelta ed anche il titolo da lui dato questo tema, le cartoline in questa serie hanno tutte, in basso a sinistra dell'immagine, una didascalia che ne commenta il significato (in questo caso, "Avvertimento superfluo" ). Per quanto riguarda il terzo elemento, si riconosce che, nel misurare la responsabilità artistica di una fotografia - e con questo intendo la scelta di un tema - sembra che su questo punto io possa rivendicare la proprietà creativa che è uguale e, probabilmente, eclissa i meriti del gusto artistico del Signor Buffier, che si limita in questo caso ad una semplice scelta riproduttiva.

Per arrivare al cuore della questione della proprietà artistica, vorrei assicurarvi che non ho in alcun modo voluto chiedere una porzione delle entrate derivanti dalla vendita di questa cartolina, o un'indennità per la sua riproduzione non autorizzata. Ma c'è un altro aspetto, a mio parere più importante. La scritta in questione è stata fatta in un altro periodo, e senza alcuna ambiguità è stata presentata dall'avanguardia del movimento situazionista (cfr. il titolo di questa illustrazione a pagina 42 della nostra rivista), come un importante segno del clima artistico di un'epoca, e come un momento per lo sviluppo delle teorie di questo movimento artistico, teorie che hanno pretesa di una certa serietà. Ma il Signor Buffier, con la sua personale interpretazione di tale scritta, la quale non compare nel numero 8 dell'Internationale Situationniste, se ne fa gioco per mezzo del suo umorismo. Il titolo dato dal Signor Buffier, infatti, è "Avvertimento superfluo." Dal momento che è bene sapere che la grande maggioranza delle persone lavora, e che detto lavoro, nonostante la forte repulsione, è imposto alla quasi totalità dei lavoratori da uno schiacciante vincolo, lo slogan "NON LAVORATE MAI" non può in alcun modo essere considerato "Avvertimento superfluo." Questo termine del Signor Buffier implica che una tale disposizione viene già, senza saperlo, seguita da tutti, e quindi getta il discredito più ironico sulla mia scritta e, di conseguenza, sulle mie idee e su quelle del movimento situazionista, di cui ho l'onore di redigere la rivista in lingua francese.

Nel caso poi che la questione non possa essere risolta in via amichevole, come voi dite, mi sembra che, costretto a dimostrare che l'originale di tale iscrizione deve essere attribuita a me, sarebbe in mio diritto chiedere la revoca della vendita di cartoline che presentano la fallacemente divertente interpretazione, almeno fino a che non venga stampato su di esse una menzione che riconosce le serie intenzioni dell'autore originale.

Per quello che riguarda una soluzione amichevole, che preferirei, credo le modalità, in primo luogo, dipenderanno dalla posizione che il Signor Buffier adotterà quando verrà a conoscenza dei nostri reciproci diritti e obblighi in questa vicenda, in seguito a queste informazioni supplementari che vi chiedo di trasmettergli.

Cordiali saluti
Guy Debord

venerdì 7 novembre 2008

Das Kapital



La crisi finanziaria, fra i tanti effetti, "rilancia" Il Capitale di Karl Marx, che torna ad essere venduto nelle librerie!
Qui se ne può leggere il Compendio, scritto da Carlo Cafiero!

sindacati ieri, oggi e domani



Il primo Congresso Operaio Internazionale si riunì a Ginevra nel 1866. Marx scrisse, per tale congresso, su richiesta del Consiglio Generale, una proposta dettagliata sui sindacati.


