venerdì 29 settembre 2006

Ancora cantiamo ...



Todavia cantamos. E a cantare è Rita Connolly con la sua voce d'angelo.
Era in un film, "il sarto di panama" e ricordo che la canzone mi colpì al cuore.
Una sensazione di struggimento, mista al sapore di pioggia sull'asfalto.
Bella e avvolgente, come una pioggia ottobrina. E triste.
Rita cantava, nei titoli di coda del film, accompagnata dalla chitarra, questo motivo ispanico.



ANCORA CANTIAMO, ANCORA CHIEDIAMO
di Víctor Heredia

Ancora cantiamo, ancora chiediamo,
ancora sogniamo, ancora aspettiamo
nonostante i colpi
che ha inferto alle noste vite
la macchina dell'odio
esiliando nell'oblio
i nostri cari.

Ancora cantiamo, ancora chiediamo,
ancora sogniamo, ancora aspettiamo
che ci dicano dove
hanno nascosto i fiori
che profumarono le strade
inseguendo un destino
dove, dove sono andati?

Ancora cantiamo, ancora chiediamo,
ancora sogniamo, ancora aspettiamo
che ci diano la speranza
di sapere che è possibile
che il giardino si illumini
delle risa e del canto
di coloro che abbiamo amato tanto.

Ancora cantiamo, ancora chiediamo,
ancora sogniamo, ancora aspettiamo
per un giorno diverso
senza torture né fame
senza paura e senza pianto
perché tornino al nido

i nostri cari.


viaggiare ...



Bisognerebbe che potesse finire, la notte, da qualche parte. Dovrebbe avere una fine. Allora sì che ci sarebbe, davvero, l'ultimo treno della notte!
Poter parlare di treni e di stazioni, forse servirebbe meglio a farci sentire viaggianti. Accostarsi ai "treni che davvero portan via", quelli che "non han fiori sui sedili", quelli che "devi entrarci per sapere dove vai". Magari, il treno, è solo un vecchio treno arrugginito. Però in grado di "riportarti indietro da dove sei partito".
Niente "hobos", da questa parte dell'oceano. Al massimo, una corsa scroccata su un treno, usando di un vecchio biglietto scaduto, mentre si va su e giù per i vagoni, salutando il controllore che, credendosi non visto, getta un occhio falsamente distratto sul vecchio biglietto già timbrato, altrettanto falso.
E' proprio vero che il treno non porta da nessuna parte! Porta solo ad un'altra stazione. E la nebbia che c'è in mezzo, fra le due stazioni, quella di partenza e quella di arrivo, non esiste. Non è niente! Solo un tempo finito dove ci si possa dimenticare dei "rimorsi delle occasioni perdute" o, anche solo, il rimorso delle occasioni che non ci sono mai state.
E poi la valigia. La valigia ha da essere leggera. Meglio una borsa con dentro un libro e un taccuino dalle pagine bianche, per poterle riempire. Non valgono valigioni legati con lo spago. Rallentano la fuga e ti fanno inciampare. Ti impongono gravità e impegno. Impediscono la disposizione ad esserci per caso, su quel treno. Un treno preso all'ultimo momento. Prima che sia troppo tardi.
Oppure è già tardi. Ma chi se ne importa!
In tasca hai quel biglietto, di sola andata. Anzi. Loro credono di averti venduto un biglietto! Non sanno di aver dato via, sottocosto, un'intera nuova vita.
Una risma intera di tempo, per poche lire!
Solamente quel peso, in fondo alla tasca. Un mazzo di chiavi. Da scagliare via, lontano, da un finestrino, appena sarà possibile, quando il treno correrà abbastanza forte da lasciarsi il suo fischio alle spalle.
Chissà se servono chiavi, dove sta andando il treno. Forse saranno solo porte aperte, da non potersi chiudere alle spalle.
E allora non servirà nemmeno la pistola; un altro tipo di chiave.
Potrà restare in fondo alla borsa, a riposare. E a ricordare.
E a sorridere con tutti e sei i suoi denti.
Mentre il treno continua a viaggiare. Stazione dopo stazione.
I passeggeri aspettano. Nella notte.

Leningrado 1926



Lenka Panteleev, marinaio di Kronstadt nel 1917, uno di coloro che sfondarono col calcio del fucile le porte del palazzo d'inverno, sta per terminare la sua carriera a Leningrado.
La sua leggenda vola per i bassifondi. Perchè ci sono di nuovo i bassifondi, a Leningrado!
Quando ricomparve il denaro, Lenka sentì che era arrivata la fine.
Lui non era un maneggiatore di idee. Era un egualitario!
E così si fece bandito per svaligiare le prime gioiellerie, aperte dai primi neocapitalisti della "Nep".
Questa sera, gli uomini della milizia (che in cuor loro ammirano Lenka) lo hanno circondato nella sua "malina". Il suo rifugio. Naturalmente, è stato venduto da qualcuno!
Ci sono donne ed alcool. Panteleev entra, si toglie la tunica di cuoio, tracanna un bicchiere di vodka, prende la sua chitarra. Che cantare?

"Rotola sotto la mannaia, testa di Sten'ka Razin"

Lo abbattono mentre canta.
Finita, anche quella pericolosa chitarra!
Gli uomini della milizia, pagati quaranta rubli al mese, portano sul chepì la stella rossa che i Panteleev si stamparono, per primi, sulla fronte.


giovedì 28 settembre 2006

Non c'è tempo per amare



Giovanni. Eppure me l'avevano detto che era tornato. Tornato!? Non riuscivo a crederci, quando mi avevano detto, così come per caso, che era stato visto mentre girava dalla parti di San Lorenzo. Difficile crederci. Anzi, meglio non crederci, quando era emersa la descrizione delle sue ...condizioni. Sì, si aggirava. Era il modo giusto per fotografare quello che sembrava essersi ridotto ad un...barbone fuori di testa. Camminava parlando da solo. E non dava l'idea di riconoscere nessuno, di primo acchito. E quando, alla fine, acconsentiva a ricordarsi, la cosa sembrava non interessarlo più di tanto. Così mi dissero!
Poi, me lo tolsi dalla mente. Giovanni che avevo conosciuto cinque anni prima. Si era fatto avanti, deciso a "far politica", da apprendista operaio. Avevamo fatto un viaggio insieme, una volta. Passando per la Sicilia, l'avevo ospitato a casa dei miei, poi avevamo raggiunto Salerno, per l'apertura del "processo Marini" che era stato subito richiuso e spostato a Vallo della Lucania, ma questa è un'altra storia. Era taciturno Giovanni, non parlava molto. Poi ci perdemmo leggermente di vista. La sua, una storia delle tante. Una delle tante nostre storie. C'era una cascina da qualche parte nel Casentino, e venne scoperto un piccolo e povero deposito di armi. E tutti i frequentatori della cascina si ritrovarono a dover scappare. E giovanni scappò. Fece un lungo giro per l'Italia e poi sparì. Speravo avesse riparato in Francia e, invece, tempo dopo mi ritrovai a guardare una sua foto in un articolo che faceva il suo nome e raccontava di una "gambizzazione" di un professore universitario e dell'arresto di alcune persone che erano state arrestate. A Dublino!
No, non mi aspettavo di rivederlo troppo presto Giovanni! Così come non mi aspettavo di sentire la sua voce quando risposi al telefono che suonava. E invece era proprio lui. La voce era quella di sempre, tranquilla e quasi sussurrata. Parlava con la sua solita calma, ma raccontava di essere stato cacciato dalla casa della sorella - l'unica parente che le rimaneva. Raccontò che l'aveva aiutato la "caritas" e che adesso aveva un posto dove stare, anche se non si trovava in condizioni troppo floride. Quando lo invitai a venire a cena, per la sera dopo, si premurò di avvertirmi che non mangiava carne di maiale. Era musulmano!
La sera dopo venne, e mi raccontò il resto. Mi disse di come passava le giornate in Irlanda prima dell'attentato, chiuso in una qualche casa, senza quasi mai uscire. Mi parlò di un amore che c'era stato e poi non c'era stato più, con una smorfia di rammarico. Mi parlò del carcere irlandese e della sua crisi depressiva, da cui era uscito grazie all'islam. Mi disse tutte queste cose e altre e si accese una strana luce dentro i suoi occhi quando si soffermò a parlarmi dei militanti dell'Ira, rinchiusi nel suo stesso carcere. Loro non parlavano altro che fra loro, e la sera, prima che venissero spente le luci delle celle, la galera rimbombava del loro grido corale: "Our Time Will Come".
Poi mi chiese, accorgendosi della mia sterminata collezione di dischi, se potevo fargli ascoltare una canzone. La cantava Christy Moore, era nel primo disco dei "Moving Hearts".

