giovedì 29 novembre 2007

Il reato del corpo



"Il romanzo noir dell'epoca d'oro era il lamento della creatura oppressa e il cuore di un mondo senza cuore. Adesso la creatura oppressa non si lamenta più, incendia i commissariati e gambizza gli uomini di stato."
Jean-Patrick Manchette - 1978 -

Sono curioso di vedere, stasera alle 17 e rotte, il dibattito che si terrà a ESC a proposito del "noir" e delle politiche securitarie (presenti fra gli altri Serge Quadruppani e Girolamo De Michele), nel quadro della quattro giorni romana dal titolo "il corpo del reato".
E' un buon momento questo, per il noir letterario (un po' meno per quello cinematografico), e senza dubbio emergono tutta una serie di suggestioni a fronte delle prospettive che si aprono quando la realtà irrompe a pieno titolo dentro la finzione. Ne hanno da guadagnare entrambe, realtà e finzione! Del resto, ci muoviamo su un territorio in qualche modo tracciato e il noir si è posto fin dall'inizio come il genere della "critica violenta della società".
Sì, credo, che il romanzo di genere, in questi ultimi anni, sia diventato lo strumento principe per indagare la realtà, per conoscerla, per dirla, per dire.
Dal corpo del reato al ... reato del corpo, mi vien da "detournare"; laddove è il corpo ad essere diventato il reato più pericoloso per la società. Il corpo che vuole, che cerca di vivere. E' il corpo quello che va controllato, ingabbiato, deprivato della sua aria, del suo cibo, della sua vita.
Letteratura di genere e politiche securitarie: e qui come non partire da un un libro come "Watchmen", scritto da Alan Moore e disegnato da Dave Gibbons, che ci mette in guardia, ponendo la fatidica domanda su chi mai sorvegli i sorveglianti!
E tocca andare avanti, da Giovenale, fino a portare Orwell a San Francisco. Eppure Orwell non è mai stato un scrittore di gialli, e ancor meno di noir; anzi detestava profondamente tutto quanto sapeva di "Yank Mags" (riviste "pulp", per intendersi).
Però George Orwell sarebbe perfetto come protagonista di un libro dove è lui ad indagare. Fra paranoie securitarie e tecnologie di spionaggio diffuse, l'autore di "1984", con il suo bagaglio di storie e di disillusioni, potrebbe fare la differenza, dal momento che non dovrebbe essere sufficiente, per fare una buona storia, che quelli di destra siano i cattivi e quelli di sinistra i buoni.

mercoledì 28 novembre 2007

Anonimi Protagonisti



Il barbiere si fa riprendere dalle telecamere davanti al suo negozio in un sobborgo a qualche chilometro da Parigi. Si è visto spaccare la vetrina, per ben due volte in 48 ore.
Verrebbe da dirgli che forse è stato un po' coglione a farla rimettere, dopo la prima volta, data la situazione! Ecco, la situazione, credo sia questo il punto. Il rendersi conto, davvero, della situazione. Di quello che sta succedendo nei sobborghi parigini, di quello che succede la domenica negli stadi.
Ammetto che conservo il vizio di leggere (e, a volte, ci metto anche qui il "link" nelle "letture condivise") quello che scrivono, a proposito di imperi, moltitudini ed altri ammennicoli, gli "onimi" oramai non più protagonisti da almeno trent'anni. Non è l'intelligenza, quel che manca loro, ché l'hanno sempre avuta! Ma ne manca l'uso, dell'intelligenza.
Sarà che forse son diventati ciechi, per cui si trovano a montare i fotogrammi che provengono dalla loro testa.
Istituzioni, comune, governance, moltitudine, sciame, esodo.
Sembrano formule magiche, esorcismi.
L'intelligenza, ed il suo uso, sta altrove.
Sta nei rivoltosi che attaccano la polizia, adoperando come scudi le portiere divelte dalle automobili, prima che vengano date alle fiamme.

martedì 27 novembre 2007

Cartoline da Parigi

Le porte grigie del potere



Ci sono delle porte, grigie, dove lavoro. Ce n'é più d'una ad ogni piano e servono a separare, a delimitare, a dividere. Queste porte, quando è stata fatta la suddivisione del vecchio palazzo delle imposte in due uffici, due agenzie delle entrate, ciascuna con competenze territoriali diverse, però nello stesso immobile, servivano semplicemente a dire che qui finisce un ufficio e là ne comincia un altro. Nient'altro. Le porte venivano superate - è successo per anni - e da una parte e dall'altra, in entrambi i sensi. Si faceva forza sulle maniglie anti-panico e si risparmiavano parecchie decine di metri, ed a farlo era sia chi ci lavorava, negli uffici, sia che ci veniva per altri motivi, non certo per divertimento!
Poi, un giorno, da qualche parte, alla direzione regionale, decisero che era l'ora di farla finita. Così. Le porte dovevano essere "allarmate" e nessuno doveva attraversarle per diporto, ma solo nel caso di un reale pericolo. Così avvenne che il personale degli uffici "insorse" e la direzione regionale dovette venire a più miti consigli. Il progetto di allarmare le porte fu abbandonato, i fermi (quelli che si sarebbero rotti ad ogni apertura di porta) vennero rimossi (tanto erano già rotti!) e si stabilì che il transito dei dipendenti era ammesso. Ma non quello dei "clienti" (già contribuenti). A questo punto, qualsiasi persona sensata alzerebbe le spalle sorridendo all'idea che si potesse avverare tale discriminazione, e invece...
Invece - e adesso sono anni - si trova sempre qualche volenteroso pronto a rincorrere il malcapitato e a sbattergli sul muso il divieto improvvido! E qui, vien da chiedersi come sia possibile che della gente che non ha alcun interesse insegua il potere, ne elemosini il ruolo?
Come se il potere fosse così diffuso da non coincidere necessariamente con l'interesse. Ogni sorta di categoria viene invitata ad esercitare poteri polizieschi. Nella forma più arcaica, più puerile, più infantile. Quasi fosse la lotta del bene contro il male, dell'ordine contro il disordine.
Ecco, forse è questo che bisogna fare: riuscire a lottare contro tutte le forme di potere, laddove si è ad un tempo oggetto e strumento del potere.
Come se fossimo in una prigione...

lunedì 26 novembre 2007

Insieme a te non ci sto più!