Società Operaie (sindacati), il loro passato, il loro presente, il loro futuro.

a) IL PASSATO:
Il capitale è la forza sociale concentrata, mentre il lavoratore non dispone che dellla propria forza produttiva individuale. Quindi, il contratto tra capitale e lavoro non può mai essere stabilito su basi eque. L'unico potere sociale che hanno gli operai è il loro numero. La forza del numero è compensata dalla disunione. La disunione dei lavoratori è causata e perpetuata dalla inevitabile concorrenza tra di loro. I sindacati (associazioni di mestiere) sono nati originariamente da un processo spontaneo dei lavoratori in lotta contro il dispotico ordine del capitale, al fine di prevenire o almeno attenuare gli effetti di questa concorrenza fra i lavoratori: volevano cambiare i termini del contratto in modo che almeno potessero elevarsi al di sopra del semplice status di schiavi. L'obiettivo immediato dei sindacati è tuttavia limitato alla necessità delle lotte quotidiane fra il lavoro e il capitale, alla ricerca di opportunità contro il furto incessante da parte del capitale, in una parola a questioni di salario e orario di lavoro. Tale attività è non solo legittima, è anche necessaria . Essa non può essere revocata fino a quando durerà il sistema attuale : al contrario, i sindacati dovrebbero generalizzare la loro azione in accordo fra loro.
D'altro canto, i sindacati hanno formato al loro interno dei centri di organizzazione della classe operaia, così come i comuni e le municipalità nel Medio Evo avevano fatto per la classe borghese. Se i sindacati, nella loro sorgere, sono elementi essenziali per la guerra di schermaglie fra lavoro e capitale, sono ancora più importanti nella loro procedere, in quanto organismi di trasformazione del sistema di occupazione e di dittatura capitalista.

b) IL PRESENTE:
I sindacati si occupano troppo esclusivamente delle lotte immediate. Non hanno affatto compreso il loro potere d'azione contro il sistema capitalista stesso. Tuttavia, negli ultimi tempi, hanno cominciato a percepire la loro grande missione storica. Esempio, la seguente risoluzione recentemente approvata dalla Conferenza delegati provenienti da vari delegati dei sindacati di mestiere tenutasi a Sheffield:
"Questa conferenza, apprezzando gli sforzi compiuti dalla Associazione Internazionale dei Lavoratori per unire in un vincolo fraterno i lavoratori di tutti i paesi, raccomanda molto seriamente a tutte le società rappresentate di aderire a questa Associazione, nella convinzione che l'Associazione Internazionale costituisce un elemento necessario per il progresso e la prosperità di tutta la comunità operaia. "

c), IL FUTURO:
Al di là della loro immediata reazione contro le manovre tracotanti del capitale, essi devono ora agire consapevolmente come organizzatori della classe operaia per il grande obiettivo della sua emancipazione radicale. Essi devono contribuire ad aiutare tutte le forze sociali e politiche in questa direzione. Devono considerarsi, e devono muoversi, in qualità di campioni e di rappresentanti di tutta la classe operaia, così riusciranno a comprendere nel loro seno i "cani sciolti" (gli uomini che non fanno parte di associazioni), occupandosi delle industrie più miseramente retribuite, come il settore agricolo dove circostanze eccezionalmente sfavorevoli hanno impedito qualsiasi resistenza organizzata, essi faranno nascere nelle grandi masse di lavoratori la convinzione che invece di essere limitato agli obiettivi corporativi, il loro fine è quello di emancipare milioni di proletari continuamente calpestati.

Karl Marx

giovedì 6 novembre 2008

Quelli di Oviedo



Quelli di Oviedo (1934)

Testi: Paolo Lançois
Musica: Paolo Arma

Per tutta la terra
Ogni proletario
Sente il fremito di una grande speranza.
Quelli di Oviedo, uno splendido inizio
Di colpo, si sono scrollati di dosso il loro giogo,
Hanno preso il potere,
Quelli di Oviedo.

Questi ragazzi duri e tranquilli
Dal fondo della miniera ostile
Armati con l'esplosivo dei cantieri
Celato sotto il mantello nero
Hanno preso d'assalto palazzi e ville.
Eroi operai
Quelli di Oviedo.

Con la brace dele loro sigarette,
Accendono la miccia
Delle loro granate di ferro bianco,
Per giorni hanno respinto
I mercenari scatenati contro di loro
Dai governanti,
Ad Oviedo.

Quelli, senza sostegno né protezione,
In piena battaglia
Hanno protetto le persone, i beni.
In mezzo all'orrore di una lotta senza quartiere
Essi stavano preparando una più giusta sorte:
I diritti ed il pane,
Quelli di Oviedo.