Non c'è tempo per amare
di JACK WARSHAW

Voi la chiamate legge,
Noi la chiamiamo segregazione, internamento, coscrizione, divisione e silenzio
E' la legge che fanno per tenerci dove ritengono che dobbiamo stare
Loro si nascondono dietro acciaio e vetri antiproiettile, protetti da mitra e spie
E vengono a dire a noi, che abbiamo subito gas lacrimogeni e tortura, che il torto è nostro

CORO:
Non c'è tempo per amare se vengono al mattino
Non c'è tempo per mostrare lacrime e paura il mattino
Non c'è tempo per gli addii non c'è il tempo di chiedere perché
E il suono delle sirene è il grido del mattino

Hanno sofferto la tortura, sono marciti in cella, sono impazziti, hanno scritto lettere e sono morti
Hanno subito una pena indicibile, ma è stata la solitudine ad aver ragione di loro
E i tribunali hanno dato loro quella giustizia che è amministrata da assassini di buone maniere
Qualche volta hanno combattuto per la volontà di sopravvivere, ma il più volte delle volte
hanno desiderato di essere morti.

CORO

Sono venuti a prendere Sacco, Vanzetti, Connolly e Pearse tempo fa
Sono venuti per Newton e Seale, per Bobby Sands e per alcuni dei suoi amici
A Boston, a Chicago, a Saigon, a Santiago, a Varsavia e a Belfast
E in posti che non fanno mai notizia, l'elenco è infinito

CORO

I ragazzi vestiti di blu sono solo alcuni tra i tanti sbirri di guardia ogni giorno
Quelli del C.I.D., gli informatori e le spie fanno altrettanto bene il loro lavoro
Dietro di loro ci sono quelli che intercettano le telefonate, fotografano,
programmano computer e file
E poi c'è quello che dice loro quando venire a prenderti e portarti in cella

CORO

Tutti quanti voi che date alle nostre sorelle e fratelli la forza di continuare a lottare
Loro vi dicono che vi abituerete a questa guerra, e il che non significa che la guerra non
sia già iniziata
Il pesce ha bisogno del mare per sopravvivere, proprio come la vostra gente ha bisogno di voi
E lo squadrone della morte potrà raggiungerli solo se prima farà fuori voi.

CORO


mercoledì 27 settembre 2006

Convenienze


La guerra civile spagnola, vende! E questo è un fatto, a settant'anni di distanza. Tanti ne sono passati. Invano, verrebbe da dire a leggere la recensione che Enzo di Mauro ha pubblicato su “Alias” - supplemento del sabato del “manifesto”di sabato 16 Settembre 2006 - a proposito del bel libro di Ignacio Martinez de Pison, “Morte di un traduttore”.
L'incipit della recensione è solenne e letterario, da Bernanos ad Orwell e Koestler, fino ad Hemingway. Le bacchettate alla gestione stalinista del problema della cosiddetta ortodossia arrivano quasi subito, a colpi di “mano brutale”, “incompetenza morale”, “tendenza al fratricidio e illimitato cinismo”. Ma, subito dopo, tanto per far vedere che non bisogna esagerare con i giudizi, ecco che il “letterato” cede la penna allo “storico”, non prima di averci informato che, nel fronte repubblicano, il partito comunista spagnolo contava circa duecentocinquantamila iscritti (dimentico del fatto che la cifra da lui riportata però si riferisce al Gennaio del 1937, a proposito di un partito la cui base era del tutto insignificante e rimasta ai margini della rivoluzione del Luglio 1936):

“(...)Non che Mosca avesse torto nel chiedere una maggiore organizzazione tattica e strategica e dunque un esercito regolare in luogo del generoso slancio di milizie operaie (gli eventi successivi, di lì a poco, diedero ragione ai sovietici e in generale ai comunisti) E d'altra parte fu l'Unione Sovietica a predisporre i piani di reclutamento (mediante il Comintern) delle Brigate Internazionali; a inviare consiglieri militari e comandanti in campo; a fornire armi e carri armati e, in prestito, aiuti in denaro. (...)”

Davvero curioso! Ce n'è di tutto e per tutti, in questo breve passaggio. Ma il massimo lo si raggiunge con gli “aiuti in denaro”, e in prestito per di più! Chissà se il Di Mauro c'è o ci fa? Se ignora davvero le 510 (Cinquecentodieci) TONNELLATE di oro della riserva aurea della Banca di Spagna, finite a Mosca. Chissà se è a conoscenza del fatto che, mentre Stalin incassava e costringeva i lealisti spagnoli a servirsi dei ferrivecchi sovietici in luogo delle armi di fabbricazione statunitense che il Messico era disposto a vendere in cambio di quell'oro, e senza chiedere nessuna testa per sovrammercato, chissà se è a conoscenza del fatto che i “prestiti” provenivano dalle sottoscrizioni di solidarietà che gli operai sovietici strappavano via dal proprio magro salario? Chissà se lo sa, il prode stratega e tattico Di Mauro, che la benzina negata alle milizie spagnole finiva ben venduta nei mezzi da guerra di Mussolini impegnato nella sua avventura coloniale in Africa? E chissà se si è mai chiesto, fra una parola e l'altra, quale sia mai stato il motivo che ha impedito ad un governo di sinistra di riconoscere il diritto del Marocco all'indipendenza (sollecitato da una delegazione di nazionalisti marocchini giunti a Barcellona e neppure ricevuti)? Quello sì che avrebbe tagliato l'erba sotto i piedi di Francisco Franco, privandolo di una cospicua quota di mercenari marocchini! Ma no, molto meglio sostenere che la soluzione stava nel ricostruire un esercito in cui le donne non potevano fare altro che le cuciniere o le infermiere e dove i criteri di disciplina, ricalcati su quelli del vecchio esercito nazionalista e colonialista, comprendevano la pena di morte per l'insubordinazione (applicabile anche ai volontari!).