Ritengo inconfutabile quanto recava scritto quello striscione, sabato scorso, a proposito del fatto che "La violenza sulle donne non ha colore, né religione, né cultura, ma solo un sesso"!
Anche se, per amore di speculazione, sarei più portato a precisare che la violenza sulle donne, piuttosto, ha molti colori, molte religioni, molte culture. Però ha solo un sesso, quello dei violentatori, maschile!
Un corteo di sole donne, già, e perché no? Ne ricordo altri di cortei di sole donne, in altri tempi. E forse ben poco è cambiato da allora, ma credo che rimanga, e sia, un diritto di chi si vuol separare, il separatismo. Anche unilateralmente. Anzi, a maggior ragione!
Anche se non l'ho mai condiviso. Preferisco, assai di più, la foto dei funerali di Bobby Hutton, leader delle Black Panthers, in cui risalta, in primo piano, l'incarnato chiaro di Marlon Brando.
Iconografie, certo!
Ma avrei voluto vedere, le femministe, scegliere fra la Prestigiacomo e Marlon Brando!
E, mi verrebbe da dire, anche fra "le donne della cgil lombardia", quelle che si sono dissociate "decisamente" da chi ha contestato ministre e minestrine.
Loro (quelle della cgil) si sa, sono più portate ad associarsi alla confindustria, per bocca dei vari Epifani. E chissà se anche quella di Epifani, e della cgil, è violenza ... contro le donne?

venerdì 23 novembre 2007

Animali



Uno zoo, e quattro animali in fuga. Potrebbe essere uno dei tanti soggetti disneyani, dove animali antropomorfizzati - nel carattere se non nelle sembianze - si muovono e vengono mossi per una di quelle storie un po' edificanti e un po' divertenti destinate a quello strano soggetto denominato "famiglia". Solo che i quattro leoni che si ritrovano spalancate le porte della libertà, a causa di uno dei tanti bombardamenti americani sul suolo irakeno, sono ospiti dello zoo di Baghdad ed il mondo che si ritrovano ad affrontare, laffuori, è assai più pericoloso ed imprevedibile di qualsiasi habitat animale per quanto selvaggio possa essere!
Una metafora, forse, sulla libertà e sui suoi percorsi e significati. Oppure un discorso sulla sopravvivenza. Entrambi giocati sulla caratterizzazione dei quattro animali protagonisti della storia, ciascuno a modo suo. Qualcuno riottoso, qualcuno ingenuo, qualcuno arrogante. Tutti con ferocia e con orgoglio.
L'umanità è assente nella "graphic novel", mutuata solo dalla presenza di altri animali che propongono, in qualche modo, gli aspetti diversi del fattore umano. Testuggini e scimmie, su tutti. L'umanità è assente quasi del tutto, nella storia, se non con la presenza dei suoi manufatti.
Salvo mettere la parola fine nelle ultime tavole, quasi con distacco.
La violenza è dappertutto, e non solo nella realtà della guerra. Ma anche nei ricordi della libertà passata. La violenza è la risposta, sempre. L'unica. Ma anche lo stare insieme, uniti, per andare avanti in un mondo spoglio ed ostile, accanendosi a cercare qualcosa che possa esserci.
Un orizzonte.
Quello stesso orizzonte che una volta - mi ricordo - ho visto negli occhi di una scimpanzé, rinchiusa nello zoo di Barcellona. Mi guardò a lungo, da lontano, poi depose piano e dolcemente il piccolo che stava allattando, attaccato al seno. Cominciò a dirigersi verso la parete di vetro spesso che separava il mio habitat dal suo. Aggrappò le sue lunghe braccia, spalancandole, al corrimano che, dalla sua parte, in basso seguiva tutta la recinzione. Cominciò a dondolarsi, lentamente e ritmicamente, senza smettere di guardarmi dentro gli occhi. Poi staccò una mano e l'appoggiò contro il vetro, aspettando per qualche interminabile secondo che io, dalla parte opposta, facessi altrettanto. Restammo a guardarci finché non decise che la cosa era durata abbastanza, poi lentamente, come era arrivata, tornò dal suo piccolo che era rimasto ad aspettarla.
Animali in uno zoo! Quali?

Brian K. Vaughan & Niko Herinchon - L'Orgoglio di Baghdad - Planeta DeAgostini - 14 euri e 95 (vabbé facciamo 15!)

giovedì 22 novembre 2007

Romantico!



"Parlami! Ti ho invocato nelle notti
serene, ho spaventato gli uccelli
addormentati tra i silenziosi rami,
per chiamare te ...
Ho risvegliato i lupi montani
ho appreso alle caverne a riecheggiare
invano il nome tuo adorato; tutto
rispose, tranne la tua voce. Parlami!
Ho errato sulla terra e non ho mai
trovato a te l'uguale. Parlami!
T'ho cercato tra stelle a vanire,
ho contemplato il cielo inutilmente,
senza trovarti mai. Parlami! Guarda,
i demoni a me attorno hanno pietà
di me che non li temo ed io ho pietà
per te soltanto. Parlami! Sdegnata,
se vuoi, ma parlami! ... Dimmi ...
non so che cosa, ma che io ti senta
una volta ancora ..."