Tremante d'odio
Vile e disumano,
La reazione li ha sterminati.
Un esercito intero a colpi di cannone,
Ha fatto di Oviedo una tomba senza nome.
Ovunque si tremava,
Per Oviedo.

L'amara borghesia
Nonostante le uccisioni,
Non avrà una sola ora di tregua
Il popolo intero rabbrividisce di orrore,
Il giorno si avvicina, con il suo ardore,
Saranno ben vendicati
Quelli di Oviedo.

mercoledì 5 novembre 2008

Election Day

A colori



Jamey Johnson è un illustre sconosciuto. Ma, forse, è anche l'ultimo discendente di una genìa di "outlaws", quelli che negli anni '70 erano convinti di poter mettere a soqquadro Nashville con la loro autenticità e sincerità. Tre accordi e la verità, ancora una volta. E un disco. Quattordici tracce di verità.
"Avevo un lavoro e un pezzo di terra e la mia dolce moglie era la mia migliore amica, ma ho tradito tutto per la cocaina e una puttana ..."
.
D'accordo, sentimentalismo e intimità da bancone del bar. Romanticismo fuori tempo massimo. Tutto quel che si vuole. Ma è vero. Ascoltatelo, compratelo, scaricatelo rubatelo! E' Jamie Johnson, ed è "That Lonesome Song".


L'idea per questa canzone - racconta l'autore - mi è venuta durante una conversazione a proposito di Bill Anderson. Un giorno mi sono imbattuto in Lee Miller che mi ha detto: "Ero nell'ufficio di Bill, l'altro giorno, e l'ho visto che guardava una vecchia foto in bianco e nero di sé stesso all'inizio della sua carriera." Lee ha aggiunto:"Io stavo guardando solo una foto, ma Bill stava guardando un pezzo della sua vita, dentro a quella foto." E allora risposi "Wow, allora avresti dovuto vederla com'era a colori".

A colori
di Jamey Johnson, Lee Thomas Miller, James Otto

Ho detto nonno cos'è questa foto qui tutta in bianco e nero non è davvero chiaro se quello sei tu. Ha detto sì avevo 11 anni erano tempi difficili nel '35 questo sono io e zio Joe cercavamo solo di sopravvivere in una piantagione di cotone durante la grande depressione.

Se sembra che fossimo spaventati a morte come un paio di ragazzini che cercano di aiutarsi l'un l'altro, allora avresti dovuto vederla a colori.

Oh e questa qui è stata presa in mare nel mezzo dell'inferno del 1943 nel periodo invernale e si può quasi vedere il mio respiro quello era il mio mitragliere di coda il vecchio Johnny Magee era un insegnante di scuola superiore da New Orleans e mi ha protetto le spalle finché non è finita.

Se sembra che fossimo spaventati a morte come un paio di ragazzini che cercano di aiutarsi l'un l'altro, allora avresti dovuto vederla a colori.

Un'immagine vale quanto un migliaio di parole, ma non puoi vedere cosa nascondono quelle tonalità di grigio avresti dovuto vederla a colori.

Questa è la mia preferita. Si tratta di me e di tua nonna al sole d'estate tutti vestiti a festa il giorno in cui ci siamo sposati. Non lo si può dire dalla foto, ma era caldo quel giugno e quella rosa era rossa e i suoi occhi erano blu e basta dare uno sguardo a quel sorriso ero così fiero. Quella è la storia della mia vita messa lì in bianco e nero

Se sembra che fossimo spaventati a morte come un paio di ragazzini che cercano di aiutarsi l'un l'altro, allora avresti dovuto vederla a colori.

Un'immagine vale quanto un migliaio di parole, ma non puoi vedere cosa nascondono quelle tonalità di grigio avresti dovuto vederla a colori.

Si avresti dovuto vederla a colori.

Si un'immagine vale quanto un migliaio di parole, ma non puoi vedere cosa nascondono quelle tonalità di grigio avresti dovuto vederla a colori.