Così, a distanza di settant'anni, la rivoluzione spagnola continua ad essere “fatta fuori”. Fatta fuori perché, a conti fatti, non conviene oggi come non conveniva allora. Non conveniva a Stalin, che non poteva tollerare un moto rivoluzionario al di fuori della sua egemonia. Non conveniva al governo spagnolo. Ed è su tale base che si è verificata la convergenza di interessi fra la linea sovietica e i dirigenti della repubblica spagnola. Non conveniva, la rivoluzione!

Sì, anche oggi come allora, la rivoluzione spagnola vende. Vende, ma non conviene!

martedì 26 settembre 2006

Dormono, dormono sulla collina...



Una collina, a picco sul mare, in alto sopra Scauri. Decisamente un bel posto, anche per un cimitero.Soprattutto per un cimitero!
I nomi che ti vengono a salutare dalle lapidi ricorrono. Sempre gli stessi.
Almanza, Bonanno, Valenza, Culoma,Errera, Pineda, Rodo, Garsia, Salsedo...
Non so se la tomba, troppo grande, in fondo al cimitero, voglia ricordare un “sesi”, i tumuli preistorici che contraddistinguono l'isola.
È bianca, anziché scura di lava, ma l'effetto, a colpo d'occhio, è lo stesso. Sotto, c'è sepolta un'intera famiglia. Ma loro non sono di Pantelleria.
Curzio Casini-Cortesi, nato a Roma nel Gennaio del 1953, e morto a Pantelleria il 22 Agosto del 1970. In mare.
Anzi PER mare, lasciano intendere i quattro versi, a rilievo sulla targa di bronzo:



Un'immersione, forse. Oppure un tuffo sbagliato. Un malore. Chissà.
Solo che, dopo di lui, sembra che tutta la famiglia abbia deciso di prendere dimora estrema insieme a Curzio, aggiungendo, ogni volta, una targa. Ines Conforti, Walter Casini-Cortesi, Canzio Casini-Cortesi. Nessuno, presumo, verrà mai fin quassù su questa collina, quaggiù in questo lontano tratto di mare, a visitare la tomba. Solo qualcuno, che passa...

martedì 12 settembre 2006

vacanze: fare il punto...o la linea?



Stavo per limitarmi a mettere solo una foto di pantelleria, insieme ad una sorta di cartello di “chiuso per ferie”, prima di andarmene a passare questi prossimi dieci giorni in un'altra di quelle isole da aggiungere alla mia collezione. Poi, mi è venuto di pensare alla vacanza, misurandomi anche col termine stesso che la definisce. E così, ho cominciato a ripensare alle mie vacanze o, ancora meglio, alla mia “storia della vacanza”. Ed ho preso a distinguere, geometricamente quasi, fra “vacanza-linea” e “vacanza-punto”. All'inizio, ho amato e praticato, ogni volta che mi era possibile, la vacanza-linea. Il tracciare un percorso, a volte programmato, assai più spesso improvvisato. Un percorso da sfogliare, come le pagine di un libro. Senza tornare a rileggere la pagina precedente. Avanti, fino all'epilogo. Finito il libro lo si mette via, arricchiti dalla sua lettura. Tutto qui.
Poi, adesso, da più anni, sono diventato, di un colpo, senza quasi accorgermene, un fautore della vacanza-punto, come questa che mi appresto a fare. Una vacanza-punto significa, per me, arrivare in un posto, preferibilmente un'isola non troppo grande, e dal punto in cui arrivo e mi stabilisco compiere dei movimenti non troppo larghi che mi riportano sempre, e continuamente, al punto eletto a centro della vacanza.
Però, spero che la prossima possa voler essere, di nuovo, una vacanza-linea.
E voi?
Vacanze-punto? O vacanze-linea?

lunedì 11 settembre 2006

voleva la luna!?!



"Volevo la luna". E' il titolo dell'autobiografia di Pietro Ingrao, appena pubblicata. Lo stesso Pietro Ingrao che il 6 novembre del 1956, due giorni dopo l'occupazione di Budapest, da parte delle truppe sovietiche, scriveva da direttore su "l'Unità": «una protesta contro l'Unione Sovietica avrebbe dovuto farsi se essa non fosse intervenuta, e con tutta la sua forza, per sbarrare la strada al terrore bianco e schiacciare il fascismo nell'uovo». E sì, voleva proprio la luna! E sono convinto che continua a volerla.

teste


Era il luglio del 1984 e, a Livorno, la signora Vera Durbé spendeva tutte le sue energie per allestire una mostra nel centenario della nascita di Amedeo Modigliani. Il più illustre livornese del novecento, schernito e praticamente cacciato dalla sua città, doveva tornare a Livorno con tutti gli onori. La mostra, dal titolo “Modigliani e la scultura”, a dire il vero si era aperta fra cauti omaggi di rito e perplessità della critica. Delle ventisei sculture di Modigliani esistenti nel mondo, ne erano arrivate solo quattro. Ma Vera Durbé aveva l'asso nella manica: bastava cercare nel fosso mediceo, dove l'artista, prima di lasciare la città in reazione ai giudizi dei suoi concittadini, aveva deciso di gettare le sue opere. L'operazione venne assecondata dal comune di Livorno (giunta PCI), che non risparmiò sui mezzi, sperando in un ritorno economico per una città che non aveva turismo. E, dopo otto giorni, la scavatrice tirò su una testa in granito, seguita a poche ore da una seconda in pietra serena. Chi altri, se non Modigliani, poteva aver scolpito quelle teste? Le linee dure, i tratti barbarici...Non applaudirono solo gli uomini del comune. Applaudirono, non obbligati, tanto quanto poco informati, i grandi maestri della critica d'arte del tempo: Argan, Brandi, Ragghianti... E le due teste, ripulite, certificate e catalogate, entrarono con tutti i rispetti nella mostra. Ma il fosso, assai generoso, ne vomitò una terza, assai più grande. I visitatori accorrevano da ogni parte d'Italia. Giornalisti e troupes televisive. Fin dal Giappone. Un comunicato Ansa annunciò che tre studenti livornesi (Pietro Luridiana, Pierfrancesco Ferrucci e Michele Guarducci) avevano dichiarato a Panorama di essere loro gli autori, con un Black & Decker, dell'ultima testa. E, per dimostrarlo, ripeterono in televisione il loro esperimento, dal vivo.
Persa una testa, ci si trincerò dietro le altre due che – sostennero alcuni critici impenitenti – quei ragazzi non avrebbero mai potuto fare.
La trincea tenne, ancora per una decina di giorni, fino a quando venne allo scoperto l'autore delle altre due teste. Si chiamava Angelo Froglia. Era un lavoratore portuale, militante dell'estrema sinistra, con animo di artista e mano abile allo scalpello.
“Volevo far sapere come nel mondo dell'arte l'effetto dei mass-media e dei cosiddetti esperti possa portare a prendere dei grossissimi granchi”.
Era stata una risata a seppellirli, esperti e non.

venerdì 8 settembre 2006

ormai è fatta!