I più bei versi d'amore mai scritti, a mio avviso, sono di Byron, e Carmelo Bene li ha tradotti, e resi, in modo sublime nella sua rappresentazione del Manfred. I versi d'amore, incestuoso e tragico, recitati dentro una rappresentazione dove il romantico scivola quasi nel gotico.
E' a suo agio, Bene, dentro il romanticismo sfrenato di Byron, quasi a sugellare quanto detto da Bernward Vesper quando nel suo "Il Viaggio" affermava che al di fuori del romantico esiste solo il ... cretino!

mercoledì 21 novembre 2007

Profezie



Era il marzo dell'anno 2000, e si parlava di abolire la disposizione della costituzione che vietava alla famiglia Savoia di mettere piede sul territorio italiano. Frequentavo allora il newsgroup it.fan.musica.guccini, dove si poteva trovare di tutto! Nella discussione che vi prese piede, fra le altre cose, mi trovai ad argomentare che:

"Comunque, piùcchealtro, farei attenzione al fatto che, nelle mire di
questi individui, il rientro in italia è solo il primo passo.
Subito dopo verrebbero a batter cassa, e passerebbero ad esigere la
restituzione dei beni."

il thread è consultabile su: google groups http://groups.google.com/group/it.fan.musica.guccini/browse_frm/thread/e42fe0352e0eea0c/

E' davvero divertente scoprirsi profeta, benché facile.
Scommettiamo che la vincono, la causa?

L'arte dei figli



Stasera, al Be Bop di Firenze, per "stazione cantautori" (rassegna curata da Massimiliano Larocca), suonerà e canterà Will T. Massey, una vecchia conoscenza del cantautorato americano, un disco d'esordio fulminante e poi un po' di silenzio. Con ogni probabilità, gli è tornata voglia di cantare. E quindi canta. Una leggenda, a modo suo, nel panorama musicale. Ad aprire il concerto, stasera, una "mia" leggenda, Luca Mirti dei Del Sangre. A mio avviso, il miglior cantautore in circolazione in Italia. E, curiosamente, ieri, quasi per caso, inseguendo una recensione di "rootshighway" a proposito del figlio di Steve Young che già si era messo a cantare anche lui (e io non lo sapevo) ma che ha tirato fuori, dopo qualche anno dal primo ("Not Another Beatiful Day"), un gran disco il cui titolo è il nome. "Jubal Lee Young" per l'etichetta Palo Duro. Non so dove il babbo, o la mamma, o entrambi, abbiano trovato un nome come Jubal, ma il DNA del padre si sente, e bene. Ma quello che ho sentito, e non credo di essere il solo, è una straordinaria somiglianza con il modo di cantare di Luca. Basta andare su myspace ed ascoltarsi "I might be crazy"! Ad ogni modo, le canzoni sono splendide, da "Greed is the Creed" a "The window song" fino all'unica "cover" presente sul disco, "Deep South Blues", scritta dalla madre Terry Newkirk (evidentemente, non era solo il DNA del babbo!).

Cose di cui ti stupisci solo quando piove
di Jubal Lee Young

Come si può essere talmente meravigliosi
da fare male a guardarli?
Perché i cuori che vuoi spezzare sono sempre d'oro?
Come si può amare qualcuno così tanto da star male?
E sarai sempre lo stesso?
Perché il poeta trova godimento nella sofferenza?

Ti meravigli che io abbia perso tutto questo tempo?
Chiedendoti perché il sole si rifiuti di splendere
Mi domando perché non possiamo fare l'amore
Fino a che non rimanga altro che l'amore
Cose che ti domandi solo quando piove

Com'è possibile che alla fine andrà tutto bene
Quando mi sento così come mi sento adesso?
Impareremo a riconvertire in aratri le nostre spade?
Se ottengo qualsiasi cosa abbia mai voluto
Cosa mi rimane da volere?
Perché le ferite più profonde vengono inflitte dagli amici più veri?

Ti meravigli che io abbia perso tutto questo tempo?
Chiedendoti perché il sole si rifiuti di splendere
Mi domando perché non possiamo fare l'amore
Fino a che non rimanga altro che l'amore
Cose che ti domandi solo quando piove

martedì 20 novembre 2007

Non ne ho voglia



Stasera, come molte delle mie sere, mi sono messo seduto, davanti allo schermo, per preparare l'ennesimo messaggio da infilare dentro la bottiglia di questo strano recipiente chiamato blog.
Ho passato in rassegna i pensieri (sono uno di quelli per cui "pensiero" non è sinonimo di preoccupazione), gli eventi della giornata - quelli del mondo ed i miei, che assai spesso non coincidono - gli amori, di tutti i generi e di tutte le classi. Ho assaporato la misura, l'intensità e il sapore del vuoto. Ho soprasseduto circa il parlare del "Potlatch" (sia una cerimonia nativa americana che il titolo del disco d'esordio di una band dallo strano nome di "Bean Pickers Union" - lo traduca chi vuole-). Ho anche scosso il capo all'idea di sviluppare un concetto sitazionista a proposito della differenza fra "monopolio dell'intelligenza" e monopolio dell'utilizzo della stessa. Insomma ho evitato di percorrere il territorio consueto della provocazione, così come quello, altrettanto consueto, dei miei interessi. Avrei potuto raccontare una storia, vera o presunta, recente o remota. Forse qualcuna ce l'avrei! Ma non ne ho voglia. Non ho voglia di andare a fondo (simpatico il gioco di parole), non ho voglia di approfondire, non ho voglia di "scannarmi". Eppure, l'esercizo, il tentativo, come altre volte, ha prodotto una piccola sfilata di pensieri e di ricordi. Ma stasera ho voglia di leggerezza, di non esser io. Di "pensarci domani". Anche se, francamente, di infischiarmente non mi è riuscito mai.