Ballata per Horst Fantazzini
di Pardo Fornaciari

Quest'è la storia d'un giovane d'altri tempi
Che nella vita compromessi non accettò
per non piegarsi, per essere sé stesso
Horst Fantazzini libertario si chiamò
Nessuno sa dirti dove s'è incagliato
non si decide a arrivar Godot
mentre straniero tra reclusi strani
consumi in carcere il tempo che ti restò

Si travestiva, faceva il viso da cattivo,
con la pistola di bachelite a fare un prelievo
lui senza tessere, né conti con la coscienza
si riforniva ma non passava dal bancomat
Ma dove corre Fantazzini in bicicletta
Lui rincorreva un fine pena che non arriva
non si decide a venir quel Godot che aspetta
e non ritrova - traditora - la libertà

Tornato dentro si va a lavare sotto la doccia
Sotto la doccia morto stecchito si fa trovà
Ma sarà vero che tu hai fatto 'sta morte scema
Io non ci credo, ma la colpa, di chi sarà?
Svelto, pedala, Fantazzini in bicicletta
Svetta davanti a chi dubbioso si crogiolò
lasciati indietro Godot e chi l'aspetta
se non ritrovi - traditora - la libertà

All'anagrafe aveva sessant'anni
Ma era anarchico e questo gli bastò
A chi col sangue d'altri il suo pane guadagna
A chi gli dette la frustata che lo spezzò
E Fantazzini corre corre in bicicletta
traversa i campi, cavalca la città
Ma che ti frega di Godot e di chi l'aspetta
Se non ritrovi - traditora - la libertà

Ragazzotti in livrea armati di clava
Giovani senza, educati dalla TV
Piccoli numeri, la bocca piena di bava
Picchiano un uomo son servomacchine e nulla più
E corri corri Fantazzini in bicicletta
davanti a tutti nel ricordo di chi t'amò
e corri fiero del tuo esempio d'essere uomo
alfiere indomito della libertà

la semplicità (che è difficile a farsi)


Chip Taylor è sulla scena musicale da quasi quarant'anni. Ha composto cose memorabili come questa “Angel of the morning”, portata al successo molti anni fa da Chrissie Hynde e da Juice Newton, come “Wild Thing” interpretata dai Troggs e da Jimy Hendrix, come “I can't let go” che Graham Nash cantava al tempo dei suoi Hollies, come quella “Just a little bit harder” che Janis Joplin ha portato con sé nel posto, qualsiasi esso sia, dove se n'è andata.
Sempre osannato come autore e sempre molto poco considerato, dalla critica, come esecutore. Ha, fra l'altro, “scoperto” un nome come James Taylor di cui ha prodotto il primo album. Incidentalmente è anche fratello dell' “uomo da marciapiedi” John Voight, e ancora più incidentalmente zio di Angelina Jolie. Ha scritto e cantato un disco imprenscindibile come “Black and Blue America”, e prima o poi ne riparlerò di questo disco!
Ha scritto una canzone d'amore (infranto) bella e semplice, come questa. Angel of the morning.

Angelo del mattino
di Chip Taylor

Non servono lacci per legarti le mani
Se il mio amore non riesce a incatenare il tuo cuore
E non serve a niente prendersi una pausa
Perciò sarò io quello che sceglie di mettersi in viaggio
Non c'è alcun bisogno che tu mi lasci la casa
Sono abbastanza grande per affrontare la vita

Refrain:
Semplicemente chiamami angelo del mattino, angelo
Solamente carezza la mia guancia prima di lasciarmi, bambina
Semplicemente chiamami angelo del mattino, angelo

Poi voltati lentamente e vattene via da me

La luce del sole potrebbe offuscarsi
e comunque non avrà più importanza
se l'eco del mattino dirà che abbiamo sbagliato
E' di questo che ho bisogno adesso
E dal momento che siamo le vittime della notte
non voglio essere accecato dalla luce.

Refrain

Poi voltati lentamente
Non voglio implorarti di restare con me
usando le lacrime di questo giorno
degli anni, bambina bambina

Semplicemente chiamami angelo del mattino, angelo
Solamente carezza la mia guancia prima di lasciarmi, bambina


il gufo all'alba


Stava lavorando su un nuovo, ultimo, romanzo Philip K. Dick nel 1982, l'anno della sua morte. “The owl in Daylight”. Era già stato pagato dalla casa editrice, ma non riuscì a finirlo.
La storia ha per protagonista Ed Firmley, un compositore di colonne sonore per film di fantascienza di serie B. Una razza aliena, la cui evoluzione ha fatto a meno del suono come base per la comunicazione, manda sulla terra una spedizione per impiantare un bio-chip nella testa di Firmley, in grado di trasmettere l'esperienza del suono all'intera razza aliena.
Adesso, questa storia farà parte di un film biografico su Dick, interpretato da Paul Giamatti e diretto da Terry Gilliam, che combinerà la vita dello scrittore con elementi tratti dal romanzo incompiuto.
“The owl in Daylight” (letteralmente, “il gufo all'alba”) è una frase che P.K.Dick sentì in televisione. Il cui significato può essere reso come assenza di comprensione, oppure essere cieco.

giovedì 7 settembre 2006

landmark


Ancora una canzone di Jack Hardy, dove il protagonista si muove con le suggestioni di un "sandman" di Neil Gaiman. La musica, anche se qui non si sente, è dolce e suadente. Avvolgente.

Orfano e vengo da Madrid/Guernica
di Jack Hardy

sono un orfano e vengo da madrid
passo la notte in cerca di case
e per quanto la gente cerchi di tenermi nascosto
e mi faccia la morale io non sono mai solo
sono una pecora nera, di quelle che affollano i caffé tristi
a discutere con afrodite circa la possiblità che lei rinunci al suo nome
a tarda notte ci mettiamo ad ascoltare la radio
in cerca di una canzone che ero solito cantare molto tempo fa
e le racconto tutti i miei sogni esotici
e chi troverà una casa per me

quando ero giovane me ne andai a roma
insieme ad un cane che si era unito a me e di cui conoscevo i sogni
me ne andai in quell'antica città edificata sulle ossa dei morti
e tutti quei templi innalzati a divinità oscene
io sono il cavaliere vestito di nero che combatte lealmente
nonostante i giornali di sinistra diffamino il mio nome
essi impareranno che non sempre la penna è più forte della spada
e non sempre i pensieri possono essere resi con le parole
giro per le strada cercando quell'ordine che proviene dal caos
e chi troverà una casa per me

e cosi me ne sono andato al nord, a colonia
e a bonn e a monaco dove potrò passare la primavera
in molti posti la mia luce ha illuminato
lo scrigno d'oro del destino di cui ora stringo in mano i fili
e le stelle appariranno nella notte fosca
le luci basse delle cantine gridano e ci invitano offrendoci una birra
consumo i miei pomeriggi passeggiando allo zoo
tutti quegli uccelli che urlano da dentro le gabbie mi fanno sentire libero
una massa di persone non può mai pensare
e chi troverà una casa per me