salud

lunedì 19 novembre 2007

Edmond Dantès a Genova



Non sono andato a Genova, venerdì scorso! Forse memore dell'avvertimento con cui Carletto ci metteva in guardia a proposito del fatto che la storia ha l'abitudine di ripetersi, due volte in tutto. La prima volta in forma di tragedia, la seconda in quella di farsa.
Di sfilare sotto gli auspici, e i megafoni, degli Agnoletto e dei Giordano non ne avevo punta voglia, così mi sono astenuto. Confortato, a posteriori, nella mia scelta, dall'aver visionato la galleria fotografica, sul sito di Repubblica, che ammanniva una pletora di fotografie di preti e di mamme-col-figlio-ammazzato che invocano a gran voce una "polizia formata". E si sa, farsi ammazzare il figlio da un "poliziotto formato", piuttosto che da un burino come Placanica, deve fare tutto un altro effetto.
Poi, su una delle tante foto ho visto la schiena di un "uomo-sandwich" che proclamava, nero su giallo:
"La vendetta non ci appartiene
La Giustizia è obbligo per noi tutti."
Vendetta, e mi è tornato in mente Ignacio Taibo II (cui il sentimento di vendetta pertiene) che, parlando a proposito della sua biografia di Pancho Villa, faceva notare come si può, da giovani, aver letto Marx e ritrovarsi dall'altra parte, pur mantenendone la memoria. Difficilmente, invece, - aggiungeva - se si è letto Dumas e il suo Conte di Montecristo, e partecipato del suo sacrosanto sentimento di vendetta, si può finire da altre parti!
Finire - mi vien da dire - ad invocare la violenza dello stato, chiamandola giustizia, in un gioco ipocrita che delega la punizione. Una punizione senza sentimento. Fa quasi il pari col continuare a chiedere, sempre allo stato e ai suoi organi, una verità di cui si è benissimo già a conoscenza.
Come se lo stato fosse capace di verità e di giustizia!

venerdì 16 novembre 2007

Leggere



"Mi sembra, poi, che si debbano leggere solo i libri che ci mordono e ci pungono. Se il libro che stiamo leggendo non ci sveglia con un cazzotto in testa, perché leggerlo? Per renderci felici, come dici tu? Dio mio, saremmo felici lo stesso anche senza aver libri, e di libri che ci rendono felici potremmo scriverne, a rigore, noi stessi. Invece, abbiamo bisogno di libri che agiscano su di noi come una sciagura che ci addolori, come la morte di qualcuno che amiamo più di noi stessi, come se fossimo proscritti, condannati a vivere nelle foreste, lontano dagli uomini, come un suicidio - un libro dev'essere l'ascia che rompe il mare di ghiaccio dentro di noi, Ecco come la penso."

Franz Kafka, in una lettera a Oskar Pollak

giovedì 15 novembre 2007

It's Only Rock'N'Roll



"Volete sapere cos'è successo a Elvis, ve lo dico io cosa gli è successo, io lo so perché ero uno dei suoi - stavo dalla sua parte. Fummo la prima ondata del boom nel dopoguerra; la generazione prima era appena uscita dalla depressione e dalla seconda guerra mondiale, storie tese per chi aveva dovuto sopportare tutto quel peso. La loro musica era una specie di svuotamento emotivo, beh ogni cultura ha le sue canzoni, quel che ti porta la vita - ad ogni modo, quella musica era fatta di emozioni frustrate, capite no, come non voler ballare perché non si sapeva come fare, il che dice qualcosa di strano. Proprio allora arrivò Elvis, a dieci anni dall'atomica quando gli unici generali che l'America aveva, come unico esercito, erano Ike e Mac e per tutto il paese si era diffuso il torpore come una piaga. Nel frattempo tutti cercavano di liberarsi materialmente ma lo stordimento era ancora troppo per capire e sentire quello che stava accadendo; poi quando iniziò Elvis col rock, presto si prese a rollare - per capirci, The Beaver con quel suo grigiore sapeva farci vedere soltanto un futuro prevedibile. Chi aveva voglia di essere come Ward e June - è vero, papà non conobbe mai niente di meglio, era ancora fuori per essere sopravvissuto alla guerra. Ma ci fu come un richiamo psicotico, così diffuso che iniziò a essere considerato normale. Un uomo di peso, che faceva sul serio: Elvis ci mostrò una via d'uscita, mostrò a tutti i ragazzi l'uomo e a tutte le ragazze la donna, che è bello star bene, lui fu un profeta per tutti i ragazzi e le ragazze - mamma e papà, a qualcuno avevano mentito, perché c'era qualcosa di lui che ci diceva quanto fosse bello essere sensuali. Mamma e papà di qualcuno ci lasciarono andare a ballare, ma le ragazze no - loro non potevano divertirsi e se piaceva erano cattive. Per i ragazzi no, i ragazzi sono ragazzi, non sentono, prendi ciò che puoi e sposa una a posto quando il divertimento è finito. Insomma, non importava cosa facevamo, eravamo tutti colpevoli; forse i padri e le madri di qualcuno erano risentiti per qualcosa che a loro era mancato e mentre tentavano di far ricadere questo su di noi, per la prima volta cominciammo noi a decidere da soli. La prima ondata si ribellò, nel senso che si ballava anche senza essere capaci. Elvis ci faceva muovere, invece di farci star lì fermi e muti, fece sentire la nostra voce e quando la sentimmo anche per noi qualcosa stava già cambiando; per la prima volta avevamo preso una decisione collettiva circa le scelte. L'America si affrettò a fare Pat Boone generale dell'esercito nel quale ci volevano vedere arruolati, ma gran parte di noi restò con Elvis e i suoi comandanti: Chuck Berry, Buddy Holly, Little Richard, Gene Vincent, Bo Diddley. Una nuova guerra civile, prendete "Don't Be Cruel", "I Want You, I Need You, I Love You" e "Jailhouse Rock" e poi prendete Pat con i suoi calzoni di daino bianchi che canta "Love Letters In The Sand", che diamine amico cosa c'è di reale in tutto ciò, per favore prova a pensare Pat in spiaggia con quei calzoni bianchi e le orecchie bruciate dal sole. Fu proprio questo a dircela lunga sulla delusione della vecchia guardia. Volevano, avevano bisogno di rimanere imprigionati, ma siamo stati tutti in quei posti, dunque cosa si poteva dire di più - quei calzoni bianchi sulla spiaggia significavano solo altri balli composti e in fila, sapete bene di cosa parlo. Per un po' comunque si respiro energia fresca che ci evitò di cadere nel grande sonno; ma non passò abbastanza che Elvis fu assassinato dentro questa fama e gli ci volle un po' per morire. Mentre Elvis staccava la puntina senza rendersi ben conto di cosa aveva provocato, altri presero il controllo della situazione. Sembra quasi che noi fummo il baby boom perché la vita aveva bisogno di un nuovo inizio - non so se mi spiego ma due guerre mondiali di fila è follia pura e Elvis, anche se non sapeva di dirlo ce lo mostrò egualmente e noi, senza renderci conto di averlo sentito, lo ascoltavamo comunque. Fu lui a svegliarci e adesso stanno cercando di rimetterci a dormire; vedremo un po' come andrà a finire. Le cose stanno così: il rock'n'roll è basato su rivoluzioni che vanno ben oltre il 33 giri e 1/3, lo devi capire amico; fu lui il Che Guevara del baby boom in America, io lo so bene, ero nel suo esercito."

John Trudell - Baby Boom Che - da "Aka Graffiti Man" (1986)

mercoledì 14 novembre 2007

Stagolee



C'è una canzone, l'hanno cantata in molti. Da Duke Ellington a Bob Dylan, da Woody Guthrie a Nick Cave, Wilson Pickett e Yom Hardin, i Grateful Dead e I Clash. E questi sono soltanto alcuni fra i tanti. Una canzone, una storia di morte, una "murder ballad", per essere più precisi ed inquadrare la canzone in un canone che ne definisce forma e contenuti. Il testo? Il testo non importa più di tanto, ne esistono talmente tante versioni e adattamenti che sembra quasi che la canzone voglia proprio essere restituita alla tradizione della "storia orale" vera e propria. Una storia, già.
Un uomo che ne uccide un altro, in una città, un giorno, per un cappello!
Questa è la storia. Cominciamo dal nome, che di volta in volta ha dato il titolo alle varie versioni della canzone. Stagger Lee, ma anche Stacker Lee e Stagolee, poi Stack-a-lee. L'epoca dei fatti soffre anch'essa di una certa approssimazione. Circa un secolo fa, forse a St. Louis, qualcuno dice che l'omicidio si sia consumato nel periodo natalizio. Ma forse anche no. La vittima, già la vittima, si crede avesse nome Billy, anzi questo è sicuro, ma il nome completo poteva essere Billy Lions, oppure Billy the Lion. Magari anche Billy the liar (il bugiardo)! Sembra che ci fu un diverbio, quel giorno. L'oggetto del diverbio un cappello, uno Stetson con ogni probabilità. Ma come? Perché? John Lomax afferma che Billy, incautamente, sputò sul cappello di Stagger. Oppure, più semplicemente, lo aveva rubato il cappello - e Billy lo riconobbe. Chissà! Poi, le versioni più "sanguigne" ci raccontano con dovizia di dettagli quello che accadde dopo. Stagger che gioca, macabramente, con la testa di Billy. Così, di primo acchito, ascoltando la storia, verrebbe da pensare che Stagger avesse la pelle bianca. Ma pare che non sia così, almeno non del tutto e non per tutti. Gli "storici" arrivano addirittura ad informarci che ne siano esistiti ben due, di Stagger, che sono stati protagonisti di un delitto per un cappello, ed uno di questi era di pelle nera, l'altro bianco.
Tant'è che sia Malcom X che molti leader del "Black Panther Party" avevano una predilizione per il personaggio! Va notato che anche Woody Guthrie e Pete Seeger inclusero la canzone nel loro repertorio, senza nascondere una fascinazione per il protagonista della ballata.
Come dire, lunga vita alle canzoni di morte, belle e fascinose come questa in cui un poeta malfamato dalla pelle nera continua a staccare la testa a Billy, con una violenza incredibile, colpevole di avergli rubato il suo vecchio Stetson. E Stagger continuerà a farlo, finché continuerà ad essere cantato.