sono un orfano e vengo da madrid
e chi troverà una casa per me

presagi


Jack Hardy è "Una versione celtica più letteraria di Townes Van Zandt, dai toni bassi e ideali generosi, ben radicato tra la terra e il cielo di Irlanda e di America e, al tempo stesso affascinato dalle leggende del passato". Così si esprimeva il critico Roy Kasten, sul St.Louis Riverfont del 3-2-1999. Una descrizione che, sul fronte letterario, si attaglierebbe a Neil Gaiman. E nelle canzoni di Hardy, come nei libri e nei fumetti di Gaiman, prende vita un mondo stranamente popolato. Vagabondi e cowboys, santi e peccatori, elfi, vergini e vecchie befane. E la musica delle ballate di frontiera si mescola a quella dei Jigs degli antenati irlandesi. In "Omens" (Presagi), uno dei suoi ultimi dischi, ci racconta quattordici storie. Da "Sile na Cioch (Sheila)", dove un vagabondo regala ad una ragazza il bel vestito che ha trovato sul ciglio della strada a "Siar on Daingean (West of Dingle)", dove una donna si trova a dover scegliere fra il suo violino e il suo amore.
La storia di Jack Hardy comincia nei primi anni settanta, dopo la laurea in letteratura inglese e la pazzia per evitare il Vietnam. Il Village di New York e il "Cornelia Street Café". Il mensile sonoro, "The fast Folk Music Magazine", che fornirà la possibilità di far venire alla ribalta voci altrimenti condannate al silenzio. Da Suzanne Vega a John Gorka, da David Massengill a Richard Shindell.Ci vuole un Jack Hardy. Così come ci vuole un Dave Van Ronk. La musica ha continuato. E continuerà!



Canzone per Dave
Per Dave van Ronk
di Jack Hardy

Maledetta bottiglia che mi restituisci
Un messaggio dal mare aperto
Pirati di sé stessi
Un compagno va a fondo

Vento e Berretti bianchi da marinaio, sul filo del rasoio
Monete scagliate in ogni onda
Cofani difficili da salvare
E la fortuna non ha suono

Coro:
Ay-ee mostrami la tua mano
Sentiremo la mancanza di quell'omaccione
Ay-ee il tempo è finito
Ci ha imbrogliato ancora una volta

Lanciatori di dadi di ogni tipo
Locandine di bar difficili da trovare
Jazz-band che suonano a occhi chiusi
E' una vergogna che lui non ci sia

Tesori sepolti in stanze fumose
Comunisti e sputacchiere
Whiskey irlandese e aste per microfoni
Dave è tornato in città.

mercoledì 6 settembre 2006

tamburi


Un ragazzino in piedi accanto alla Victrola, ne girava la maniglia e sorrideva al suono della canzone di Bert Williams "Save A Little Dream For You". I vecchi ballavano con i bambinetti, i ragazzi con le sorelle, e le donne di chiesa, che di solito disapprovavano ogni manifestazione fisica della gioia (tranne quando lo prescriveva la mano di Dio), battevano il tempo coi piedi".

"Alice pensava che quella musica che picchiava così basso aveva qualcosa a che fare con le nere e i neri che sfilavano in silenzio lungo la Quinta Strada per manifestare la loro rabbia per i 200 morti di East St.Louis, due dei quali erano sua sorella e suo cognato, ammazzati durante i tumulti".

"Era una tipica giornata estiva, appiccicaticcia e luminosa, e Alice Manfred era rimasta per tre ore nella Quinta Strada meravigliandosi alla vista di quei volti neri e infreddoliti, in ascolto dei tamburi che dicevano quanto tutte quelle donne garbate e quegli uomini in corteo non potevano dire. Quello che si poteva dire era già stampato su uno striscione che, sventolando sopra la testa di chi lo reggeva, ribadiva un paio di promesse della Dichiarazione d'Indipendenza. Ma quello che veramente si voleva dire veniva dai tamburi".

Toni Morrison - Jazz

messi male


Prima che arrivassero i nostri fratelli bianchi per fare di noi degli uomini civilizzati, non avevamo alcun tipo di prigione. Per questo motivo non avevamo nemmeno un delinquente.
Senza una prigione non può esservi alcun delinquente.
Non avevamo né serrature, né chiavi e perciò, presso di noi non c'erano ladri.
Quando qualcuno era cosi povero, da non possedere cavallo, tenda o coperta, allora egli riceveva tutto questo in dono. Noi eravamo troppo incivili, per dare grande valore alla proprietà privata. Noi aspiravamo alla proprietà, solo per poterla dare agli altri. Noi non conoscevamo alcun tipo di denaro e di conseguenza il valore di un essere umano non veniva misurato secondo la sua ricchezza. Noi non avevamo delle leggi scritte depositate, nessun avvocato e nessun politico, perciò non potevamo imbrogliarci l'uno con l'altro.
Eravamo messi veramente male, prima che arrivassero i bianchi, ed io non mi so spiegare come potevamo cavarcela senza quelle cose fondamentali che - come ci viene detto - sono cosi necessarie per una società civilizzata.

Tahca Ushte (Cervo Zoppo)

staremo insieme!


Il dulcimer di David Massengill è tornato. E staremo insieme, come recita il titolo del suo nuovo cd, “We will be together”. E sarà un piacere tornare ad ascoltare le sue storie. Storie di lavapiatti messicani, di fuggiaschi, da un manicomio o da un penitenziario. Orfani, neri braccati dal Ku Klux Klan. Ballate amare, riscaldate da uno strano pensoso e malinconico ottimismo. Una voce sommessa, qualcosa che dice che, alla fine, possiamo farcela. Ce n'è bisogno!
Ha fatto la sua gavetta al “Village” di New York, Massengill, proveniente dal Tennessee. E' cresciuto al circolo di Jack Hardy, al “Cornelia Street Café”, im nezzo a personaggi come Rod MacDonald, Lucy Kaplansky, Michael Fracasso e Cliff Eberahardt. Cercateli questi nomi, cercateli i loro dischi. Ne trarrete piacere. Ha scritto canzoni indimenticabili, David Massengil. Dall'indimenticabile “My name Joe” al capolavoro “Fairfax County”. Dalla splendida ballata, dove risuona l'eco di Woody Guthrie, “Sierra Bianca Massacre” fino alla dolce, quasi una ninna-nanna (come dice il titolo), “Don Quixote's Lullaby”, dedicata ad Abbie Hoffman (...me ne andai per cambiare il mondo, e quando tornai il mondo era rimasto uguale...).Fino a“Rider on a Orphan Train”, una delle più commoventi “train-song” mai ascoltate.
“Number One in America” ci racconta una storia vera. Una toria di “freedom riders”, ovvero degli incappucciati del Klu Klux Klan. Ci racconta del loro tentativo di marciare sul Tennessee e far bruciare sinistre croci. Il tentativo fallì miseramente – racconta Massengill – ed essi vennero ricacciati da dove venivano.

I primi in America
di David Massengill – 1987 -

Era il millenoventosessantatre
Nella mia cità natale, Bristol Tennessee
Ero seduto sulle ginocchia di mia madre
E guardavo “Amos 'n' Andy” sulla TV

Amos era vestito da Babbo Natale per la Vigilia di Natale
Una ragazzina lo stava strattonando per la manica
E diceva, “Posso avere una bambola che sia del mio colore, per favore?”
Lui rispose, “Tesoro, puoi fare finta...”