martedì 13 novembre 2007

You'll never walk alone



"Esserci, esserci, esserci ... è fondamentale solo esserci. Non conta più un cazzo la passione per il calcio, ricordare a memoria il nome di ogni calciatore, comprarsi la maglia del club, librarsi in ardite e colorite discussioni da bar sul valore della squadra, sui tatticismi, le scelte del mister, l'operato della dirigenza: comportarsi come fa il tifoso, lo sportivo, l'appassionato ... a noi di tutto questo non ce ne fotte un cazzo. Quella è roba da club, da tifoso normale. Da individuo che dorme indossando il pigiama con i colori sociali della squadra e si esalta ad ogni gol siglato da un mercenario qualsiasi. A noi interessa soltanto il contatto domenicale con la tifoseria nemica, urinare sul cacatoio dei benpensanti, vomitare sullo scranno dei servi da tastiera, travolgere tutto per avanzare spavaldi e ritti, a volto coperto contro il cielo urlando il nome di Firenze per tornare a casa la sera o il giorno appresso, con le labbrate prese che bruciano, ma soprattutto con quelle date che urlano. Tornare a casa per raccontare nei minimi particolari la dinamica degli scontri, la geografia dei tafferugli, la bieca idiozia belluina dei cori, l'ignoranza geniale degli striscioni infamanti, la potenza devastante dei nostri inni. Tornare per appuntare sulla maglia il merito di aver ridicolizzato la curva di casa, dentro e fuori lo stadio e aver dimostrato che c'eravamo, tutti, in qualunque modo, a qualunque costo. Ovunque."

Domenico Mungo - Sensomutanti - Tirrenia Stampatori - 10 euri

lunedì 12 novembre 2007

"Io non rinuncerò alla mia parte di violenza!"



A volte si prova il bisogno di parlare anche del libro (ma potrebbe essere qualsiasi "manifestazione" dell'essere umano, un film, una canzone, anche una...manifestazione) che non ti è propriamente piaciuto! Forse la cosa attiene al dovere esprimere un disagio, magari proprio nel tentativo di alleviarlo, il disagio, comprendendolo. Ci provo.
Di Domenico Starnone sapevo poco e, con ogni probabilità, continuo a saperne poco. Lo sapevo insegnante "militante" e l'ho letto sul Manifesto sotto le "spoglie" (mentite o meno) di giornalista. Le versioni cinematografiche dei suoi libri, che non ho letto, non mi avevano convinto più di tanto all'epoca. Storie di scuola, laddove non mi scattava nessun meccanismo identitario, né con gli studenti, né con gli insegnanti recanti le fattezza dei Silvio Orlando di turno.
Mi fermo qui.
Poi ho voluto leggere questo libro, fuorviato da qualcosa letto sul "web". Un rimprovero, più che una critica, che qualcuno gli rivolgeva circa l'aver messo in scena il voler assumere, in quanto buone ragioni, le ragioni della "violenza armata", quella storica degli anni settanta. Sì, certo, c'è anche questo nel libro, e non solamente contestualizzato a quegli anni. Però c'è dell'altro, al di là della rivelazione, oramai stantìa (Erri De Luca l'ha ripetuto così tante volte!), che negli anni settanta siamo stati tutti degli assassini potenziali. Tutti noi, ovviamente, che correvamo per andare da qualche parte. E poi abbiamo smesso di correre. Ecco, Stasi (ma perché il cognome del protagonista deve richiamare il nome della polizia segreta della Germania Est?) è uno che ha smesso di correre, un po' come tutti, anche se, leggendo, spesso ti si insinua il dubbio che non abbia mai corso davvero, limitandosi a tifare per chi correva.
E' invecchiato, è vecchio il giovane che doveva essere stato Stasi. Sgradevolmente quasi.
Sgradevolmente proprio perché - ed è questo "l'altro che c'è" di cui parlavo prima - il suo indugiare a sprazzi alla violenza mai sopita si concretizza, nelle pagine del libro, nella rabbia ... di un vecchio. E qualcuno ha detto, a ragione, che non esiste niente di più sgradevole della rabbia di un vecchio!
Starnone prova a mettere in scena - non senza scivolare nell'avvertimento - nelle pagine di un romanzo quasi "circolare" nel suo incedere, nel saltare dalla scrittura alla realtà alla scrittura, la terribile affermazione di Raoul Vaneigem che ho messo per titolo a questa cosa.
E ci riesce!

Domenico Starnone - Prima Esecuzione - Feltrinelli . 12 euri

giovedì 8 novembre 2007

Un'Autostrada Lunga Un Sogno



Canzoni come questa, sempre di Bucky Halker, canzoni ... forse fotografie che conservano nella loro filigrana il suono degli schiaffi. Quegli schiaffi che si prendono e che lasciano senza fiato. Impensabile saper reagire! Rimani attonito. L'unica è andarsene, da qualche parte, su qualche strada.

Sogno sull'autostrada
di Bucky Halker

Il reduce che viaggia su un sedile dietro
Si porta ancora dietro le sue ferite e quella gabbia di bambù
Le visioni dei Vietcong ballano nella sua testa
I corpi spazzati via dalle esplosioni, morti da tempo
L'immagine di una donna che conobbe allora
E bambini che non ha più visto chissà da quando

E' solo un sogno lungo l'autostrada
Una trama fra uno stato e l'altro
Whoa-oh, dove stiamo andando?

Un operaio delle Acciaierie Cleveland è ubriaco
Continua a bere whiskey fino a che non sente più niente
Parla del lavoro che aveva prima e che ha perso
Fino a quando vuota la bottiglia, tutto è andato a male
Ha saputo che c'è lavoro nel settore petrolifero adesso
E pensa di farsi assumere in qualche modo

E' solo un sogno lungo l'autostrada
Una trama fra uno stato e l'altro
Whoa-oh, dove stiamo andando?

Il ragazzo "metallaro" vicino a me
Porta tatuaggi fatti l'ultima notte che si è ubriacato
Sua madre ha detto: "Non lo sopporto più"
Il suo vecchio lo ha cacciato fuori di casa
Lui sta suonando "heavy metal" con la sua chitarra e canta
E andrà a vivere da una zia, a Omaha

E' solo un sogno lungo l'autostrada
Una trama fra uno stato e l'altro
Whoa-oh, dove stiamo andando?