Proprio in quel momento squillò il telefono
Era il sindaco che chiedeva se mio padre fosse in casa
Nessun altro doveva sentire
E io e la mamma ascoltavamo sull'altro telefono

Il sindaco disse, “I “cavalieri della libertà” sono in marcia
e arriveranno per Natale
Hanno giurato di disobbedire alle nostre leggi
Perché le nostrre scuole sono bianche come la Via Lattea

Per cui adesso abbiamo un problema
Non possiamo fare la figura dei campagnoli
Per cui quando inizia il ballo
Diamo l'addio alla politica di Jim Crow

Hanno cominciato con quaranta acri e un mulo
E adesso vogliono nuotare nelle nostre piscine
Molto presto vorranno andare nelle scuole
Dove noi abbiamo imparato il principio informatore.”

Immagina mentre ci dicono come dobbiamo vivere
Immagina mentre ci dicono come dobbiamo vivere

Coro (o ritornello)

Noi siamo i primi in America
Primi in America
Batti il tamburo per zio Sam
Sconfiggili a Birmingham
Dinamite in una chiesa Battista
Quattro ragazze nell'età della puberta che perdono la retta via
Manichette di idranti e i “billy clubs”
Cani poliziotto e delinquenti razzisti
Teppisti a cavallo e linciaggi
I poliziotti dicono che stanno solo facendo il loro lavoro
per rimanere i primi in America

Le asce imbracciate contro il diritto di voto
Le giurie composte di soli bianchi
Sul fondo dei bus, non provocare guai
Distinti ma uguali per la gola

Questo è successo vent'anni fa
Cos'è cambiato nello status quo?
La terra delle libertà non si fa vedere
E' incatenata in un vicolo maleodorante

L'uomo dalla pelle nera continua ad essere offeso
Quando si avvicina al Country Club
Però va sempre bene per potare gli alberi
Per stare in ginocchio sul pavimento e strofinare

C'è un uomo d'affari sul suo yacht
E' un patriota
Egli dice che è tutto un complotto comunista
per diventare i primi in America

Coro (o Ritornello)

Il Ku Klux Klan è ancora in giro
Con un'autorizzazione a marciare sulla mia città
Però solo sul territorio della Virginia
In Tennessee dovettero ripiegare

Lo sceriffo fermo in piedi con i suoi vice intorno
apparentemente per mantenere la calma
ci fece però questa promessa:
“Perdio, loro non marceranno sul suolo del Tennessee!”

Le telecamere erano disposte su tre file
Noi ridevamo e piangevamo, fischiavamo e sbeffeggievamo
Ma sopratutto restammo fermi in piedi senza paura
finché il Ku Klux Klan non scomparve

In una qualche remota alba
Quando un nero sarà il presidente e non una pedina
Essi bruceranno croci sul prato della casa bianca
E parleranno dei tutti i giorni passati

Immagina mentre ci dicono come dobbiamo vivere
Immagina mentre ci dicono come dobbiamo vivere

La scorsa Vigilia di Natale al K-Mart
Una famiglia bianca povera
Il padre diceva, “Bambini, prendete un giocattolo solo – non di più
Perché non possiamo permettercelo...”

Guardai il figlio che sceglieva un pallone da basket
La ragazza più grande sceglieva uno scialle creolo
La più piccola scelse una bambola dalla pelle nera
E se la strinse al petto

Guardavo per vedere come avrebbero reeagito
Dal momento che loro erano bianchi e la bambola nera
Ma il padre e la madre furono pratici
e controllarono se la bambola fosse rotta

Così è possibile creare un movimento di ribellione
Dove il l bianco e il nero cammineranno mano nella mano
Finché raggiungeranno la terrà della libertà
Dove il leone giace con l'agnello

Noi siamo i primi in America
Primi in America
Batti il tamburo per zio Sam
Sconfiggili a Birmingham
Dinamite in una chiesa Battista
Quattro ragazze nell'età della puberta che perdono la retta via
Manichette di idranti e i “billy clubs”
Cani poliziotto e delinquenti razzisti
Teppisti a cavallo e linciaggi
I poliziotti dicono che stanno solo facendo il loro lavoro
per rimanere i primi in America

Noi trionferemo un giorno


martedì 5 settembre 2006

no more secrets


Il Club 33 è il club segreto di Disneyland, l'unico posto di tutto il parco dove vengano servite bevande alcoliche. È talmente segreto che molti dipendenti di Disneyland non sanno nemmeno che esista, al numero 33 di Rue Royale, nella New Orleans Square, vicino ai Pirati dei Caraibi e sulla destra del ristorante Blue Bayou. È identificato solo dal numero '33' su una barocca pianta ovale a fianco della porta...Si racconta che Disney volesse vivere lì e intrattenere i potenti, e così venne costruito un appartamento al secondo piano. Ma Disney morì prima che fosse completato, e l'appartamento fu trasformato in un club privato...Il Club 33 è pieno zeppo di spie audio. Minuscoli microfoni sono nascosti nei lampadari. Il mio informatore ha chiesto spiegazioni a un cameriere e gli è stato risposto che Disney voleva spiare le conversazioni degli ospiti. Il cameriere ha anche indicato un armadietto delle porcellane destinato a contenere una telecamera nascosta...Si può dire che Disney sia diventato un po' strambo in vecchiaia. A quanto sembra, aveva intenzione di parlare alla gente dalla testa di alce della Sala Trofei. Che contiene un altoparlante camuffato.

- William Poundstone – Bigger Secrets -

intuizioni



"La sede dell'anima e il controllo dei movimenti volontari, anzi delle funzioni nervose in generale, vanno cercate nel cuore.
Il cervello è un organo di secondaria importanza."

- Aristotele – De Motu Animalium -

visioni


"È molto strano per me guardare la vostra generazione. Abbiamo sempre avuto l'idea che ogni generazione sarebbe stata più intelligente, che ogni generazione sarebbe stata più progressista, e avrebbe sostenuto di più la causa della giustizia e della pace. Ma il mio figlio minore, che ha sedici anni, mi dice “Papà, sei così bizzarro e romantico. Tu pensi che le cose andranno meglio, che ci sia speranza, ma nessuno di noi lo crede.” E poi mi racconta che metà del mondo sarà spazzato via dall'AIDS, che la calotta polare si scioglierà, che entro trent'anni la foresta pluviale tropicale sarà scomparsa e non avremo più ossigeno, il che comunque non ha la minima importanza dato che l'olocausto nucleare si verificherà entro sette anni, e se io sono un po' dubbioso sulle date, lui dice che può dimostrarmi tutto con il suo computer...A mio giudizio, se la prossima generazione darà qualche contributo si tratterà della scoperta di un modo di lottare per i cambiamenti sociali senza nutrire la minima speranza. Negli anni Sessanta, se assestavi un colpo alla Terra, la Terra te lo restituiva, proprio come diceva Einstein. Sapevamo che avremmo vinto ogni battaglia perché crescevamo ogni giorno. Ogni giorno era un nuovo giorno e trovarsi sull'orlo dell'apocalisse era romantico. Ma forse la visione che avete voi è, tra le due, la più realistica..."

- Abbie Hoffman all'Università della California del Sud – 1987 -

lunedì 4 settembre 2006

nichilismo



"Sei a teatro. Lo spettacolo è finito.
Ti alzi per prendere il cappotto e andare a casa.
Ti volti. Niente più cappotto. Niente più casa."

- Vasilij Rozanov -

col sangue agli occhi



George Jackson
di Bob Dylan

Stamattina mi sono svegliato
e c'erano lacrime nel letto
Hanno ucciso un uomo che amavo davvero
la pallottola gli ha attraversato la testa
o signore
hanno ucciso George Jackson
o signore
l'hanno messo sottoterra

Lo avevano spedito al fresco
per una rapina da settanta dollari
Avevano chiuso la porta dietro di lui
e avevano gettato via la chiave
o signore
hanno ucciso George Jackson
o signore
l'hanno messo sottoterra

Non si faceva mettere i piedi in testa da nessuno
Non si era mai inchinato o inginocchiato
Le autorità lo odiavano
perché era troppo vero
o signore
hanno ucciso George Jackson
o signore
l'hanno messo sottoterra

I secondini lo insultavano
e lo guardavano con disprezzo
Ma temevano la sua forza
e avevano paura del suo amore
o signore
hanno ucciso George Jackson
o signore
l'hanno messo sottoterra

Certe volte penso che il mondo
sia solo il cortile di una grande prigione
Alcuni di noi sono detenuti
e tutti gli altri, secondini
o signore
hanno ucciso George Jackson
o signore
l'hanno messo sottoterra


venerdì 1 settembre 2006

la storia leggera


Prendo il titolo a prestito da un bel libro di Stefano Pivato, edito dal “Mulino”, per parlare di Fabrizio de André come “storico”. Il disco di storia si chiama “Rimini”. E segue di qualche anno quel bel romanzo politico che ha per titolo “storia di un impiegato”. In mezzo due dischi, di cui il primo (“Canzoni”) è una sorta di raccolta di cover (anche proprie, ma cover). In mezzo cinque anni lunghi come fossero stati cinquanta!
La “storia”, introdotta proprio da quella “Rimini” che da il titolo al disco, si svolge su due canzoni. Fondamentalmente. Comincia con “Coda di Lupo”. Si parte “da lontano”, e si usa un artificio, parlando della storia italiana che dal dopo-guerra arriva al 1977 guardandola in quello specchio che sono i nativi americani. Il facile riferimento sono gli “indiani metropolitani”. Come in un immenso giro, dagli indiani si parte e agli indiani si arriva!
De André parla, in questa canzone scritta nel 1978, del vero e ultimo conflitto che ha segnato la storia della società italiana: quello fra un'estrema sinistra antagonista ed il più grande partito comunista d'europa, assolutamente incapace, nella sua grettezza, di comprendere l'impulso al cambiamento reale. Incapace di sfruttare perfino la vittoria elettorale del 1975, occupato com'era a far professione di moralismo e di austerità. L'accusa è la stessa rivolta dal giovane Sofri al vecchio Togliatti. L'accusa non era quella di non aver fatto la rivoluzione, in Italia. Ma di averla impedita!

Coda di Lupo


Quando ero piccolo m'innamoravo di tutto
correvo dietro ai cani
e da marzo a febbraio mio nonno vegliava
sulla corrente di cavalli e di buoi
sui fatti miei e sui fatti tuoi
e al dio degli inglesi non credere mai.

Il “dio degli inglesi” sono i valori della borghesia che vengono usati al fine di far presa su una classe che si è costituita nel fuoco della resistenza e della “liberazione”. E' il nonno il simbolo di questa classe e del sogno di un mondo diverso che poteva essere e non è mai stato.

E quando avevo duecento lune e forse
qualcuna è di troppo
rubai il primo cavallo e mi fecero uomo
cambiai il mio nome in “Coda di Lupo”
cambiai il mio pony con un cavallo muto
e al loro dio perdente non credere mai.

Il dio perdente. Quello che viene a prospettare un bell'impiego da ragioniere. Sono i primi anni cinquanta. I primi sprazzi di ribellione giovanile. Le bande. I “teddy-boys”. L'emigrazione, interna ed esterna, ai massimi storici.

E fu nella lunga notte della stella con la coda
che trovammo mio nonno crocifisso sulla chiesa
crocifisso con forchette che si usano a cena
era sporco e pulito di sangue e di crema
e al loro dio goloso non credere mai

Il dio goloso è il partito comunista, in piena forma. Sono gli anni sessanta. Il nonno prova a finire il lavoro. Siamo a Genova, in Sicilia, a Reggio Emilia. Il governo è il governo Tambroni. Niente da fare, sono solo bande di “provocatori” da immolare sull'altare dei valori della pacifica convivenza.
Si mangeranno il nonno e sputeranno i Notarnicola e i Cavallero. Banditi a Milano!

E forse avevo diciott'anni e non puzzavo più di serpente
possedevo una spranga un cappello e una fionda
e una notte di gala con un sasso a punta
uccisi uno smoking e glielo rubai
e al dio della Scala non credere mai.

Il dio della Scala! La prima contestazione, nel 1968, ad avere gli onori della cronaca, e l'eco della stampa. Le uova marce che aspettavano lor signori alla prima della Scala. Un'Italia del dopo-boom, già e ancora divisa. Una nuova generazione che si affacciava alla storia, La prima violenza collettiva. Quella fatta e quella subita!

Poi tornammo in Brianza per l'apertura
della caccia al bisonte
ci fecero l'esame dell'alito e delle urine
ci spiegò il meccanismo un poeta andaluso
“Per la caccia al bisonte” - disse - “il numero è chiuso”
e a un dio a lieto fine non credere mai.

Il dio a lieto fine. Quello che, semplicemente, non c'è! Un decennio di lotte e di contestazioni, e la risposta è, ancora una volta, l'incapacità di recepire le istanze che insorgono dal basso della società. La risposta è il numero chiuso nelle Università. La strada è tracciata.

Ed ero già vecchio quando vicino a Roma
a Little Big Horn
capelli corti generale ci parlò all'Università
dei fratelli tute blu che seppellirono le asce
ma non fumammo con lui non era venuto in pace
e a un dio fatti il culo non credere mai.



Il dio-fatti-il culo. E così arriviamo a Luciano Lama, campione dell'ideologia, la più becera. Quella fondata sui valori assurdi de lavoro e del sacrificio che, a fronte del più imponente movimento che anima l'Italia del dopo-guerra, non trova niente di meglio che attuare la più squallida delle provocazioni alla “Sapienza” di Roma. E' la più grande vittoria del movimento che finalmente comincia a regolare i conti, spazzandolo via, lui e il suo palco e il suo servizio d'ordine. E' anche l'inizio della sconfitta.

E adesso che ho bruciato venti figli sul mio letto di sposo
che ho scaricato la mia rabbia in un teatro di posa
che ho imparato a pescare con le bombe a mano
che mi hanno scolpito in lacrime sull'arco di Traiano
con un cucchiaio di vetro scavo nella mia storia
ma colpisco un po' a casaccio perché non più memoria
e a un dio senza fiato non credere mai.