La ragazza madre con un figlio in grembo
Ancora porta i segni delle percosse infertele dal fidanzato
Tira profonde boccate dalla sua sigaretta
Come se una piccola quota di morte riuscisse a farla sentire viva
Sorride dolcemente ogni volta che la guardi negli occhi
Con quel bambino che possiede solo il nome di sua madre

E' solo un sogno lungo l'autostrada
Una trama fra uno stato e l'altro
Whoa-oh, dove stiamo andando?

Un musicista travestito di blu
Si affaccia fuori dal finestrino al cielo dello Utah
Parla del sangue degli immigrati che scorre
Dentro i fiumi che scendono dalle montagne nevose
Dice che non si rende conto di come abbia potuto lasciare la sua città
tranne che per il fatto che non avrebbe mai potuto trovare, altrimenti, la sua terra promessa

E' solo un sogno lungo l'autostrada
Una trama fra uno stato e l'altro
Whoa-oh, dove stiamo andando?

La vecchia che indossa il suo vestito migliore
Dice di aver vissuto per 50 anni sulle montagne ad ovest
I banchieri e la polvere sono passati, rivoltandola, sulla sua terra
Allora lei è partita insieme a suo marito
E' tornata all'est per il figlio che stava morendo
Parla di dio, e di come questa vita ci passa sopra
Proprio come un sogno lungo l'autostrada
Come una trama che si dipana di stato in stato
Whoa-oh, dove stiamo andando?

St. Paul, Omaha, North Platte, Laramie
Salt Lake, Ogden, and Rupert-Burley
Basi dell'Aviazione, Stati Uniti centrali
E' l'ultima chiamata per linee sconosciute
Caffé, sigarette, sudore e bevute
Prendi il tuo "Greyhound blues"*** nero, bianco, indiano

E' solo un sogno lungo l'autostrada
Una trama fra uno stato e l'altro
Whoa-oh, dove stiamo andando?

Dove stiamo andando?

***Gioco di parole intraducibile basato su "I got the blues", ovvero "sono triste"

martedì 6 novembre 2007

Menestrello e Professore



Cantante, insegnante, in parte, forse, "predicatore". L'erede vivente di Woody Guthrie - come l'ha definito l' "AllgemeineZeitung Main" - che attravero le sue corde riesce ad evocare la passione e il fuoco di Steinbeck.
Forse un po' esagerato, ma Bucky Halker è il leader di una band da bar con in tasca un dottorato e in mano una valigia piena di canzoni. Una birra, una tequila e la storia del movimento operaio da insegnare all'università del Minnesota. Nato nel 1954 ad Ashland, Wisconsin, dove è cresciuto. Una di quelle cittadine sul Lago Superiore che si sono spopolate quando hanno chiuso le miniere di ferro ed hanno smesso di tagliare gli alberi.
Pesce fritto il venerdì, musica country, svedesi e polka, finlandesi e riserve indiane.
Barche da pesca da 12 piedi, ragazze con grosse radio a transistor e 40 bar sulla strada principale.
A 13 anni Bucky comincia a suonare la chitarra. A 16 scopre Woody Guthrie, il piano blues e comincia a scrivere canzoni. Va in Idaho, al college e si appassiona alla caffeina, alle sigarette e ai libri di storia. Divide il suo tempo fra i ritornelli e le note a piè di pagina. Ritorna nel Midwest nel 1976. Menestrello e professore, vagabonda per gli stati uniti centrali per una decina d'anni, suonando, scrivendo, insegnando e facendo lavori saltuari, e innamorandosi e disamorandosi. Nel 1984 pubblica il suo primo disco, "A Sense of Place", un misto di blues e folk originale.
Si unisce a "The Remainders", una band elettrica di Chicago che suona zydeco, tex-mex, rythm an blues new orleans e le canzoni di Bucky. Si appassiona anche allo studio della musica di protesta della classe operaia. Nel 1994 torna a Chicago e pubblica "Passion, politic, love", un disco che mischia country, folk, blues e rockabilly. Dopo aver partecipato, con Ella Jenkins, ad un progetto per lo Smithsonian Institute ed essersi guadagnato una nomination al "Grammy" per il miglior disco per bambini del 1999, incide "Don't want your Millions", nel 2000, e "Welcome to the Labor Land" nel 2003.
Di adesso sono "Wisconsin 2-13-63, vol. 1", un disco di alt-country, cui dovrebbe seguire il secondo volume, e una serie di tre cd sulla musica folk dell'Illinois.
Da "Passion Politics Love" questa canzone (che si può ascoltare - e vedere - qui!). Si chiama "Emma Goldman", ma non è celebrativa. Non parla della Goldman, eppure sono certo che Emma, che se non poteva danzare, non avrebbe voluto far parte della nostra rivoluzione, l'avrebbe apprezzato questo modo di chiamarla in ballo!


Emma Goldman
di Bucky Halker

Ho provato a chiamarti un milione di volte, senza avere risposta
Dio, sono stanco di quelle ragazze attraenti
Non puoi metter via i tuoi libri per un momento?
Taglia il filo delle tue preoccupazioni
Laffuori c'è un mondo che non fatto solo di confusione
C'è tanto da vedere

Dovresti venir fuori a divertirti con me
Emma Goldman dice che ne vale la pena

Camminando vicino a casa tua, ho guardato alla tua finestra
I tuoi occhi e il tuo naso immersi in una pagina
Ho potuto vedere che avevi il volume più pesante
Le persone colte leggono
Lo so, conosco la complessità dell'opera, e il genio
Però ti voglio dire

Dovresti venir fuori a divertirti con me
Emma Goldman dice che ne vale la pena

Dovresti prenderti una pausa e far riposare il cervello
Hai bisogno anche di svago
Potremmo andare a guardare le vetrine e bere un caffé
Attardardonci
Più tardi potremmo fare una cena a lume di candela dopo un cocktail
E potremmo consumare qualche peccato