Il dio senza fiato. Nessuna speranza. La lotta è finita in un vicolo cieco. Le aberrazioni di una “vita privata” che non si sapeva e che si era riusciti fino ad allora a scansare. La lotta armata e l'eroina. La cosiddetta “arte”, come territorio oramai separato. La risposta individuale ai problemi della sopravvivenza, al quotidiano. Rimangono solo pochi, disperati, senza capacità di discrimine che sparano a tutto quel che si muove dall'altra parte! Ne parlerà nella canzone che chiude il disco, e chiude anche la storia di quegli anni:

Parlando del naufragio della “London Valour”

I marinai foglie di coca digeriscono in coperta
Il capitano ha un amore al collo venuto apposta dall'Inghilterra
Il pasticciere di via Roma sta scendendo le scale
ogni dozzina di gradini trova una mano da pestare
ha una frusta giocattolo sotto l'abito da tè.

E la radio di bordo è una sfera di cristallo
dice che il vento si farà lupo, il mare si farà sciacallo
Il paralitico tiene in tasca un uccellino blu cobalto
ride con gli occhi al circo Togni quando l'acrobata sbaglia il salto.

E le ancore hanno perduto la scommessa e gli artigli
I marinai uova di gabbiano piovono sugli scogli
Il poeta metodista ha spine di rosa nelle zampe
per fare pace con gli applausi per sentirsi più distante
la sua stella si è oscurata da quando ha vinto la gara di sollevamento pesi.

E con uno schiocco di lingua parte il cavo dalla riva
ruba l'amore del capitano attorcigliandole la vita
il macellaio mani di seta si è dato un nome da battaglia
tiene fasciate dentro il frigo nove mascelle antiguerriglia
ha un grembiule antiproiettile fra il giornale e il gilè.

E il pasticciere e il poeta e il paralitico e la sua coperta
si ritroveranno sul molo con sorrisi da cruciverba
a sorseggiarsi il capitano che si sparava negli occhi
e il pomeriggio a dimenticarlo con le sue pipe e i suoi scacchi
e si fiutarono compatti nei sottintesi e nelle azioni
contro ogni sorta di naufragi e di altre rivoluzioni
e i macellaio mani di seta distribuì le munizioni.


Me lo sono chiesto tutto d'un tratto, E' stato come una sensazione, con in più fatto forte di una piccola nota di Romana che in “amico fragile” argomenta come vi si possa leggere una metafora della normalizzazione che si è avviata, alla fine degli anni settanta (siamo nel 1978), prendendo a pretesto il sequestro Moro.
Allora mi sono detto che forse il naufragio della London Valour non parlava di una notizia di cronaca di una nave realmente naufragata in porto, bensì si provava a descrivere lo sbaragliamento dei gruppi armati. Il tutto visto come uno ... spettacolo. Forse....
Cosa , meglio di una nave, da usare come metafora per un movimento che ha attraversato un decennio? Come dire: “navigammo su fragili vascelli/per affrontare del mare la burrasca/ed avevamo gli occhi troppo belli ...
E poi la “London Valour” naufraga nel porto! Come se, in fondo, non fosse mai partita. Oppure, meglio e più probabilmente, naufraga quando oramai è quasi arrivata. Ce l'aveva quasi fatta!
E chi sono i “marinai foglie di coca” , in coperta, che subito dopo si trasformano in “marinai uova di gabbiano” a piovere sugli scogli? Un riferimento alla generazione più carcerata della storia d'Italia, per dirla con Erri de Luca? Una generazione destinata a passare dal “lottavano così come si gioca” alla consapevolezza della morte. Presi in mezzo fra lotta armata e droga! E chi è il capitano dall'amore al collo, rubatogli da un cavo? Lo stesso che trovò un sorriso sulla strada che porta a Trento, in “La domenica delle salme”? E perché il pasticciere di via Roma, che pesta una mano ogni dodici gradini (il partito comunista italiano, o chi per lui?) e il poeta paralitico che tiene in tasca un uccellino blu cobalto (che sembra uno solo, all'inizio, per poi diventare due persone), e ride quando l'acrobata sbaglia il salto ( i grilli parlanti di certa sinistra extra-parlamentare, o chi per loro?) si ritrovano sul molo (salvi!) con “sorrisi da cruciverba” a sorseggiarsi il capitano che soccombe (sparandosi negli occhi)? E decidono di dimenticarlo, il capitano, ormai compatti nel rifiutare ogni rivoluzione (che, per loro, non può finire altrimenti che in un naufragio).
E il “macellaio mani di seta”, che alla fine distribuisce le munizioni, chi altri è se non il generale Della Chiesa?
Il pasticciere, il poeta e il paralitico dell'ultima strofa si alleano al macellaio, con le sue mascelle anti-guerriglia, “contro ogni sorta di naufragi o di altre rivoluzioni”!


....pagherete caro...pagherete tutto...

Quien puede matar a un Nino?


L'isola di Almanzora. Quanto l'ho cercata, sulle mappe! Credevo che esistesse davvero. Forse è cominciata da lì, la mia mania per le isole. Per qualche tempo ho immaginato che fosse l'isola di Alboran, nel mediterraneo, fra la Spagna e il Marocco. Prima di scoprire che Alboran è un isolotto disabitato, che ha avuto una sua storia e una sua importanza, ma che adesso è solo un faro su un grande “scoglio”. L'isola di Almanzora è una strana isola, vista in una film una vita fa. Il cimena era l'astor d'essai, a porta romana, a Firenze. L'anno non sto nemmeno a dirlo, ma era lo scorso millennio. Ma come si può uccidere un bambino? Chiedeva il titolo del film che cominciava un po' come “Uccelli” di Hitchcock, facendo vedere attraverso filmati di archivio come i bambini fossero sempre state le vittime designate di tutto quello che “gli adulti” hanno “commesso”. Guerre, carestie, epidemie e piccoli corpi senza vita. Poi cominciava la storia. La stessa storia che Stephen King racconta in “Grano rosso sangue” e, forse lo stesso film che veniva raccontato, qualche tempo prima che lo facessero King e Serrador, ne “Il villaggio dei dannati”. Una coppia, lei incinta, sbarcano in quest'isola per una vacanza. Lui, che sull'isola ha assolto il servizio militare, voleva far vedere il posto alla moglie. Ma, stranamente, non ci sono adulti sull'isola. Solo bambini. La terribile verità si scopre piano piano, inesorabilmente. Ma il vero film si svolgeva in platea, dove si potevano sentire le esortazioni, lanciate dalla massa degli spettatori coinvolti, che venivano urlate agli attori incapaci, quasi fino alla fine, di rompere quelle tenere testoline ricciolute. Niente da dire, un bel psicodramma! Ma come si può uccidere un bambino? Si può, si può! Certo che si può.
Perché ho scritto questa cosa? Semplicemente perché ne avevo voglia, ed è da quando l'ho visto quella volta che questo film non mi ha mai lasciato. Ed anche perché sembra che il 3 ottobre di quest'anno uscirà il dvd del film, per “NoShame”, distribuito da Cecchi Gori. Cercatelo, compratelo, rubatelo, scaricatevelo. Fate come volete, ma cercate di metterci occhi e orecchie sopra a quel film di Narciso Ibanez Serrador, spagnolo.