Dovresti venir fuori a divertirti con me
Emma Goldman dice che ne vale la pena

Rosa



Una lettera, dolce come una carezza, soffice come un bacio che sfiora le labbra. Rosa Luxemburg scrive a Sonja Liebknecht, dal carcere. E' il dicembre del 1917. Di lì a poco, andrà incontro al suo destino e morrà, massacrata a colpi di calcio di fucile.***
Una lettera. che parla di un dolore. E della compassione, per un bufalo ridotto a bestia da soma visto nel cortile della prigione.
Dolore, debolezza e nostalgia. E tutta la guerra che passa davanti agli occhi di Rosa, mentre il natale si avvicina all'ombra di un misero albero, spoglio di molti rami, tant'è che non sa, Rosa, come farà a mettere gli otto lumini che ha rimediato in prigione.
Coraggiosa, impavida e sorridente, Rosa.

"Anche le tua ferita, Rosa
E la luce tra le corna dei tuoi bufali rumeni
in luogo della stella"

scriverà Paul Celan, ripensando a Rosa. A sugello.

Adesso la lettera è un bel libro a molte voci, arricchito dalla vena caustica di Karl Kraus, dalle voci di Joseph Roth, e di Franz Kafka e di Elias Canetti. In un continuo rimando.
Ed è proprio Canetti, mentre rilegge Kafka, a fornire la chiave. Una delle chiavi. La talpa! Il divenire talpa di Kafka. E di Canetti, di conseguenza."Scaviamo come talpe gallerie sotterranee, e usciamo tutti neri e con un pelo come velluto dai nostri monticelli di sabbia crollata, i poveri piedini rossi tesi a invocare tenerezza e pietà."

Scrive Kafka: "Durante una passeggiata, il mio cane sorprese una talpa che voleva attraversare la strada. Le saltò addosso varie volte, ma poi la lasciava libera perché era un cane ancora giovane e timoroso. All'inizio la cosa mi divertì, e soprattutto mi piacque l'agitazione della talpa che in preda alla disperazione cercava invano un buco in quel duro selciato. Ma quando il cane ad un tratto la colpì di nuovo con la sua zampa tesa, la talpa lanciò un gridolino: faceva cs, css. Mi parve allora...no, non mi parve niente."

Chiosa Canetti: "A questo proposito bisogna sottolineare che Kafka è il padrone del cane che insegue la talpa, quel cane gli appartiene. Per la talpa terrorizzata che pur di salvarsi cerca un buco in quel duro selciato, Kafka invece non esiste affatto, l'animale teme soltanto il cane, i suoi sensi non percepiscono altro. Ma lui, Kafka, che stando dritto domina la scena dall'alto e inoltre possiede il cane - che mai, per lui, potrà essere una minaccia - ride all'inizio dei vani e disperati movimenti della talpa. Quest'ultima non sospetta neppure che potrebbe rivolgersi a lui per avere aiuto, non ha imparato a supplicare, non sa fare altro che emettere quei suoi gridolini. Essi, e non altro, commuovono alla fine il dio, poiché qui è Kafka il dio, l'essere supremo, il potere più alto, e in questo caso il dio è addirittura presente. Cs, css, grida la talpa, e in virtù del suo grido lui, che sta a guardare, si trasforma in talpa, e senza dover temere il cane, che è il suo schiavo, sente che cosa vuo dire essere talpa."

*** E' bello il testo della tua canzone "Spartaco", Alessio. E attendo di poterla ascoltare in musica, non appena la renderai disponibile. Ma nessuna misericordiosa pallottola di fucile uccise Rosa! E anche in questo c'è un senso. Una verità da raccontarre, sempre.


Rosa Luxemburg - Un po' di compassione - Adelphi Biblioteca Minima - 5 Euri e 50

lunedì 5 novembre 2007

Giustizia e Vendetta



Il giochino è facile, non importa scomodare la retorica, o peggio. Somiglia a quello cui giocano, ad esempio, i centri commerciali, quando nei loro depliant antepongono, a caratteri più grandi, un "A Solo" subito prima di qualsiasi prezzo.
Allo stesso modo, in Italia, un governo sedicente di sinistra ha varato delle Leggi Razziali, per la seconda volta nella storia di questo paese, a distanza di settant'anni dall'ultima volta. Sì, ma come uno dei tanti centri commerciali precisa: per giustizia, non per vendetta!
Le prefetture di tutt'Italia che fanno? Stanno ordinando rastrellamenti discriminati, contro persone che non hanno fatto niente, a partire dall'etnia di appartenenza dei rastrellati.
Sì, ma è per giustizia. Non per vendetta.
Così si procede alla deportazione dei rumeni proprio per giustizia: li stanno salvando dall'essere aggrediti dagli squadristi cittadini esasperati. No, non certo per vendetta!
La storia dovrebbe riuscire ad insegnare qualcosa, ma a patto di conoscerla. E dovrebbe avere insegnato ai mandanti (morali e non) di rastrellamenti prefettizi e di raid squadristi che certe cose non avvengono per vendetta, certo, ma tantomeno per giustizia.
Avvengono. E per paura e per calcolo.

venerdì 2 novembre 2007

Sicurezza




"Prima di tutti vennero a prendere gli zingari e fui contento perché rubacchiavano.
Poi vennero a prendere gli ebrei e stetti zitto perché mi stavano antipatici.
Poi vennero a prendere i comunisti ed io non dissi niente perché non ero comunista.
Un giorno vennero a prendermi e non c'era rimasto nessuno a protestare...
"

Bertolt Brecht